Commette peculato il medico che svolge l’attività intra moenia in orario di lavoro se questo non ha strisciato il cartellino (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 19 novembre 2021, n. 42496).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CERVADORO Mirella – Presidente –

Dott. AGOSTINACCHIO Luigi – Consigliere –

Dott. DI PAOLA Sergio – Consigliere –

Dott. PARDO Ignazio – Consigliere –

Dott. PAZIENZA Vittorio – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) Saverio, nato a (OMISSIS) il 27/12/19xx;

avverso la sentenza emessa il 21/01/2021 dalla Corte d’Appello di Campobasso;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Vittorio Pazienza;

letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa Maria Giuseppina Fodaroni, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;

letta la memoria di replica presentata dalla difesa.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 21/01/2021, la Corte d’Appello di Campobasso ha parzialmente riformato la sentenza emessa con rito abbreviato, in data 23/09/2019, dal G.i.p. del Tribunale di Larino, con la quale – per quanto qui specificamente rileva – (OMISSIS) Saverio era stato condannato alla pena di giustizia in relazione ai delitti di truffa continuata ed aggravata in danno dell’Azienda Sanitaria Regione Molise (capo A) e di peculato d’uso continuato (così riqualificata l’originaria imputazione di cui al capo D).

In particolare, la Corte d’Appello ha assolto il (OMISSIS) dal reato sub D), e – previo riconoscimento di attenuanti generiche equivalenti – ha rideterminato il trattamento sanzionatorio, confermando nel resto.

2. Ricorre per cassazione il (OMISSIS), a mezzo del proprio difensore, deducendo:

2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’affermazione di penale responsabilità.

Si censura la sentenza impugnata – che pure aveva ritenuto possibile lo svolgimento di attività intra moenia in orario di servizio, in presenza di situazioni eccezionali – per non aver considerato che il (OMISSIS) si era attenuto alle disposizioni del regolamento aziendale, avendo tra l’altro ampiamente recuperato l’orario di servizio dedicato alle visite private come dimostrava l’accumulo di 500 ore extra nell’anno 2014, come dallo stesso chiarito con le proprie dichiarazioni.

2.2. Vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo.

Si censura la contraddittorietà della motivazione quanto all’apprezzamento delle dichiarazioni dei testi (OMISSIS) e (OMISSIS), da un lato ritenute inidonee a comprovare una situazione di eccezionalità legittimante l’attività intra moenia in orario di servizio, dall’altro valorizzate sugli stessi profili per concludere in senso dubitativo sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del peculato d’uso.

Si insiste sul monte ore accumulato e non retribuito, nonché sul fatto – pacifico secondo la stessa Corte – per cui il (OMISSIS) non si era fatto pagare al di fuori del circuito “pubblico”.

Si deduce inoltre che secondo il richiamato regolamento aziendale, era possibile eseguire visite in reparto anche trovandosi in malattia (circostanza che aveva determinato una sanzione disciplinare a carico del ricorrente), salvo il trattenimento del compenso da parte dell’Azienda.

3. Con memoria ritualmente trasmessa, il Procuratore Generale sollecita una declaratoria di inammissibilità del ricorso, evidenziandone il carattere reiterativo a fronte di una corretta ricostruzione del quadro normativo di riferimento sia quanto alla impossibilità di derogare alle disposizioni legislative da parte del regolamento aziendale, sia comunque in ordine alla insussistenza di situazioni eccezionali, sia in relazione al fatto che il (OMISSIS), nell’espletare intensamente l’attività intra moenia, non aveva scaricato il cartellino segnatempo né aveva comunque effettuato segnalazioni di sorta funzionali al recupero.

Il P.G. evidenzia anche la logicità della valorizzazione, quanto al dolo, sia del fatto che il (OMISSIS) si faceva pagare direttamente l’onorario per le visite senza far passare le pazienti per il CUP (così maturando il diritto alla retribuzione per l’attività ordinaria avendo dissimulato quella privata), sia del fatto che quest’ultima era stata espletata anche mentre il ricorrente era in malattia.

In tale contesto, il P.G. ha ritenuto immune da censure la valutazione di irrilevanza, operata dai giudici di merito, del fatto che il (OMISSIS) avesse cumulato ore non retribuite (risultanti pur sempre come prestazione aggiuntiva); così come la diretta percezione del danaro dai pazienti era finalizzata ad evidenziare la dissimulazione dell’attività intra moenia.

Il P.G. ha infine sottolineato che l’assoluzione dal delitto di peculato non interferiva in alcun modo sulla ricostruzione dell’elemento soggettivo della truffa, correlata all’utilizzo del cartellino marcatempo nei termini indicati.

4. Con memoria trasmessa il 08/07/2021, il difensore replica agli argomenti svolti dal P.G.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Va preliminarmente evidenziata l’impossibilità di tener conto della memoria difensiva, presentata solo in data 08/07/2021 e quindi tardivamente.

2. Il ricorso è inammissibile.

3. Secondo un indirizzo interpretativo del tutto consolidato di questa Suprema Corte, «in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione, i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato» (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568; in senso analogo, cfr. ad es. Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425, secondo cui «è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato»).

Tali condivisibili insegnamenti devono trovare applicazione con riferimento al primo motivo, con il quale il ricorrente ripropone le doglianze già dedotte in appello senza confrontarsi adeguatamente, in primo luogo, con il percorso argomentativo tracciato dalla sentenza impugnata, sia quanto al quadro normativo vigente, sia – anche a voler accedere alla tesi per cui l’attività intra moenia potrebbe essere svolta anche durante l’orario di servizio, ricorrendo situazioni eccezionali – quanto alla insussistenza di tali situazioni, concordemente affermata dalle sentenze di primo e di secondo grado sulla scorta di quanto dichiarato dai dirigenti ospedalieri escussi (cfr. pag. 11 della sentenza di primo grado, secondo cui la deposizione del dirigente (OMISSIS) aveva palesemente sconfessato le dichiarazioni rese dagli imputati; nonché pag. 5 della sentenza impugnata, in cui si precisa, tutt’altro che illogicamente, che trattasi di “attività privatistica oltretutto non obbligatoria, ma del tutto opzionale, ed anzi non da svolgersi nel momento in cui ciò sia impedito dal rilevante carico di lavoro istituzionale”).

In secondo luogo, deve osservarsi che i giudici di merito hanno concordemente valorizzato il fatto che, in ogni caso, il (OMISSIS) aveva non solo evitato di marcare il cartellino marcatempo secondo le apposite indicazioni (“codice 90”), ma aveva anche completamente omesso di informare in altro modo la direzione dell’ospedale, precludendole quindi l’attivazione dei meccanismi di recupero del “debito orario” così contratto (cfr. pagg. 5-6 della sentenza impugnata, che si sofferma sul fatto che l’amministrazione avrebbe appunto dovuto computare le ore dedicate all’attività intra moenia e, correlativamente, anche quelle in addebito da recuperare.

La Corte ha quindi osservato che, in totale assenza di informazioni da parte del ricorrente, non valeva “invocare le ore che si è lavorato in più, o professare la propria personale particolare laboriosità”, trattandosi di deduzioni inidonee a dimostrare il recupero del debito orario.

Anche questo passaggio motivazionale è rimasto privo di adeguata confutazione, essendosi il ricorrente limitato a richiamare l’esistenza di un “monte ore” per il quale non era stata chiesta la retribuzione (non è stata reiterata, in questa sede, l’argomentazione dedotta in appello – pag. 24 del relativo ricorso – secondo cui il (OMISSIS) non avrebbe marcato il cartellino per la necessità di percorrere “lunghi tratti di Ospedale stante la distanza del reparto di Ostetricia/Ginecologia dalla macchina timbratrice”, con conseguente “notevole dispendio di tempo sottratto alle pazienti”).”

4. Il secondo motivo è manifestamente infondato.

La Corte d’Appello ha evidenziato – anche in questo caso ponendosi in linea di piena continuità con le valutazioni espresse dal primo giudice – la “particolare intensità” dell’elemento soggettivo che aveva connotato la intensa condotta illecita del (OMISSIS) (17 ore svolte nell’arco di poco più di dieci giorni, oltre all’attività svolta mentre il ricorrente si trovava in malattia: cfr. pag. 7 della sentenza impugnata), valorizzando a tal fine le intercettazioni comprovanti il fatto che il compenso per l’attività privata veniva direttamente versato dalla paziente al (OMISSIS) (il quale, in una conversazione intercettata, aveva raccomandato tale modalità alla propria interlocutrice, che rivolgendosi al CUP avrebbe dovuto versare 90 Euro, anziché 50).

Proprio tale passaggio diretto di danaro era stato posto in rilievo dalla Corte territoriale, “perché chi percepisce un compenso aggiuntivo rispetto a quanto a lui pagato dall’ente di appartenenza, certamente vuole consapevolmente e decisamente perseguire anche il profitto della corresponsione della retribuzione per l’orario di lavoro apparentemente espletato in favore dell’ente” (cfr. pag. 7, cit.).

Anche in questo caso, le valutazioni della Corte d’Appello – tutt’altro che illogiche, oltre che perfettamente aderenti a quelle del Tribunale (cfr. pag. 11 della sentenza di primo grado) – non sono state adeguatamente confutate: il ricorrente ha insistito sul monte ore lavorato e non pagato, osservando altresì che l’attività svolta durante il periodo di malattia avrebbe dovuto comportare solo conseguenze di tipo disciplinare.

Quanto poi ai rilievi imperniati sull’assoluzione del (OMISSIS) dal residuo reato di peculato d’uso, ritiene il Collegio che debbano essere condivise le osservazioni svolte in requisitoria dal Procuratore Generale:

deve invero osservarsi che le valutazioni in punto di elemento soggettivo, svolte dalla Corte con riferimento all’indebito utilizzo delle apparecchiature ospedaliere, non implicano alcun automatismo ai fini che qui interessano, proprio perché l’elemento soggettivo della truffa è stato desunto dalla valorizzazione della condotta del ricorrente (omessa marcatura del cartellino – omessa informazione ai dirigenti ospedalieri – incasso diretto delle somme versate dalle pazienti per le visite intra moenia) rispetto alla quale il distinto e ulteriore profilo dell’utilizzo degli strumenti e del materiale ospedaliero risulta del tutto estraneo ed inconferente“.

5. Le considerazioni fin qui svolte impongono una declaratoria di inammissibilità del ricorso, e la condanna del (OMISSIS) al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria, il 19 novembre 2021.

SENTENZA – copia conforme -.