Compra anabolizzanti vietati per uso personale: è ricettazione.

(Corte di Cassazione penale, sez. II, sentenza 14.04.2016, n. 15680)

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Sentenza 14 aprile 2016, n. 15680

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENTILE Mario – Presidente –

Dott. CAMMINO Matilde – Consigliere –

Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Consigliere –

Dott. RAGO Geppino – rel. Consigliere –

Dott. ALMA Marco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA presso il Tribunale di Torino;

avverso la sentenza del Tribunale di Torino del 19/09/2014;

pronunciata nei confronti di:

1. C.M., nato il (OMISSIS);

2. N.G., nato il (OMISSIS);

3. B.A., nato il (OMISSIS);

4. BR.MA., nato il (OMISSIS);

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere dott. G. Rago;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. GAETA Piero, che ha concluso chiedendo il rigetto.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 1909/2014, il giudice monocratico del Tribunale di Torino assolveva C.M., N.G., B.A. e BR.Ma. dal delitto di ricettazione di farmaci anabolizzanti provento del delitto previsto dalla L. n. 376 del 2000, art. 9, comma 7, di commercio di farmaci ricompresi nella classi di cui all’art. 2, della suddetta legge, perchè il fatto non costituisce reato.

Il giudice, innanzitutto, riteneva integrato l’elemento materiale del reato contestato, avendo ciascuno imputato “ricevuto i farmaci e le sostanze indicate alla L. n. 376 del 2000, art. 2, comma 1, provento del delitto di cui all’art. 9 c. 7 legge citata, per essere tali farmaci e tali sostanze state a loro cedute dal collega R. D. dopo che il predetto aveva acquistato i suddetti prodotti on line da un soggetto privato estero, e quindi, per essere tali prodotti stati commercializzati attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente”.

Il giudice, tuttavia, riteneva, che “il compendio probatorio non consente di ritenere raggiunta la prova in ordine all’elemento soggettivo del delitto di ricettazione ascritto a ciascun imputato.

Invero, se può ritenersi pacifico che ciascun imputato, in forza della professione svolta, ben era consapevole dei limiti di legge in ordine al commercio e all’uso delle sostanze da ciascuno ricevute e della illiceità delle modalità di commercializzazione dei prodotti dai medesimi acquistati, e ciò tanto più alla luce del comportamento clandestino di ciascuno come attestato dal tenore criptico delle telefonate intercettate, non parimenti è dato affermare che ciascuno degli imputati abbia ricevuto i farmaci e le sostanze indicate in imputazione al fine di procurare a sè o ad altri un profitto. Dalle risultanze istruttorie non emerge alcun elemento che consenta di ipotizzare che tali prodotti farmaceutici fossero dagli imputati rivenduti a terzi o, comunque, ceduti ad altri. Dalle risultanze istruttorie, e in particolare dalle conversazioni intercettate e dalle dichiarazioni di R.D. (che come si è già sopra visto risultano nel loro complesso riscontrate dalla deposizione del M.S., dagli esiti delle perquisizioni effettuate nei confronti degli imputati e dalle conversazioni telefoniche intercettate), emergono, invece, elementi che avvalorano l’ipotesi che tutti gli imputati abbiano ricevuto le sostanze in oggetto al fine di fame uso personale allo scopo di migliorare l’estetica del proprio profilo fisico”.

Sulla base di questi riscontri, il giudice, pertanto, riteneva di escludere la sussistenza di un profitto nell’acquisto dei suddetti farmaci non avendo i medesimi “un valore intrinseco oggettivamente apprezzabile tale da determinare una locupletazione in capo al possessore, ed escluso che dalle evidenze istruttorie emerga che gli imputati fossero soggetti impegnati in competizioni sportive, non può che escludersi che gli imputati abbiano agito al fine di procurare a sè o ad altri un profitto, non potendosi qualificare tale, così come affermato dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass. Sez. 2^ n. 843 del 19.12.2012, Cass. Sez. 2^ sentenza n. 28410 del 12.6.2013) il fine edonistico di conseguire una modifica fisica attraverso l’assunzione di tali farmaci e sostanze. Nelle sentenze citate la Corte ha infatti affermato che “il dolo specifico del fine di profitto, previsto dall’art. 648 c.p., per integrare la condotta di reato, non può consistere in una mera utilità negativa, che si verifica ogni che l’agente agisca allo scopo di commettere un’azione esclusivamente in danno di sè stesso, sia pure perseguendo un’utilità meramente immaginaria o fantastica”. A tali affermazioni di principio la Corte è addivenuta sul presupposto che non è dato ritenere che ogni utilità morale integri profitto, altrimenti venendosi a sovrapporre la categoria del dolo specifico con quella del dolo generico, atteso che l’azione di ciascuno è sempre sorretta dalla intenzione di conseguire, attraverso la medesima, un’utilità soggettivamente valutabile (..se la latitudine del concetto di profitto può essere estesa a qualsiasi utilità, la nozione di utilità, a sua volta, non può essere estesa all’infinito.

Diversamente ragionando si perverrebbe ad una interpretazione abrogante del dolo specifico richiesto dalla norma, con la conseguenza che la condotta di acquisto o ricezione di cosa proveniente da delitto sarebbe punibile solo sulla base del dolo generico, vale a dire la semplice conoscenza dell’origine illecita della cosa..) e individuando nell’idoneità di cagionare danno a sè e non anche a terzi il discrimine tra utilità morale qualificabile quale profitto e utilità priva di tale caratteristica (Ritiene il collegio che la nozione di utilità non possa esser ‘Orzata fino al punto di includervi anche la mera utilità negativa, vale a dire ogni circostanza che, senza ledere diritti o interessi altrui, si risolva in una mera lesione della sfera soggettiva dell’agente. Di conseguenza, deve escludersi che il,fine di compiere un’azione in danno di sè stessi, sia pure perseguendo una utilità meramente immaginaria o fantastica – come nel caso in esame – possa integrare il fine di profitto, vale a dire il dolo specifico previsto dalla norma di cui all’art. 648 c.p. per la punibilità delle condotte ivi descritte). Di talchè per l’ipotesi di acquisto di sostanze dopanti, per il caso le stesse siano destinate ad uso esclusivamente personale e al mero fine, negativo (stante gli effetti collaterali sull’organismo del suo assuntore), edonistico consistente nel perseguimento di una modifica del profilo muscolare personale, non può che escludersi, non determinando il perseguimento di tale scopo alcun detrimento altrui, la sussistenza del fine di profitto integrante il dolo del reato di cui all’art. 648 c.p.”.

2. Contro la suddetta sentenza, il Pubblico Ministero ha proposto ricorso per saltum ex art. 569 c.p.p., comma 1, deducendo la violazione dell’art. 648 c.p., sotto i seguenti profili:

2.1. LA NOZIONE DI PROFITTO: doveva, innanzitutto, ritenersi errata la nozione di profitto che il giudice aveva ritenuto di dare avendolo sovrapposto a quello di un’utilità “positiva” che la norma non richiede. “Sostituendo tale valutazione con una oggettivazione del concetto di profitto interpretata solo come utilità positiva l’area della punibilità verrebbe contenuta nei limiti insicuri di un soggettivo apprezzamento del giudice circa la positività dell’utilità che persegue l’autore del reato: in altri termini è lasciata alla insindacabile sensibilità del giudice la valutazione (peraltro postuma) del carattere di utilità positiva della cosa o del bene ricettato con conseguente giudizio di sussistenza del reato altrimenti la ricezione o acquisto di cose o beni di provenienza delittuosa diventa condotta del tutto lecita. Evidente è l’arbitrarietà di questo tipo di valutazione.

Gli esempi potrebbero essere svariati: l’arma da fuoco ad esempio non può essere valutata in sè come utilità positiva, nè positivo può essere considerato il proposito di uccidere una persona (…) Inoltre non è neppure vero quanto si sostiene in sentenza ossia che le sostanze dopanti non avendo le stesse un valore intrinseco oggettivamente apprezzabile tale da determinare una locupletazione in capo al possessore e ciò in quanto il profitto derivante dalla assunzione non potrebbe essere conseguito altrimenti dall’acquisto del farmaco attraverso canali illeciti in quanto per procurarsi lecitamente lo stesso farmaco sarebbe necessaria una prescrizione medica che presuppone però la (in realtà inesistente) diagnosi di una patologia e perciò il bene assume un valore intrinseco assolutamente apprezzabile. E’ evidente che l’utilità positiva dell’incremento muscolare è perseguita mediante l’acquisto di farmaci provento di delitto”;

2.2. ASSENZA DI DETRIMENTO ALTRUI: “in secondo luogo non è neppure vero che l’uso successivo che senza ledere diritti o interessi altrui, si risolva in una mera lesione della sfera soggettiva dell’agente sia giuridicamente irrilevante. Vero è, infatti, che a partire dalla sentenza delle SS.UU. della Suprema Corte n. 3087 del 29/11/2005 la giurisprudenza di legittimità si è assestata nel senso di ritenere che “Il reato di commercio di sostanze dopanti attraverso canali diversi da farmacie e dispensari autorizzati (L. 14 dicembre 2000, n. 376, art. 9, comma 7) può concorrere con il reato di ricettazione (art. 648 c.p.), in considerazione della diversità strutturale delle due fattispecie – essendo il reato previsto dalla legge speciale integrabile anche con condotte acquisitive non ricollegabili ad un delitto – e della non omogeneità del bene giuridico protetto, poichè la ricettazione è posta a tutela di un interesse di natura patrimoniale, mentre il reato di commercio abusivo di sostanze dopanti è finalizzato alla tutela della salute di coloro che partecipano alle manifestazioni sportive. In coerenza con tale pronuncia la giurisprudenza della Suprema Corte ha sempre ritenuto che il reato di ricettazione potesse concorrere con quello previsto dalla L. n. 376 del 2000, art. 9, comma 7”;

2.3. IL PROFITTO NELLE ALTRE FATTISPECIE CONTRO IL PATRIMONIO: “In terzo luogo occorre riflettere su una conseguenza di non poco conto della opzione interpretativa adottata dalla sentenza impugnata:

trasferire la valutazione della sussistenza del profitto dalla sfera soggettiva a quella oggettiva traendola delle caratteristiche intrinseche del bene oggetto del reato stabilendo che i farmaci dopanti non possono mai per definizione integrare un profitto, significa sottrarre dall’ambito di illiceità penale quel bene non solo quando è provento del delitto di ricettazione ma anche quando esso è oggetto di uno qualunque degli altri reati contro il patrimonio. Il profitto (giusto o ingiusto), infatti, è elemento materiale o oggetto del dolo specifico non solo del delitto di ricettazione ma anche di altri reati contro il patrimonio: ad es. il furto, la rapina, l’estorsione, la truffa. Se il concetto di profitto – andasse letto quale utilità positiva nel senso specificato dalle due citate sentenze della Corte di Cassazione sarebbero leciti (per mancanza dell’elemento materiale o dell’elemento soggettivo) il furto di farmaci dopanti, la rapina di farmaci dopanti, l’estorsione avente ad oggetto la consegna di farmaci dopanti e così via”.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito indicate.

2. Il fatto è pacifico, essendo incontestato che gli imputati, ricevettero farmaci anabolizzanti provento del delitto di cui alla L. n. 376 del 2000, art. 9: quindi, come ha scritto e ritenuto lo stesso giudice, è pacifico che l’elemento materiale del reato di ricettazione deve ritenersi, in sè, integro.

Il giudice, però, ha assolto tutti gli imputati sotto il profilo dell’elemento psicologico in quanto la ricezione dei suddetti farmaci non aveva “un valore intrinseco oggettivamente apprezzabile tale da determinare una locupletazione in capo al possessore, ed escluso che dalle evidenze istruttorie emerga che gli imputati fossero soggetti impegnati in competizioni sportive”; di conseguenza, secondo il giudice, poichè doveva escludersi che gli imputati avessero agito al fine di procurare a sè o ad altri un profitto, non poteva qualificarsi “profitto”, “il fine edonistico di conseguire una modifica fisica attraverso l’assunzione di tali farmaci e sostanze”, così come affermato dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass. Sez. 2^ n. 843 del 19.12.2012, Cass. Sez. 2^ sentenza n. 28410 del 12.6.2013).

3. La questione di diritto che, quindi, è devoluta a questa Corte, consiste nello stabilire: a) cosa deve intendersi per “profitto”; b) se, e in che termini, in tale nozione, possa o meno farsi rientrare la ricezione di sostanze anabolizzanti anche quando le medesime servano all’agente per fini esclusivamente personali e cioè, come nel caso di specie, a fini edonistici in quanto utilizzati per la modifica della struttura muscolare.

4. Questa Corte, innanzitutto, è ben consapevole che, nell’ambito di questa stessa Corte, esiste un orientamento (fatto proprio e richiamato espressamente dal giudice nella sentenza impugnata), secondo il quale “Il dolo specifico del fine di profitto, previsto dall’art. 648 cod. pen. per integrare la condotta di reato, non può consistere in una mera utilità negativa, che si verifica ogni volta che l’agente agisca allo scopo di commettere un’azione esclusivamente in danno di sè stesso, sia pure perseguendo un’utilità meramente immaginaria o fantastica”: Cass. 843/2013 Rv. 254188; Cass. 28410 del 2013.

La suddetta tesi, proprio in una fattispecie di ricettazione di sostanze dopanti, pur non revocando in dubbio che, anche una utilità esclusivamente morale possa integrare il fine di profitto, tuttavia ritiene che “è altrettanto evidente che se la latitudine del concetto di profitto può essere estesa a qualsiasi utilità, la nozione di utilità, a sua volta non può essere estesa all’infinito.

Diversamente ragionando si perverrebbe ad una interpretazione abrogante del dolo specifico richiesto dalla norma, con la conseguenza che la condotta di acquisto o ricezione di cosa proveniente da delitto sarebbe punibile solo sulla base del dolo generico, vale a dire la semplice conoscenza dell’origine illecita della cosa. Ritiene il Collegio che la nozione di utilità non possa essere forzata fino al punto da includervi anche la mera utilità negativa, vale a dire ogni circostanza che, senza ledere diritti od interessi altrui, si risolva in una mera lesione della sfera soggettiva dell’agente. Di conseguenza deve escludersi che il fine di compiere una azione in danno di sè stessi, sia pure perseguendo un’ utilità meramente immaginaria o fantastica (come nel caso di specie), possa integrare il fine di profitto, vale a dire il dolo specifico previsto dalla norma di cui all’art. 648, per la punibilità delle condotte ivi descritte. Diversamente ragionando si arriverebbe al paradosso di considerare dettata dal fine di profitto l’azione di chi si procuri, attraverso un circuito illecito, dei barbiturici allo scopo di suicidarsi. Secondo le norme più elementari della logica, invece, non può essere revocato in dubbio che il suicidio, o altri atti lesivi della propria integrità psicofisica non possano essere ricondotti alla nozione di utilità, a meno che le lesioni alla propria integrità non siano strumentali ad altri fini (per es. il conseguimento di un miglior risultato sul piano agonistico)”.

5. Questa Corte dissente dalla conclusione alla quale è pervenuta la giurisprudenza citata, per le seguenti ragioni.

Una corretta disamina della problematica, impone, innanzitutto, focalizzare l’attenzione sui principi di seguito indicati.

La ratio della ricettazione (reato di cui, com’è ben noto, si discute quale sia il ben giuridico tutelato) consiste, sostanzialmente, nell’intento di bloccare “a valle” la circolazione di beni che siano provento di reato: infatti, il ricettatore è, spesso, punito più gravemente di chi abbia commesso il reato presupposto.

Con questo meccanismo, quindi, il legislatore tenta di “sterilizzare” anche il reato presupposto rendendolo poco appetibile per l’agente che intenda commetterlo proprio perchè costui sa che, poi, non è facile commercializzare quel bene e, quindi, godere del profitto del reato.

La ricettazione è un reato a dolo specifico per tale dovendosi intendere quel reato che l’agente commette avendo di mira il raggiungimento di uno scopo, la cui realizzazione, peraltro, non è necessaria per la consumazione del reato: i suddetti reati, normalmente, si identificano dalle formule adoperate nelle singole norme (“allo scopo di “; al fine di “; “per” ecc.).

Il dolo va, infine, rigorosamente distinto dal movente che, secondo la giurisprudenza, è solo un mezzo per accertare il dolo. Il movente, infatti, è la causa psichica della condotta umana e costituisce lo stimolo che induce l’individuo ad agire; esso, quindi, si distingue dal dolo, che è l’elemento costitutivo del reato e riguarda la sfera della rappresentazione e volizione dell’evento: Cass. 466/1993 Rv. 196106.

Il dolo specifico della ricettazione consiste nel “fine di procurare a sè o ad altri un profitto”.

6. La nozione di “profitto”, come riconosce la stessa Cass. 843/2013 cit., non è controversa in quanto, almeno nella giurisprudenza di questa Corte, il profitto può essere anche non patrimoniale, potendo consistere in qualsiasi utilità o vantaggio, persino di ordine morale: Cass. 1733/1987 Rv. 177559; Cass. 16658/2008 Rv. 239780; Cass. 44378/2010 Rv. 248945: “Il profitto, il cui conseguimento integra il dolo specifico del reato di ricettazione, può avere anche natura non patrimoniale: fattispecie relativa alla detenzione di una camicia militare, recante scritte in caratteri ebraici, dell’esercito israeliano, considerata rappresentativa di Israele, e costituente provento di rapina perpetrata da giovani intenti a distribuire volantini di propaganda politica anti-israeliana; Cass. 11083/2000 Rv. 217382: il profitto, il cui conseguimento integra il dolo specifico del reato di ricettazione, può avere anche natura non patrimoniale: fattispecie relativa ad acquisto di prodotti falsificanti, usati per arredare le vetrine del negozio: la Corte ha ritenuto integrato l’elemento psicologico del delitto del vantaggio genericamente economico conseguito attraverso l’abbellimento della vetrina, benchè i beni falsificati ed usati per arredare la medesima – borse e ombrelli – fossero diversi dai beni – vini e liquori commercializzati nel negozio”.

La suddetta tesi è conforme a quanto ritenuto dalla dottrina maggioritaria secondo la quale, appunto, il profitto – che ha natura relativa e non assoluta – non consiste solo nell’utilità economica o in un altro vantaggio materiale ma anche in qualsiasi soddisfazione (morale o materiale) che l’agente si riprometta dall’impossessamento della cosa. Ed è proprio alla stregua di tale ampia nozione che la suddetta dottrina, come esempio estremo, sostiene che costituisce ricettazione anche una cosa che l’agente intenda utilizzare per suicidarsi.

Questa Corte, peraltro, è ben consapevole che, altra autorevole dottrina, critica la suddetta tesi, in quanto depatrimonializza il concetto di profitto che ha, pur sempre, un carattere economico, finendo, così, con una sostanziale interpretatio abrogans, in quanto ritenendo il profitto in re ipsa, lo si fa coincidere col “movente” dell’azione, che sempre esiste, essendo ogni uomo spinto ad agire per un motivo.

D’altra parte, sempre secondo la suddetta tesi dottrinale, neppure condivisibile è quella tesi che, all’opposto, “economicizza” il concetto di profitto, circoscrivendolo al solo vantaggio economico.

La dottrina più recente, quindi, ha proposto una tesi, per così dire, intermedia secondo la quale si ha “profitto” ogni qualvolta il patrimonio del soggetto agente, per effetto del reato (nella specie, la ricettazione), s’incrementa di un bene che abbia la capacità di soddisfare un bisogno umano (sia esso di natura economico o spirituale) che prima non aveva; restano, quindi, al di fuori del reato patrimoniale, i casi in cui il profitto, nel senso suddetto, non è configurabile come ad es. nel caso dell’agente che, per pura vendetta, sottrae il biglietto aereo per impedire all’amante di partire, senza intento di utilizzarlo o di ottenerne il rimborso.

Nel caso di specie, il dato fattuale è il seguente: gli imputati, ricettando gli anabolizzanti, hanno incrementato il proprio patrimonio di beni che, non avrebbero potuto acquistare nel mercato legale o lo avrebbero potuto solo a condizioni diverse. Solo per effetto del suddetto acquisto (illegale) hanno potuto soddisfare quel loro bisogno “edonistico” di incrementare la massa muscolare, bisogno che, ove fossero ricorsi al “circuito” legale, di certo non avrebbero potuto conseguire o, comunque, lo avrebbero conseguito in misura diversa, in quanto, quelle sostanze, vanno prescritte su prescrizione medica e per necessità terapeutiche che solo un medico può valutare.

Quello, quindi, che sembra essere sfuggito al giudice è proprio questo peculiare aspetto della vicenda in quanto, facendo leva sul solo aspetto psicologico, ha confuso e sovrapposto tre concetti che vanno tenuti rigorosamente separati: il dolo specifico; il profitto; il movente.

Nel caso di specie:

– è configurabile il dolo specifico perchè gli imputati hanno voluto e si sono rappresentati (art. 43 c.p., comma 1) che dall’acquisto di quei farmaci, avrebbero tratto “un profitto”;

– “il profitto”, va individuato nella ricezione di beni (sostanze dopanti) che prima non avevano e che non potevano acquistare in modo legale, beni che, avendo un valore economico, hanno incrementato il loro “patrimonio” potendo trarre da essi un vantaggio e, quindi, idonei a soddisfare un proprio bisogno (materiale o spirituale); il “movente” per cui decisero di ricettare quei beni, ossia”per soli fini edonistici” avendoli utilizzati per incrementare la massa muscolare, è irrilevante ai fini della configurabilità del reato, potendo essere preso in esame solo ai fini del trattamento sanzionatorio ex art. 133 c.p., comma 2, n. 1.

7. In conclusione, la sentenza va annullata con rinvio e gli atti trasmessi alla Corte di Appello di Torino che, nel giudizio di appello, si atterrà al seguente principio di diritto: “il profitto, il cui conseguimento integra il dolo specifico del reato di ricettazione, può avere anche natura non patrimoniale.

Il profitto nel delitto di ricettazione è configurabile ogni qual volta, per effetto del reato, il patrimonio del soggetto agente s’incrementa di un bene dal quale il medesimo possa trarre un vantaggio e, quindi, in sè, idoneo a soddisfare un bisogno umano, sia esso di natura economico o spirituale: conseguentemente risponde del delitto di ricettazione l’agente che acquisiti o riceva farmaci e sostanze dopanti provento del delitto di cui alla L. n. 376 del 2000, art. 9, comma 7;

Ai fini del delitto di ricettazione è irrilevante il movente, ossia la causa psichica che ha indotto l’agente ad agire, potendo il medesimo essere preso in considerazione ai soli fini del trattamento sanzionatorio”.

P.Q.M.

ANNULLA la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Torino per il giudizio.

Così deciso in Roma, il 22 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2016