Collisione tra una vedetta albanese e una corvetta della Marina Militare Italiana.

(Corte di Cassazione penale, sez. IV, sentenza 10 giugno 2014, n. 24527)

…, omissis …

In fatto

1.1. – Con sentenza resa in data 19.3.2005, il tribunale di Brindisi ha condannato N.X. e L.F. alle pene, rispettivamente, di quattro anni e di tre anni di reclusione in relazione ai reati di naufragio colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, commessi, in data (OMISSIS), nel tratto di mare tra (OMISSIS), oltre alla condanna, il L. in solido con il Ministero della Difesa, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede.

Ai due imputati, il tribunale brindisino ha ascritto la responsabilità della colposa causazione del naufragio (e delle relative conseguenze) della motovedetta albanese (OMISSIS) (al cui comando si trovava il N.) verificatosi, nella data e nel luogo indicati, a seguito della collisione della motovedetta albanese con la corvetta (OMISSIS) della marina militare italiana posta sotto il comando del capitano di fregata L.F..

La vicenda in esame aveva preso le mosse dall’imbarcazione sulla motovedetta (OMISSIS) di un centinaio (e forse più) di profughi albanesi in fuga dalla guerra civile allora in corso nel territorio di Albania; imbarcazione improvvidamente avvenuta sulla motovedetta in esame, nella specie consistente in una nave da guerra (priva di bandiera) della lunghezza di 21 metri e in pessime condizioni strutturali e di manutenzione, il cui equipaggio era formato da due soli uomini: il comandante-timoniere (identificato nell’odierno imputato N.) e il motorista.

L’imbarcazione albanese era stata quindi destinata all’agevolazione dell’immigrazione clandestina in Italia di profughi albanesi, nel quadro di un’organizzazione a tal fine messa in piedi da avventurieri senza scrupoli, verosimilmente appartenenti alla malavita locale, del tutto sfuggiti al controllo del governo dello Stato albanese.

Proprio allo scopo di far fronte a tale fenomeno, il governo albanese aveva raggiunto, nello stesso periodo in esame, alcuni accordi operativi con il governo italiano, diretti a ottenere la collaborazione di quest’ultimo nell’interdizione dell’immigrazione illegale via mare dei profughi albanesi sulle coste italiane: accordi che avevano previsto e regolato il potere della marina italiana di procedere all’arresto della navigazione delle navi di profughi provenienti dall’Albania e alla relativa forzosa riconduzione nei porti albanesi.

1.2. – Secondo la ricostruzione del fatto contenuta nella sentenza impugnata, la sera del (OMISSIS) la motovedetta (OMISSIS) (in navigazione verso l’Italia, senza bandiera e colma di profughi albanesi) era stata avvistata dalla fregata italiana (OMISSIS) impegnata nel pattugliamento delle acque territoriali albanesi nell’ambito dei menzionati accordi italo-albanesi; la fregata italiana, al fine di bloccare sul nascere l’immigrazione illegale dei cittadini albanesi, aveva ripetutamente posto in essere segnalazioni e intimazioni affinchè la motovedetta facesse ritorno verso le coste albanesi, senza tuttavia raggiungere il proprio scopo, poichè la motovedetta albanese non aveva mutato la propria rotta, proseguendo in direzione delle rive italiane ponendo in essere, di fronte alle manovre della fregata militare italiana, rapide contromanovre evasive.

Al fine di ottenere una collaborazione operativamente più efficace in termini di agilità di manovra, il comandante del Dipartimento marittimo di Taranto (prontamente allertato dai comandi della fregata (OMISSIS)) aveva quindi dato disposizioni affinchè la corvetta (OMISSIS), al comando del capitano L., lasciasse la zona di pattugliamento assegnatale onde dirigersi in ausilio alla fregata (OMISSIS).

Giunta nella zona delle operazioni, ormai in acque extraterritoriali, anche la corvetta aveva effettuato attività d’intimazione verbale all’indirizzo della motovedetta albanese, avviando inoltre manovre di disturbo alla navigazione, stante la persistente inottemperanza del comandante del naviglio albanese alle intimazioni rivoltegli dalla marina militare italiana.

Intorno alle 19,00 del (OMISSIS), nel corso di un’ennesima manovra volta a costringere la (OMISSIS) a invertire la rotta, le due navi erano venute a trovarsi a una distanza laterale inferiore a quella di sicurezza, sì che, malgrado l’ordine di “pari indietro tutta” impartito dal comandante L., la collisione tra le due imbarcazioni, anche in considerazione delle avverse condizioni meteo- marine, fu inevitabile e, ancorchè non particolarmente violenta, stante l’enorme differenza di stazza tra le due navi, non lasciò scampo alla motovedetta albanese, investita all’altezza della sua parte poppiera e poi del castelletto della timoneria: la (OMISSIS) finì con l’inabissarsi in un brevissimo volgere di tempo, trascinando con sè sui fondali dell’Adriatico il proprio carico umano, fatta eccezione, per larga parte, di profughi che, trovandosi in coperta, erano stati sbalzati in acqua a seguito dell’urto.

1.3. – Ad esito dell’articolata e complessa indagine preliminare condotta a carico del comandante della corvetta della marina militare italiana e del comandante della motovedetta albanese (identificato in N.X.), intervenuta la condizione di procedibilità prevista dagli artt. 9 e 10 c.p., veniva quindi disposto il rinvio a giudizio dei due imputati.

A carico del L. veniva quindi contestato il ricorso di significativi elementi di colpa consistiti nell’avere, l’imputato, ingaggiato un irresponsabile e imprudente inseguimento della nave albanese, non potendo egli non rendersi conto, attesa la sua specifica competenza marinara, delle condizioni del mare, della visibilità quasi nulla e della difficile manovrabilità e stabilità del mezzo inseguito, anche in relazione alle evidenti cattive condizioni dello scafo albanese e dello spropositato numero delle persone imbarcate sullo stesso.

Secondo l’accusa, il L. aveva avvicinato la prora della propria nave fino all’irrisoria distanza di 10 metri e ancora meno, quasi a sfiorare la poppa e la murata della nave albanese senza calcolare, come avrebbe dovuto, i possibili esiti, il rollio di detto mezzo, così come determinato dal moto ondoso, l’effetto, dapprima respingente e poi attrattivo, dei vortici formati dall’incedere degli scafi nell’acqua, la possibilità di un’errata manovra da parte di uno dei due comandanti, avuto riguardo alla rotta seguita, alla distanza tra i mezzi, alla velocità e all’abbrivio inevitabilmente conseguente a un arresto del senso di marcia, o anche a un’inversione dello stesso: manovra che si sarebbe resa indispensabile (così come avvenuto) in caso di emergenza.

Con il proprio comportamento, il L. aveva quindi violato le disposizioni emesse dal comandante in capo della squadra navale del (OMISSIS) (ove si richiedeva di operare in sicurezza) e del (OMISSIS), ancorchè queste ultime non ancora in vigore, nelle quali, al punto M9, veniva specificato che le manovre cinematiche di interdizione dovevano essere effettuate rispettando formalmente le norme per prevenire gli abbordi in mare.

Su tale punto, in particolare, la convenzione di Londra del 1972, relativa alle regole internazionali per prevenire gli abbordi in mare, prevede, all’art. 6, che ogni nave deve sempre procedere a velocità di sicurezza in modo da poter agire in maniera appropriata ed efficiente per evitare abbordaggi e poter essere arrestata entro una distanza adeguata alle circostanze, alle condizioni del momento, e, all’art. 13, che una nave che ne raggiunge un’altra, deve lasciare libera la rotta alla nave raggiunta.

Nella specie, il L., nell’ambito delle manovre di disturbo (cd. harassment) della navigazione dell’imbarcazione albanese, aveva finito con urtare la zona compresa tra la poppa e la metà posteriore della murata destra della nave albanese, il castelletto della timoneria, e quindi dopo l’intraversamento e il capovolgimento, anche la chiglia di detto mezzo, propria a causa dell’irrisoria distanza cui si era giunti nel corso dell’ingaggio.

Al L. era stato altresì contestato di aver filato in mare un cavo con lo scopo di immobilizzare il mezzo albanese mediante il blocco e l’arresto dell’elica dello stesso, nonostante che tale manovra (ordinata il minuti prima della collisione) non fosse autorizzata, ed altresì di aver violato la disposizioni della convenzione di Montego Bay del 1982, dove si stabilisce il principio, peraltro generalmente riconosciuto dalle normative e dalle consuetudini della navigazione, che un intervento coercitivo debba essere considerato illegittimo laddove comporti un rischio per beni giuridici, quali la vita e l’integrità fisica dei civili, sproporzionato rispetto al rischio che il comportamento che si vuole impedire comporta per la tutela della sicurezza nazionale.

Tale violazione trovava tutta la propria evidenza nel caso di specie, avuto riguardo alla presenza di donne e bambini sull’imbarcazione albanese (circostanza personalmente vista e nota al L.) che in caso di naufragio (assai prevedibile, dato il contesto e la virulenza dell’ingaggio intrapreso tra le due navi) ben difficilmente avrebbero potuto salvarsi, avuto riguardo alle condizioni del mare, all’imminente oscurità e alla temperatura dell’acqua, che nel mese di marzo non supera i 13 gradi, consentendo solo pochi minuti di sopravvivenza a persone fisicamente non allenate.

Al N., viceversa, era stato contestato di consentire e organizzare l’imbarco di circa cento persone su una nave di 21 metri, in pessime condizioni strutturali, con conseguente grave rischio per la stabilità e manovrabilità del mezzo nonchè per la tenuta in mare; e inoltre di aver disposto che la nave prendesse il largo in tali condizioni, in assenza di qualsivoglia dotazione di sicurezza, tra cui principalmente le scialuppe, i salvagenti e i mezzi collettivi di salvataggio.

Lo stesso, una volta intercettato dalle unità della marina militare italiana, anzichè fermarsi, ottemperando alle legittime intimazioni inviate da dette unità, ingaggiava un’irresponsabile e imprudente sfida, contromanovrando incurante del rischio cui sottoponeva le persone incaricate anche in virtù del rapido peggioramento delle condizioni meteo-marine.

Per effetto del comportamento dei due imputati, ignoti complici tra loro, si erano dunque verificati gli eventi dannosi connessi al naufragio, con il decesso di gran parte dell’equipaggio albanese.

1.4. – Con sentenza in data 29.6.2011, la corte d’appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarati inammissibili gli appelli incidentali proposti avverso la sentenza di primo grado da talune parti civili, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dei due imputati in relazione ai reati di lesioni colpose loro ascritti, poichè estinti per prescrizione, rideterminando le pene a carico dei due imputati, nella specie stabilendole nella misura di tre anni e 10 mesi di reclusione a carico del N. e di due anni e quattro mesi di reclusione a carico del L. che, in solido con il responsabile civile Ministero della Difesa, ha condannato al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili individuate in dispositivo determinandoli nelle misure partitamente indicate.

1.5. – Avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione N.X., L.F., unitamente al Ministero della Difesa, nonchè le parti civili di seguito indicate.

2.1.1. – N.X., a mezzo del proprio difensore, propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi d’impugnazione.

Con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, per avere la corte territoriale (sulla scia della sentenza di primo grado) ritenuta legittima l’identificazione del capitano della nave albanese nella persona dell’imputato, attraverso le dichiarazioni rese dall’ispettore Co.Do., in servizio di polizia giudiziaria, su quanto sul punto riferito da taluni passeggeri dell’imbarcazione albanese naufragata.

In particolare, il ricorrente, ritenuta l’applicabilità al caso di specie della disciplina di cui al novellato art. 195 c.p.p., comma 4, (circa il divieto imposto ad ufficiali e agenti della polizia giudiziaria di deporre sul contenuto di dichiarazioni testimoniali acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357 c.p.p.), ha denunciato la violazione di tali ultimi articoli per avere i giudici del merito omesso di escutere direttamente i testimoni richiamati dalla polizia giudiziaria, e per avere utilizzato, ai fini dell’identificazione del comandante della motovedetta (OMISSIS), le dichiarazioni de relato dell’organo di polizia giudiziaria a loro volta filtrate attraverso la traduzione di un interprete. Elementi, questi ultimi, del tutto inidonei a costituire un adeguato e legittimo riscontro degli accertamenti contenuti nella sentenza di condanna dell’odierno imputato quale responsabile del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in relazione al medesimo fatto oggetto dell’odierno giudizio, al di là del significato delle dichiarazioni rese da altri sette testimoni albanesi (ingiustificatamente ritenuti inattendibili dai giudici del merito) che hanno categoricamente escluso come l’odierno imputato avesse assunto il ruolo di capitano della nave naufragata.

2.1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente si duole dell’omessa valutazione, da parte del giudice d’appello, di una prova decisiva e del vizio di motivazione della sentenza impugnata, per avere la corte territoriale inammissibilmente trascurato l’esame della consulenza tecnica della difesa redatta dal comandante di vascello Vincenzo Turco, limitandosi a rilevarne l’avvenuto superamento attraverso la considerazione del complessivo iter logico-giuridico sviluppato nella motivazione della sentenza di primo grado, in contrasto con gli approfonditi e scientificamente ineccepibili rilievi articolati nella ricca relazione tecnica depositata dalla difesa, all’esito della quale era emersa la riconducibilità della responsabilità del naufragio alla colpa esclusiva del comandante della corvetta della marina militare italiana L.F..

2.2.1. – L.F. e il Ministero della Difesa, in qualità di responsabile civile, propongono ricorso sulla base di otto motivi d’impugnazione.

Con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione di legge in relazione all’applicazione del contesto normativo di diritto internazionale e delle norme del diritto della navigazione (con particolare riguardo alla convenzione di Montego Bay del 1982, alla convenzione di Londra del 1972 e all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite), nonchè per vizio di motivazione in ordine al rigetto dei motivi di gravame proposti in grado d’appello in relazione all’applicabilità del predetto contesto normativo alla vicenda oggetto di giudizio, anche alla stregua della normativa speciale regolante lo stato e i doveri dei militari.

In particolare, deducono i ricorrenti come i poteri di polizia nella specie esercitati dall’imputato (nella forma del fermo e del dirottamento della nave albanese) fossero stati espressamente attribuiti alle navi militari italiane dall’accordo italo-albanese del 25.3.1997, a sua volta assunto, per espressa previsione dell’art. 110 della Convenzione di Montego Bay, in deroga al divieto di abbordaggio ivi imposto.

Del tutto erroneamente, pertanto, i giudici del merito hanno contestato all’imputato la violazione del divieto di abbordaggio imposto dalla citata Convenzione di Montego Bay, nonchè delle norme della Convenzione di Londra del 1972 (e delle regole dettate allo scopo di prevenire gli abbordi in mare), siccome in nessun modo richiamate dalla citata Convenzione di Montego Bay, a dispetto dell’espressa attribuzione dei poteri di fermo e di dirottamento delle navi albanesi convenzionalmente attribuiti dal governo albanese a quello italiano.

Proprio in esecuzione dei richiamati accordi italo-albanesi, l’odierno imputato aveva correttamente posto in essere, secondo la crescente gradualità raccomandata delle autorità militari italiane competenti, le azioni di intimazione, di disturbo con manovre cinematiche, di intimidazione e quindi di fermo e di successivo dirottamento nei porti albanesi, costituenti le forme coercitive legittimamente consentite e quindi ordinate dai superiori gerarchici dell’imputato a carico dell’imbarcazione albanese.

In relazione all’esercizio di tali poteri coercitivi (rientranti nell’esecuzione di un’attività di polizia internazionale da parte della nave militare italiana), del tutto improprio ed erroneo deve ritenersi, ad avviso dei ricorrenti, il richiamo dei giudici del merito al Regolamento per la prevenzione degli abbordi in mare (di cui alla Convenzione di Londra del 1972), attesa l’inapplicabilità di tale testo normativo alle navi impegnate nell’esecuzione di operazioni di polizia, nella specie condotte dall’imputato, in esecuzione di un ordine legittimo dell’autorità militare e governativa (rilevante anche ai fini dell’applicabilità dell’art. 51 c.p.), nel pieno rispetto delle regole di diligenza, prudenza e perizia tecnica allo stesso imposte, con la conseguente attribuibilità dell’esclusiva responsabilità della collisione tra le navi alla colpa del comandante della motovedetta albanese.

2.2.2. – Con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di motivazione in relazione al riconosciuto preteso carattere irresponsabile e imprudente della condotta dell’imputato L. consistita nel compimento di pericolose manovre di disturbo contro la motovedetta albanese sin da prima del momento della collisione.

In particolare, i ricorrenti evidenziano il carattere meramente congetturale dell’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il comandante della corvetta (OMISSIS) avesse ispirato la propria azione dissuasiva nei confronti della motovedetta albanese a supposte indicazioni operative fornite dalle autorità di comando in occasione dell’avvicendamento con la fregata (OMISSIS), dirette a sollecitare una più decisa e stringente azione di interposizione cinematica e di affiancamento dell’imbarcazione albanese fino al punto di toccare: affermazione tratta dalla corte territoriale sulla base di un palese travisamento delle prove assunte e quindi di mere ipotesi, prive di fondamento logico e del tutto sfornite di concreti e adeguati riscontri probatori.

2.2.3. – Con il terzo motivo, i ricorrenti si dolgono del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata nell’attestare la sussistenza dell’asserito carattere aggressivo della condotta dell’imputato L. consistita nel compimento di pericolose manovre di disturbo della motovedetta albanese sin da prima del momento della collisione, con affiancamenti asseritamente pericolosi, assunzione di manovre zigzaganti per tagliare la rotta della motovedetta inseguita, supposta predisposizione di una manovra con cavo per il blocco delle eliche della motovedetta.

Sul punto, i ricorrenti sottolineano come nessuna manovra cinematica di interposizione, nè alcuna manovra zigzagante, fu mai posta in essere dalla corvetta (OMISSIS), come attestato (oltre che alle testimonianze assunte sul punto) dalle risultanze del grafico elaborato in sede d’inchiesta sommaria sulla base dei punti nave elaborati dal GPS di bordo riproducente la rotta della (OMISSIS) nell’arco di tempo immediatamente precedente la collisione tra le imbarcazioni, essendo viceversa fondate, le contrarie attestazioni contenute nella sentenza impugnata, sulla base di una motivazione illogica e contraddittoria, integralmente condizionata da supposizioni meramente ipotetiche e dal ricorso di evidenti travisamenti della prova.

2.2.4. – Con il quarto motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di motivazione con riguardo alla ricostruzione delle condizioni meteo-marine e della luminosità al momento della collisione tra le due imbarcazioni, attese le risultanze delle prove testimoniali acquisite sul punto e della circostanza della permanenza in mare per oltre un’ora delle scialuppe di salvataggio messe in acqua dalla Sibilla dopo la collisione (dalle dimensioni di gran lunga minori della motovedetta albanese); circostanza idonea ad escludere la sussistenza di condizioni meteo-marine tali da creare difficoltà o impaccio alle attività di manovra della (OMISSIS).

2.2.5. – Con il quinto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di motivazione con riguardo alla ricostruzione della rotta tenuta dalla (OMISSIS) in relazione alla c.d. manovra del cavo quale sintomo della condotta aggressiva dell’imputato L., essendo emerso dagli atti del processo come la corvetta italiana avesse filato in mare solo 15 metri di cavo (a dispetto degli almeno 40/45 metri che sarebbero stati necessari) 10/15 minuti prima del momento della collisione, senza compiere nessuna delle manovre indispensabili per la realizzazione dell’obiettivo di arresto, mediante l’azione del cavo, della motovedetta albanese; con la conseguente riconducibilità, delle asserzioni sul punto contenute nella sentenza impugnata, al ricorso di un’evidente travisamento della prova.

2.2.6. – Con il sesto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di motivazione in ordine alla ricostruzione, operata dalla corte territoriale, circa la dinamica della collisione e il contenuto delle consulenze tecniche acquisite nel corso del giudizio.

In particolare, i ricorrenti evidenziano come i giudici del merito avessero omesso di risolvere il contenuto contraddittorio delle annotazioni riportate dai consulenti sullo stato dei telegrafi di macchina della nave albanese, con la conseguente omessa motivazione in relazione a un punto fondamentale ai fini della ricostruzione della cinematica del momento della collisione tra le due imbarcazioni.

2.2.7. – Con il settimo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per l’omessa assunzione di una prova decisiva, consistente nell’ammissione di un sopralluogo e di una conseguente perizia d’ufficio al fine di ricostruire, in termini obiettivi (anche attraverso il compimento di un esperimento giudiziale), le effettive caratteristiche della cinematica delle manovre effettuate dalle imbarcazioni al momento della collisione, a fronte del carattere contraddittorio e lacunoso dei dati sul punto acquisiti nelle consulenze tecniche delle parti.

2.2.8. – Con l’ultimo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione di legge, avendo i giudici del merito ingiustificatamente omesso di pronunciare, in applicazione dell’art. 51 c.p., l’assoluzione dell’imputato per avere lo stesso eventualmente commesso i fatti contestati nell’adempimento di un dovere, sia pure putativo.

2.3. – Le parti civili C.A., G.V., X.P. e B.B., a mezzo del comune difensore, censurano la sentenza impugnata per violazione di legge, per avere la corte di appello di Lecce erroneamente dichiarato inammissibile l’appello dei ricorrenti per violazione dell’art. 583 c.p.p., là dove questi ultimi avevano proposto appello mediante atto trasmesso con raccomandata alla cancelleria del tribunale di Brindisi nel rispetto dei termini previsti per legge in data 25.2.2006, e solo successivamente anche a mezzo fax in pari data.

Ciò posto, del tutto erroneamente la corte d’appello leccese ha ritenuto inammissibile l’appello dei ricorrenti, siccome proposto a mezzo fax, trascurando che lo stesso appello era stato ritualmente proposto mediante spedizione per lettera raccomandata entro il termine utile per l’impugnazione della sentenza di primo grado.

2.4. – A mezzo del comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi d’impugnazione le seguenti parti civili: Be.Al., + ALTRI OMESSI .

Con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al rigetto pronunciato dalla corte territoriale con riferimento alle domande risarcitorie avanzate dai ricorrenti, con particolare riguardo all’erroneità del ragionamento probatorio seguito dalla corte d’appello di Lecce nella parte in cui ha ritenuto non adeguatamente comprovato, di volta in volta, la presenza dei congiunti deceduti dei ricorrenti sulla motonave albanese, l’effettivo decesso degli stessi, ovvero la sussistenza di un concreto rapporto di parentela con le vittime del naufragio.

Sul punto, i ricorrenti contestano la legittimità del giudizio espresso dalla corte territoriale circa l’inidoneità probatoria della documentazione prodotta a sostegno delle diverse domande risarcitorie, avuto riguardo all’avvenuta originaria ammissione della costituzione delle parti civili e alla mancanza di alcuna contestazione della documentazione prodotta ad opera delle controparti; giudizio negativo fondato su argomentazioni d’indole meramente formale in violazione della regola di giudizio sancita dall’art. 192 c.p.p..

Sulla base di tali premesse, i ricorrenti hanno invocato l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al rigetto delle domande risarcitorie proposte, ricapitolando le specifiche ragioni corrispondenti a ciascuna delle posizioni individuali partitamente indicate in ricorso, comprensive delle doglianze riferite all’entità dei risarcimenti, là dove liquidati, siccome determinata in violazione dei principi di equità raccomandati dalla più recente giurisprudenza civile di legittimità (cfr. Cass. civ., n. 12408/2011).

Con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione di legge in relazione all’art. 2059 c.c., avendo i giudici del merito liquidato l’entità degli importi risarcitori riconosciuti in favore dei ricorrenti sulla base di criteri illegittimi, avendo gli stessi trascurato di uniformarsi alle previsioni tabellari redatte secondo le elaborazioni del tribunale di Milano, in conformità alle indicazioni della più recente giurisprudenza civile di legittimità (cfr. Cass. civ., n. 12408/2011, cit.).

2.5. – Con memoria depositata in data 23.4.2014, l’avvocatura generale dello Stato, in qualità di difensore del L. e del Ministero della Difesa, ha proposto due motivi nuovi, ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 4.

Con un primo motivo, l’avvocatura erariale censura la sentenza impugnata per violazione di legge, con particolare riguardo al disposto dell’art. 1 delle disposizioni sulla legge in generale e degli artt. 10 e 80 Cost..

In particolare, la ricorrente ribadisce le censure (già contenute negli originali motivi di ricorso) concernenti il riferimento, presente nella sentenza impugnata, al S. Remo Manual on International Law applicable to Armed Conflict at Sea.

Tale testo, in quanto consistente in una mera compilazione privata di norme e, pertanto, in una semplice fonte di cognizione (e non già in una fonte di produzione di norme giuridiche vigenti), avrebbe dovuto ritenersi inidonea a costituire (come viceversa erroneamente ritenuto nella sentenza impugnata) un parametro giuridico suscettibile di fornire efficaci indicazioni operative circa la valutazione della condotta dell’imputato.

Con un successivo motivo, la ricorrente si duole della violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata nel fondare il giudizio sulla responsabilità del L. su fatti e circostanze meramente verosimili, probabili e in ogni caso non adeguatamente comprovati, come nel caso dell’ancoraggio del discorso ricostruttivo della responsabilità del L. al preteso valore sintomatico dei fatti che precedettero la collisione e alle asserite verosimili pressioni sullo stesso esercitate dai relativi superiori gerarchici:

pressioni in realtà costituenti veri e propri ordini militari cogenti per l’imputato.

Da ultimo, l’avvocatura erariale, dopo aver sottolineato il mancato raggiungimento della prova della responsabilità dell’imputato nel rispetto dello standard probatorio coerente con la regola dell’offre ogni ragionevole dubbio, ha reiterato la denuncia del vizio consistito nella mancata assunzione, da parte dei giudici d’appello, della prova decisiva consistente nel sopralluogo sul relitto dell’imbarcazione albanese, nonchè nell’esperimento giudiziale su un’unità gemella della corvetta (OMISSIS), ai fini della più esatta ricostruzione della dinamica dell’incidente.

2.6. – Con ulteriore memoria ex art. 121 c.p.p. depositata in data 30.4.2014, l’avvocatura generale dello Stato, in qualità di difensore dell’imputato L. e del Ministero della Difesa, ha svolto ulteriori considerazioni in relazione al secondo e al terzo motivo di ricorso, con particolare riguardo alla struttura della catena di comando sovraordinata all’imputato, nonchè in relazione alla denunciata omissione, in cui sarebbero incorsi i giudici del merito, in ordine all’invocato approfondimento dell’istruttoria tecnica al fine di ricostruire con esattezza la dinamica della collisione in mare, da cui era dipesa l’impossibilità dell’accertamento della responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio.

Considerato in diritto

3.1.1. – Il primo motivo di ricorso proposto dall’imputato N. X. è infondato.

Sul punto, osserva il collegio come, ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p., le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato e sono valutate a norma dell’art. 187 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3.

Nel caso di specie, del tutto correttamente la corte territoriale, muovendo dalla sentenza definitiva con la quale il N. è stato condannato in relazione al fatto oggetto dell’odierno esame per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (cfr. pp. 98 ss. della sentenza d’appello), ha proceduto al riscontro del fatto accertato in detta sentenza mediante le testimonianze rese dalla teste D. (le cui dichiarazioni verbalizzate sono state acquisite al processo sull’accordo delle parti: cfr. pag. 99 della sentenza d’appello) e dall’ispettore Co., il quale ha confermato le dichiarazioni apprese de relato in ordine al riconoscimento dell’imputato come il soggetto al timone della nave da lui direttamente assunte dalla stessa D. (trasportata sul naviglio affondato e scampata al naufragio), la cui attendibilità, rispetto alle contrastanti dichiarazioni rese da altri sopravvissuti al naufragio, i giudici del merito hanno esaurientemente attestato sulla base di uno sviluppo argomentativo completo ed esauriente, supportato da asserzioni e valutazioni in fatto immuni da vizi di indole logica o giuridica e, come tali, necessariamente destinate a sfuggire a ogni censura di legittimità.

Sul punto, varrà richiamare il consolidato insegnamento di questa corte di cassazione, ai sensi del quale deve ritenersi non sindacabile, in sede di legittimità, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o circa la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti, salvo il controllo su eventuali vizi di congruità e logicità della motivazione, nella specie, come indicato, del tutto insussistenti (Cass., Sez. 2, n. 20806/2011, Rv. 250362; Cass., Sez. 4, n. 8090/1981, Rv. 150282).

Integralmente prive di fondamento, inoltre, devono ritenersi le doglianze avanzate dal ricorrente con riguardo alla pretesa violazione, ad opera dei giudici di merito, del disposto dell’art. 195 c.p.p., comma 4, essendosi la corte territoriale correttamente allineata al consolidato insegnamento della corte di legittimità, ai sensi del quale la deposizione di un ufficiale di polizia giudiziaria sul contenuto di dichiarazioni testimoniali, acquisita agli atti (come nel caso di specie) prima dell’entrata in vigore della novella codicistica della L. n. 63 del 2001 (che ha introdotto per questa parte, e in riferimento anche ai processi in corso, uno specifico divieto di acquisizione e non di utilizzazione), è utilizzabile in quanto si sostanzia in una prova legittimamente già acquisita (Cass., Sez. 2, n. 35191/2008, Rv. 240953); in particolare, la deposizione di un ufficiale di polizia giudiziaria sul contenuto di dichiarazioni di testimoni, avvenuta prima dell’entrata in vigore della L. n. 63 del 2001, è legittimamente acquisita al fascicolo del dibattimento ed è pienamente utilizzabile, in applicazione del principio generale stabilito dall’art. 526 c.p.p., secondo cui il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione le prove legittimamente acquisite nel dibattimento, in quanto detta legge, modificando l’art. 195 c.p.p., comma 4, ha introdotto non un divieto di utilizzazione, ma uno specifico divieto di acquisizione probatoria (Cass., Sez. 1, n. 17215/2008, Rv. 240003; Cass., Sez. 3, n. 33785/2007, Rv. 237634; Cass., Sez. 1, n. 7352/2006, Rv. 233136).

3.1.2. – Quanto alle doglianze avanzate dal ricorrente in ordine all’omessa valutazione della consulenza tecnica della difesa redatta dal comandante di vascello T.V., osserva il collegio, in conformità al consolidato insegnamento di questa corte di legittimità, come, in tema di prova, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito può scegliere, tra le diverse tesi prospettate dal perito o dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purchè dia motivatamente conto delle ragioni della scelta, nonchè del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (Cass., Sez. 4, n. 34747/2012, Rv. 253512; Cass., Sez. 4, n. 45126/2008, Rv. 241907; Cass., Sez. 4, n. 11235/1997, Rv. 209675).

Peraltro, l’esigenza di fornire una congrua motivazione del rigetto delle tesi e delle deduzioni contrarie a quelle condivise, può ritenersi adeguatamente soddisfatta dal giudice anche attraverso l’esame complessivo delle ragioni giustificative della decisione, allorchè le articolazioni dello sviluppo argomentativo della sentenza appaiano tali da lasciar ritenere implicitamente superate le deduzioni disattese, per la logica incompatibilità delle stesse con l’obiettiva ricostruzione dei fatti operata dal giudice sulla base delle fonti probatorie richiamate e della coerente connessione delle stesse da parte del consulente richiamato (cfr. Cass., Sez. 4, 4 marzo 2014, n. 14540, Elvassore).

Ciò posto, occorre evidenziare come, nel caso di specie, tanto la motivazione dettata dal primo giudice quanto quella redatta dalla corte d’appello (che, concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, valgono a saldarsi in un unico complesso corpo argomentativo: cfr. Cass., Sez. 1, n. 8868/2000, Rv. 216906 e segg. conformi), abbiano ricostruito i profili della responsabilità penale dell’imputato sulla base di un discorso giustificativo completo ed esauriente, logicamente argomentato, immune da vizi d’indole logica o giuridica e, come tale, idoneo a sottrarsi integralmente alle censure in questa sede sollevate dal ricorrente, essendo peraltro rimasto escluso che le valutazioni interpretative avanzate dal consulente tecnico della difesa siano assurte a un livello di certezza e irrefutabilità tale da assumere i contenuti di una vera e propria prova decisiva, come tale suscettibile di disarticolare in termini radicali il ragionamento probatorio, viceversa coerentemente condotto, nella sentenza impugnata.

3.2.1. – Il ricorso proposto da L.F. e dal Ministero della Difesa (pur arricchito delle argomentazioni illustrate nelle memorie successivamente depositate) è integralmente privo di fondamento.

Con l’impugnazione avanzata in questa sede, i ricorrenti articolano una serie di censure nei confronti delle pronunce di merito, volta a volta dirette: 1) a destituire di fondamento la ricostruzione, condivisa dalla corte territoriale, relativa al contesto normativo di diritto internazionale e della navigazione individuato quale parametro di valutazione della condotta colposa del L., viceversa ritenuta, dai medesimi ricorrenti, del tutto fedele e rispettosa dei termini dell’accordo italo-albanese attraverso il quale i governi nazionali avevano attribuito, alle navi militari italiane, penetranti poteri di polizia nei confronti delle imbarcazioni sospettate di favorire l’immigrazione clandestina in Italia (primo motivo del ricorso e memoria dell’avvocatura erariale del 23.4.2014); 2) a negare il ricorso dei presupposti di fatto in forza dei quali le sentenze di merito avevano ascritto al L. il compimento di pericolose manovre di disturbo contro la motovedetta albanese, con comportamenti eccessivamente decisi e stringenti (fino al “punto di toccare”), aggressivi e pericolosi, totalmente smentiti dalle risultanze documentali relative ai punti nave elaborati dal GPS di bordo riproducenti la rotta seguita dalla corvetta italiana (secondo e terzo motivo del ricorso e memorie dell’avvocatura erariale del 23.4.2014 e del 30.4.2014); 3) a negare il ricorso di condizioni meteo-marine e di luminosità tali da creare difficoltà o impaccio alle manovre della motovedetta albanese (quarto motivo del ricorso); 4) a negare l’avvenuta esecuzione della manovra diretta a filare in mare un cavo asseritamente destinato ad arrestare la navigazione della motovedetta albanese (quinto motivo del ricorso);

5) a destituire di fondamento la ricostruzione relativa alla dinamica della navigazione delle due imbarcazioni, e della conseguente collisione tra le stesse, sulla base degli elementi tecnici complessivamente acquisiti nel corso del giudizio, senza procedere all’esecuzione degli approfondimenti istruttori invocati dai ricorrenti (sesto e settimo motivo del ricorso e memorie dell’avvocatura erariale del 23.4.2014 e del 30.4.2014); 6) a contestare, infine, la mancata applicazione, ad opera dei giudici di merito, della scriminante di cui all’art. 51 c.p., dovendo ricondursi, la condotta dell’imputato, all’adempimento di un dovere, seppure putativo, in particolare derivante dall’ordine legittimo impartito dall’autorità militare gerarchicamente sovraordinata (ottavo e ultimo motivo del ricorso).

Ciascuna di tali censure deve ritenersi del tutto priva di concreta incidenza, ai fini della decisione, rispetto agli elementi di attestazione della responsabilità dell’imputato, che, integrati da dati di fatto e valutazioni di merito d’incontestabile rilievo, evidenziano come nessuno dei motivi d’impugnazione avanzati dai ricorrenti valga ad intaccarne la consistenza.

Sul punto, osserva il collegio come entrambe le sentenze di merito siano fondate sul determinante presupposto costituito dal ricorso di tre incontestabili (e incontestati) dati di fatto, rappresentati: 1) dall’avvenuto inseguimento, da parte della corvetta (OMISSIS), nel contesto dei fatti de quibus (e dunque nell’esercizio dei poteri d’interdizione riconosciuti alla marina militare italiana dai richiamati accordi italo-albanesi), di una motovedetta albanese carica di profughi (fino all’inverosimile), condotta in modo imprudente, irrazionale e scriteriato da un comandante privo di scrupoli, evidentemente determinato a condurre a tutti i costi in porto (o quantomeno a ridosso delle rive italiane) il proprio carico umano; 2) dall’avvenuta violenta collisione, nel corso di tale inseguimento, tra la corvetta (OMISSIS) e detta imbarcazione albanese; 3) dal conseguente (inevitabile) affondamento della motovedetta albanese, con l’annegamento delle decine di profughi su di essa imbarcati.

L’imputazione sollevata nei confronti del L., di là dalla più precisa determinazione del quadro normativo nella specie applicabile, trae motivo dall’elementare rilievo di tali tre dati di fatto, muovendo all’imputato il rimprovero di non aver saputo evitare la collisione con la motovedetta albanese, sul presupposto della sua prevedibilità ed evitabilità.

Si tratta, pertanto, della contestazione riguardante il compimento di un reato commissivo, ossia della (colpevole) realizzazione di un fatto determinato, in violazione del divieto di tenere una condotta causalmente idonea (in termini naturalistici) a innescare l’insieme delle condizioni che avrebbero provocato (e ch’ebbero materialmente a provocare) il naufragio della motonave albanese e il decesso di gran parte del suo equipaggio.

Più specificamente, al L. (nella qualità di comandante della corvetta (OMISSIS)) è stata ascritta la (concorrente) responsabilità della collisione della corvetta con la motonave albanese; evento lesivo provocato per colpa (siccome non voluto, neppure indirettamente o per consapevole accettazione del rischio di verificazione), dopo aver tuttavia positivamente creato i presupposti di pericolo, e dunque il rischio (di seguito puntualmente concretizzatosi), per l’incolumità della motovedetta e del suo equipaggio.

Avverso la sentenza della corte territoriale, che ha confermato il riscontro della colpevolezza dell’imputato, ciascuno dei motivi illustrati dal L. e dal responsabile civile Ministero della Difesa non assume (come in precedenza rilevato) alcun profilo di concreta incidenza decisiva.

La misura di tale difetto di decisività può, in tal senso, cogliersi, nell’ammettere, come ipotesi logica, la fondatezza di ciascuna delle doglianze argomentate dalla difesa erariale.

Con riguardo al motivo concernente la ricostruzione del contesto normativo di diritto internazionale e di diritto della navigazione, osserva il collegio come il comportamento in concreto tenuto dal L., in occasione della causazione del naufragio in esame, non possa trovare plausibili coperture in alcun quadro normativo di alcuna natura o fonte (sia essa interna o sovranazionale), non arrivando, neppure gli odierni ricorrenti, a riconoscere la legittimità di un eventuale potere di abbordaggio della motovedetta albanese, da parte della nave militare italiana, al di fuori delle necessarie condizioni di sicurezza funzionali al legittimo esercizio di tale potere eventualmente riconosciuto dalle fonti di diritto internazionale pattizio (e, segnatamente, dagli accordi italo- albanesi del 25 marzo 1997, in deroga all’art. 110 della convenzione di Montego Bay).

Su tale specifico punto, varrà, per tutte, il richiamo all’insieme delle modalità provvedimentali di attuazione dell’accordo italo- albanese seguite, alla relativa stipulazione, dalle autorità politico-militari italiane (costituenti, quali pratiche applicative successive alla conclusione dell’accordo, un generale canone di interpretazione di ogni trattato internazionale, ai sensi dei principi della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati: cfr.

artt. 31 ss.): normative, d’indole regolamentare, disciplinare o comunque tecnica, costantemente dirette a raccomandare, assicurare e imporre, in ogni caso, il rigoroso rispetto dell’incolumità delle imbarcazioni albanesi dirette in Italia e dei profughi ivi trasportati.

In particolare, varrà ricordare in questa sede i testi della direttiva CINCNAV del 25.3.1997 (CINCNAV 0252331Z MAR 97 riportata alla pag. 28 della sentenza impugnata) (la quale recita: è consentito a tutte le unità del dispositivo (…) se natante dirige con propri mezzi verso coste italiane procedere ad intimazione (…).

Ove il natante prosegue in rotta, metter in atto manovre cinematiche et di interposizione volte ad interrompere la navigazione verso coste italiane e successivamente scorta/rimorchio in acque albanesi.

Qualora dette azioni, ancorchè reiterate con massima consentita determinazione, non conseguano lo scopo, darne comunicazione a MARIDIPART Taranto modo fare intervenire in acque italiane mezzi necessari per fermo natante e successiva azione di polizia (…) ove il natante rimorchiato tagli rimorchio deve essere lasciato at deriva a meno intervengono esigenze di sicurezza vite umane in mare); nonchè la direttiva MARIDIPART del (OMISSIS) (MARIDIPART TARANTO 0271225Z MAR 97 riportata alle pagg. 28 s. della sentenza impugnata, che recita: se nave/naviglio dirige con propri mezzi verso coste italiane procedere ad intimazione (…) ove nave/naviglio prosegua in rotta adottare con determinazione et reiterare cinematiche di interposizione volte a far interrompere navigazione verso coste italiane.

Qualora azioni cui sopra non conseguono scopo, Maridipart Taranto provvedere at richiedere intervento mezzi forze polizia o disporrà eventuale intervento squadra battaglione S. Marco imbarcata per fermo natante e successivo instradamento o rimorchio verso coste albanesi. (…) manovra (di harassment) siano eseguite in sicurezza tenendo presente che in plancia delle unità con profughi albanesi est possibile assenza ufficiali aut personale qualificato/esperto nella condotta della nave”); nonchè infine le regole d’ingaggio (ROE) emanate da CINCNAV il (OMISSIS) (CINCNAV 0271928Z MAR 97) che prevedevano, tra le misure da adottare, in via graduale e nell’ordine: a) manovre cinematiche di interdizione, rispettando formalmente le regole degli abbordi in mare; b) l’esecuzione di colpi di avvertimento; c) l’impiego di reti o cavi in modo opportuno per eseguire l’immobilizzazione del mezzo attraverso la messa fuori uso del sistema di propulsione; d) l’impiego di una squadra di abbordaggio.

Il comportamento alternativo lecito, colpevolmente omesso dall’imputato L., sarebbe quindi consistito (esclusa alcuna forma di collaborazione, da parte del timoniere della N., ad esito delle intimazioni verbali e di eventuali manovre di interposizione): 1) nel mantenere una distanza dall’imbarcazione albanese idonea a scongiurare alcuna possibile forma di collisione tra le due navi (quand’anche tale collisione fosse stata eventualmente cercata dalla folle condotta del timoniere della Namik); 2) nell’immediata richiesta di un intervento collaborativo di altre forze navali della marina militare italiana, al fine di agevolare l’interruzione di fatto della navigazione della motovedetta albanese verso le coste italiane (come peraltro raccomandato dalle previsioni di cui ai documenti e alle direttive del comando militare sopra indicate); ovvero, in ultima e residuale analisi, 3) nella scorta dell’imbarcazione albanese fino alle rive italiane, per ivi procedere all’arresto dei responsabili della criminosa condotta di navigazione e al trattamento giuridicamente consentito (o imposto) dei profughi clandestini.

Il comandante della (OMISSIS), pertanto, non si trovava in alcun modo – nell’atto di inseguire la motonave albanese – ad agire in una situazione di rischio per la sicurezza delle navi coinvolte; e men che meno in una situazione di rischio consentito da alcuna norma di diritto internazionale o interno.

In breve, nessuna norma di diritto interno o internazionale (sia esso consuetudinario o pattizio) avrebbe mai potuto autorizzare il comandante della (OMISSIS) – non si dice a provocare il naufragio del N. e il decesso del suo equipaggio, bensì (e ancor prima) – a porne in pericolo l’integrità o la sicurezza, già così originariamente precaria per le condizioni materiali e di manutenzione della nave, l’entità abnorme del numero dei trasportati e la condotta di navigazione tenuta dal timoniere.

La condotta rischiosa tenuta dal L., nell’approssimarsi al naviglio albanese a una distanza del tutto inidonea a cautelare la possibilità di una (peraltro prevedibile) collisione, deve pertanto qualificarsi quale espressione di un’imprudente scelta elettiva del medesimo comandante, che, ove tenuta nell’eventuale ritenuto (putativo) adempimento di un ordine dell’autorità gerarchicamente allo stesso sovraordinata, non può in nessun caso ritenersi giustificata, atteso l’evidente carattere criminoso del contenuto di un simile eventuale ordine.

Muovendo dal vigore delle indicazioni sin qui evidenziate, appare di agevole comprensione il sostanziale difetto di decisività di ciascuna delle argomentazioni critiche sollevate dai ricorrenti nei confronti della sentenza impugnata.

E invero, esclusa l’individuabilità di alcuna norma giuridica cui possa farsi risalire l’eventuale autorizzazione del comandante della corvetta Sibilla a porre in pericolo la sicurezza della navigazione della motovedetta albanese, il dato costituito dall’avvenuta collisione tra le due imbarcazioni (evidentemente dovuto all’imprudente avvicinamento tra le stesse) vale a destituire di alcun rilievo, tanto l’eventuale erroneità del quadro normativo ritenuto applicabile dalla corte territoriale, quanto la più precisa ricostruzione (anche attraverso l’espletamento degli approfondimenti istruttori invocati dagli odierni ricorrenti):

1) dell’esatta configurazione della catena di comando sovraordinata al responsabile della corvetta (OMISSIS);

2) dell’atteggiamento e dell’eventuale influenza esercitata dai superiori gerarchici del L. nel sollecitarne l’assunzione di una condotta il più possibile decisa o aggressiva nei confronti della motovedetta albanese;

3) delle condizioni meteo-marine illo tempore in atto;

4) dell’effettivo compimento della manovra diretta a filare in mare il cavo per il blocco dell’elica dell’imbarcazione albanese;

5) della reale dinamica della collisione e delle rotte concretamente seguite dalle due imbarcazioni nei minuti precedenti detta collisione.

Ciascuno di tali temi deve ritenersi irriducibilmente recessivo dinanzi alla determinante circostanza costituita dall’illecita assunzione, da parte del L., del rischio (puntualmente concretizzatosi) di collisione con la motovedetta albanese provocato dall’avvicinamento alla stessa oltre i limiti di sicurezza nella specie imposti: un rischio prevedibile – in ragione della scriteriata e folle corsa del timoniere della (OMISSIS) (e delle sue imprevedibili e irragionevoli contromanovre di evasione, oltremodo impacciate dall’inverosimile carico umano trasportato) -, oltre che agevolmente evitabile attraverso l’adozione delle alternative di comportamento lecito in precedenza indicate.

La stessa applicabilità dell’art. 51 c.p. invocata dal L. (ossia della scriminante, financo putativa, dell’adempimento del dovere imposto dall’ordine legittimo dell’autorità gerarchica sovraordinata) deve ritenersi – come evidenziato – del tutto esclusa nel caso di specie, valendo al riguardo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale deve ritenersi inapplicabile la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere nel caso in cui il militare abbia agito in esecuzione di un ordine, impartitogli dal superiore gerarchico, avente ad oggetto la commissione di un reato, in quanto, per scriminare, l’ordine deve attenere al servizio e non eccedere i compiti d’istituto; in tal caso, non solo il militare di grado inferiore può opporre legittimamente rifiuto, ma ha anche il dovere di non darvi esecuzione e di avvisare immediatamente i superiori (v. Cass., Sez. 5, n. 6064/2008, Rv. 243325; cfr. altresì Cass., Sez. 3, n. 18896/2011, Rv. 250284).

Sulla base del complesso delle argomentazioni sin qui illustrate, dev’essere pertanto confermata l’integrale responsabilità del L. per ciascuno dei reati allo stesso ascritti e la conseguente responsabilità civile del Ministero della Difesa per gli effetti dannosi dagli stessi derivati.

3.2.2. – Ciò posto, osserva il collegio come debbano ritenersi prescritti tutti i reati di omicidio colposo contestati a carico degli imputati, trattandosi di fatti risalenti al (OMISSIS).

Sul punto, vale richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità ai sensi del quale il reato di omicidio colposo plurimo non è configurabile come reato unico ma come concorso formale di più reati, unificati soltanto quoad poenam, sicchè il termine di prescrizione del reato va computato con riferimento a ciascun evento di morte, dal momento in cui ciascuno di essi si è verificato (cfr. Cass., Sez. 4, n. 47380/2008, Rv. 242827).

I termini di prescrizione per ciascun reato di omicidio colposo (pari a dieci anni aumentati fino a quindici per l’incidenza degli atti di interruzione), in astratto in scadenza al 28.3.2012, devono ritenersi definitivamente consumati, per effetto dei periodi di sospensione (complessivamente pari a 9 mesi e 23 giorni, di cui 4 mesi e 17 gg. in primo grado e 5 mesi e 6 gg. in appello), alla data del 19.1.2013.

Sulla base di tali premesse, occorre sottolineare, in conformità all’insegnamento ripetutamente impartito da questa Corte, come, in presenza di una causa estintiva del reato, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per motivi attinenti al merito si riscontri nel solo caso in cui gli elementi rilevatori dell’insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all’imputato, emergano in modo incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una constatazione, che a un atto di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (v. Cass., Sez. Un., n. 35490/2009, Rv. 244274).

E invero, il concetto di evidenza, richiesto dal secondo comma dell’art. 129 c.p.p., presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione a un accertamento immediato (cfr. Cass., Sez. 6, n. 31463/2004, Rv. 229275).

Da ciò discende che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato occorre applicare il principio di diritto secondo cui positivamente deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (v. Cass., Sez. 2, n. 26008/2007, Rv. 237263).

Tanto deve ritenersi non riscontrabile nel caso di specie, in cui questa Corte – anche tenendo conto del rigetto di tutti i motivi di ricorso in questa sede proposti dagli imputati – non ravvisa alcuna delle ipotesi sussumibili nel quadro delle previsioni di cui all’art. 129 c.p.p., comma 2.

Ne discende che, ai sensi del richiamato art. 129 c.p.p., la sentenza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente alle condanne pronunciate in relazione ai reati di omicidio colposo ascritti ai ricorrenti, essendo tali reati estinti per prescrizione.

L’intervenuta prescrizione dei reati di omicidio colposo contestati agli imputati comporta la corrispondente riduzione delle pene loro inflitte dal giudice d’appello, da ricalcolare nella misura di tre anni e sei mesi di reclusione a carico di N.X. e di due anni di reclusione a carico di L.F..

3.3 – Il ricorso delle parti civili C.A., G.V., X.P. e B.B. è fondato.

Al riguardo, come attestato dalla ricevuta di spedizione postale dell’atto di appello (rilevante ai sensi dell’art. 583 c.p.p., comma 2, e ritualmente allegata agli atti del processo), avvenuta in data 25.2.2006 (ossia contestualmente alla trasmissione a mezzo fax del medesimo atto), l’appello proposto dalle indicate parti civili doveva ritenersi tempestivo, siccome proposto (mediante spedizione con raccomandata) entro il quarantacinquesimo giorno da quello (11.1.2006) dell’eseguita comunicazione, al relativo difensore, dell’avviso di deposito della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 2, lett. e).

Sulla base di tale premessa, dev’essere disposto l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente alla dichiarazione d’inammissibilità dell’appello proposto da C.A., G. V., X.P. e B.B., con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello.

3.4. – Dev’essere viceversa disatteso il ricorso proposto dalle restanti parti civili ( Be.Al. e altri).

Occorre in primo luogo riconoscere come i motivi di ricorso proposti in relazione alle singole posizioni articolate nell’impugnazione appaiano privi di fondamento, riferendosi gli stessi a circostanze del tutto irrilevanti – quali, in particolare, l’avvenuta costituzione di parte civile (limitata al mero controllo preliminare della legittimazione delle parti), la pretesa valenza probatoria indiretta delle intercorse transazioni riguardanti altri familiari (transazioni di per sè tali da escludere alcuna forma di riconoscimento, diretto o indiretto, della fondatezza, nel merito, delle pretese risarcitorie delle controparti transigenti), o la mancata contestazione delle controparti in relazione alla prova dell’asserito decesso del congiunto o del rapporto di parentela con quest’ultimo (dovendo ritenersi esclusa, nel quadro dei meccanismi probatori propri del procedimento penale, alcuna rilevanza alla mancata contestazione espressa dei fatti costitutivi delle pretese risarcitorie altrui) -, ovvero consistendo, detti motivi di ricorso, nella riproposizione di questioni già risolte dalla corte d’appello sulla base di motivazioni coerentemente e logicamente argomentate (come nel caso dell’insufficienza delle prove offerte o della mancata legalizzazione della documentazione prodotta, indicata, quest’ultima, dai giudici del merito, quale criterio, obiettivo e logicamente congruo, di attendibilità della prova documentale offerta dalle parti civili).

Sul punto – oltre a doversi ritenere inammissibile l’offerta probatoria documentale tardivamente avanzata in questa sede -, dev’essere altresì rilevata l’inammissibilità delle censure rivolte avverso l’entità concreta delle liquidazioni dei danni operate in sede di merito, trattandosi di questioni di fatto logicamente argomentate dai giudici del fatto, con particolare riguardo ai criteri di equità nella specie seguiti.

In thema, occorre peraltro evidenziare come, in ogni caso, il richiamo ai principi sanciti dalla più recente giurisprudenza civile di legittimità (cfr. Cass., civ., Sez. 3, n. 12408/2011, Rv. 618048) debba ritenersi del tutto privo di concreto rilievo, avendo i ricorrenti omesso di allegare la circostanza dell’avvenuta proposizione della questione de qua nei precedenti gradi del giudizio di merito, atteso che, secondo quanto espressamente sancito da Cass., civ., Sez. 3, n. 12408/2011, cit., se è pur vero che, nella liquidazione del danno non patrimoniale, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 cod. civ. deve garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perchè esaminati da differenti Uffici giudiziali (garanzia di uniformità di trattamento adeguatamente fornita dal riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale – e al quale la S.C., in applicazione dell’art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono), è altresì vero che l’applicazione di diverse tabelle, ancorchè comportante liquidazione di entità inferiore a quella che sarebbe risultata sulla base dell’applicazione delle tabelle di Milano, può essere fatta valere, in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, solo in quanto la questione sia stata già posta nel giudizio di merito.

Sulla base di tali premesse, dev’essere pertanto disposto l’integrale rigetto del ricorso proposto dalle parti civili Be.

A. e altri.

3.5. – La singolare complessità di tutte le questioni sottoposte all’esame del giudice di legittimità induce a disporre l’integrale compensazione, tra tutte le parti, delle spese relative al giudizio di cassazione.

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di N.X. e L.F., limitatamente ai reati di omicidio colposo loro ascritti, per essere i reati medesimi estinti per prescrizione.

Rigetta nel resto i ricorsi dei predetti imputati e del Ministero della Difesa e ridetermina le pene infitte agli imputati in anni tre e mesi sei di reclusione per N. ed in anni due di reclusione per L..

Annulla altresì la medesima sentenza limitatamente alla dichiarazione di inammissibilità degli appelli proposti dalle parti civili C.A., G.V., X.P. e B. B. con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Rigetta il ricorso proposto dalle altre parti civili e conferma nel resto le statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata.

Compensa le spese tra tutte le parti del presente giudizio di legittimità.