Con l’uso degli slip, detenuta si uccide in carcere. Nessuna responsabilità per la Direzione carceraria (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 17 febbraio 2020, n. 5976).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRICCHETTI Renato Giuseppe – Presidente

Dott. FERRANTI Donatella – Rel. Consigliere

Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere

Dott. TORNESI Daniela – Consigliere

Dott. PICARDI Francesca – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto dalla parte civile:

(OMISSIS) MARIA nato a ROMA il xx/xx/xxxx;

(OMISSIS) SILVIA nato a ROMA il xx/xx/xxxx;

(OMISSIS) GIOVANNI nato a ROMA il xx/xx/xxxx;

nel procedimento a carico di:

(OMISSIS) PATRIZIA nato a CIVITAVECCHIA il xx/xx/xxxx;

nel procedimento a carico di

(OMISSIS) PAOLO nato a ROMAGNANO SESTA il xx/xx/xxxx;

inoltre:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

(OMISSIS) MAREO nato a ROMA il xx/xx/xxxx;

avverso la sentenza del 21/12/2018 della CORTE APPELLO di ROMA;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Donatella FERRANTI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott.ssa Maria Giuseppina FODARONI che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi delle parti civili e inammissibilità del ricorso incidentale dell’imputata (OMISSIS) Patrizia.

E presente l’avvocato DE JORIO FILIPPO del foro di ROMA in difesa di: (OMISSIS) MARIA (OMISSIS) SILVIA (OMISSIS) GIOVANNI Il difensore presente chiede l’accoglimento del ricorso.

E presente l’avvocato AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO del foro di ROMA in difesa di: MINISTERO DELLA GIUSTIZIA si associa alle conclusioni delle parti civili riportandosi alla memoria scritta.

E’ presente l’avvocato PATETE DOMENICO del foro di PARMA in difesa di: (OMISSIS) PATRIZIA Il difensore presente si riporta ai motivi del ricorso incidentale.

E’ presente l’avvocato GUERRI ANNA MARIA del foro di ROMA in difesa di: (OMISSIS) PAOLO Il difensore presente si riporta alla memoria scritta.

E’ presente l’avvocato D’AMICO LUDOVICO del foro di CIVITAVECCHIA in difesa di: (OMISSIS) MAREO Il difensore presente si associa alle conclusioni del responsabile civile.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 21.12.2018 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Civitavecchia del 27.04.2015, ha assolto (OMISSIS) Cecilia, responsabile del reparto femminile della Casa circondariale di Civitavecchia, per non aver commesso il fatto; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) Patrizia, direttrice, e (OMISSIS) Marco, comandante delle guardie del medesimo istituto, perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione e confermato nei loro confronti le statuizioni civili, in solido con il responsabile civile.

Ha rigettato l’appello della parte civile nei confronti di (OMISSIS) Paolo, medico psichiatra in servizio presso l’istituto carcerario.

2. L’imputazione attiene al reato di cui agli artt. 113 e 589 cod. pen. perché nelle rispettive qualità, per colpa dovuta a negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza della normativa regolamentare, attinente al trattamento e alla sorveglianza dei detenuti manifestanti una difficoltà di adattamento superiore alla norma e di quelli esposti a rischio di suicidio, cagionavano la morte di (OMISSIS) Anna; in particolare, non impedivano che la stessa, affetta da disturbo bipolare e da disturbo borderline di personalità, esposta a significativo rischio suicidario, utilizzando i propri slip, unico indumento e oggetto posto nella sua materiale disponibilità nella cella, attuasse il proprio intento suicida, legandosi intorno al collo l’indumento fissato alla grata della cella e abbandonando il proprio corpo che, per gravità, produceva asfissia meccanica violenta con ostruzione delle vie aeree superiori ed esito letale.

3. La vicenda è riassunta nelle sentenze di merito come segue.

3.1. Il 13 giugno 2009 (OMISSIS) Anna, detenuta per il reato di rapina e nei confronti della quale era stato diagnosticato un disturbo bipolare con condotta di etilismo per il quale era in cura presso il Centro d’igiene mentale, veniva trasferita dall’istituto carcerario di Roma-Rebibbia alla casa circondariale di Civitavecchia, che aveva un servizio psichiatrico convenzionato con la Azienda sanitaria locale (ASL), per questioni attinenti alla sicurezza; appena arrivata aveva tentato il suicidio utilizzando un cavo dell’antenna del televisore mentre si trovava in accettazione; visitata dallo psichiatra (OMISSIS) e poi da altro psichiatra, (OMISSIS), le fu prescritta terapia farmacologica e imposta cella liscia a stretta sorveglianza senza suppellettili e senza vestiti.

In una visita successiva (OMISSIS) aveva integrato la terapia, prescritto un controllo a vista e consigliato il trasferimento in ospedale psichiatrico giudiziario (di seguito OPG), rappresentando che se le misure non si fossero rivelate sufficienti avrebbe dovuto essere “contenuta”.

La (OMISSIS) veniva collocata in una cella munita di rete e materasso, quest’ultimo privo di biancheria e senza finestre, che erano state rimosse, veniva tenuta priva di indumenti ad eccezione degli slip “per pudore” e sottoposta a grande sorveglianza, regime che implicava ripetuti controlli ma non imponeva una cadenza precisa, diversamente dalla sorveglianza a vista che avrebbe comportato la presenza fissa di una unità di polizia penitenziaria in cella.

La direzione, il 17.06.2009, aveva iniziato l’iter per il trasferimento in OPG; il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (di seguito, DAP), il 18.06.2009, aveva designato la casa circondariale di Sollicciano, sezione osservandi; in pari data la Direzione del carcere di Civitavecchia chiedeva all’autorità giudiziaria l’autorizzazione per il trasferimento e la disponibilità alla Casa Circondariale di Sollicciano (che non risulta aver mai risposto).

Il 20 giugno 2009 la (OMISSIS) era molto agitata anche perché non gradiva il trasferimento a Sollicciano, volendo essere ricoverata all’Ospedale Sant’Andrea; era stata controllata ripetutamente dal personale ((OMISSIS) e (OMISSIS) i quali però non erano a conoscenza del fatto che fosse sottoposta a regime di sorveglianza a vista) e durante un controllo alle ore 12,35 era stata trovata impiccata con gli slip alla finestra.

I medici legali consulenti del pubblico ministero avevano accertato che la morte era dovuta ad asfissia meccanica violenta dovuta ad impiccamento compatibile con l’utilizzo di slip.

Era stata notata una congestione a livello polmonare non insolita nelle morti da asfissia ma erano stati esclusi processi infiammatori.

La consulenza psichiatrica aveva confermato che la (OMISSIS) era una paziente instabile con scompenso dell’umore; aveva in più occasioni posto in essere condotte autolesionistiche di impronta manipolativa ed espressiva di un concreto intento suicidario; aveva ingerito candeggina.

E ciò costituiva un indicatore specifico che aumentava il concreto rischio di suicidio, colto nel momento in cui il medico psichiatra aveva disposto che fosse tenuta in cella liscia, senza indumenti e sorvegliata a vista e che fosse trasferita in un OPG o in un servizio psichiatrico di diagnosi e cura in un ospedale civile.

I Giudici del merito hanno concordemente ravvisato la posizione di garanzia a carico degli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS) e la sussistenza di una condotta colposa legata da nesso causale con l’evento morte, per non aver attuato nei rispettivi ruoli tutte le prescrizioni previste dalle circolari del DAP nonostante le stesse prevedessero un’effettiva presa in carico dei detenuti con propositi suicidari.

In particolare, nonostante l’aggravarsi del rischio derivante dalla patologia psichiatrica, non avevano predisposto le necessarie precauzioni per ridurre l’inattività della persona nei momenti di noia e solitudine, salvo consentirle di trattenersi nella cella dell’amica Proietti.

Inoltre, non erano stati richiesti indumenti di carta e non era stata data attuazione alla prescrizione disposta da (OMISSIS) di sorveglianza a vista.

Sul punto della carenza di personale che, a dire della difesa degli imputati avrebbe impedito di disporre la sorveglianza a vista, il Giudice di primo grado afferma che non risulta assolutamente dagli atti istruttori che il personale disponibile, sedici in tutto, non consentisse l’applicazione del regime di sorveglianza a vista, almeno per i giorni strettamente necessari al trasferimento in OPG; nulla è stato allegato al riguardo, né è stato rappresentato al (OMISSIS) o al DAP (fol. 33).

3.2. La Corte di appello, diversamente dal primo giudice, assolveva (OMISSIS) Cecilia, coordinatrice del reparto di polizia femminile, che aveva rinunciato alla prescrizione, per non aver commesso il fatto.

Rilevava che l’imputata non rivestiva un ruolo che le forniva poteri decisionali dovendosi limitare ad eseguire gli ordini a lei forniti e che nell’ambito dei suoi poteri aveva fatto tutto quello che era nelle sue possibilità per salvaguardare la vita della (OMISSIS) e prevenire il pericolo di suicidio; predisponendo dal 15 giugno 2009 una serie di misure per rendere più efficace la sorveglianza, istituendo un apposito registro ove venivano indicati i tipi di intervento, oltre ad un avviso nel quale il personale era stato allertato di controllare la (OMISSIS).

Il 17 giugno 2009 aveva richiesto lei stessa al (OMISSIS) un’ ulteriore visita psichiatrica per la detenuta e, successivamente alle prescrizioni del medico, aveva redatto una relazione, la n. 40, nella quale rappresentava ai superiori la situazione critica della (OMISSIS) e segnalava la non idoneità della struttura ad adempiere alla sorveglianza a vista.

Il giorno del suicidio della (OMISSIS) la (OMISSIS) era assente dal lavoro e quindi non poteva esserle addebitato che la (OMISSIS) dopo l’ora di socialità non era stata posta in nudità ed era stata lasciata con gli slip utilizzati poi per impiccarsi.

3.3. Circa la posizione del (OMISSIS) entrambi i Giudici di merito hanno ritenuto che la condotta del medico era stata corretta, priva di errori o incongruità e che la morte avrebbe potuto essere evitata qualora la misura della sorveglianza a vista fosse stata correttamente applicata.

Tali conclusioni erano avvalorate anche dalla perizia medico-legale, disposta in sede di appello proprio per verificare la correttezza delle condotte assunte dallo psichiatra, nonché per accertare se vi fosse correlazione rilevante tra le misure custodiali assunte nei confronti della persona offesa (cella con pareti liscia, priva di infissi e nudità) e lo stato psichico che aveva portato all’atto suicidario.

4. Avverso la sentenza propongono ricorso per cassazione le parti civili.

4.1. Con il primo motivo si lamenta violazione di legge con riferimento al rifiuto di prove decisive e violazione degli artt. 6 e 13 Cedu in quanto alle parti civili sarebbe stato precluso nel corso del dibattimento il diritto alla prova.

In particolare la difesa di parte civile, ritenendo che l’insieme degli elementi raccolti in sede dibattimentale doveva condurre a configurare l’ipotesi di omicidio preterintenzionale o quella di induzione al suicidio, rappresentava che anche la situazione disumana seguita alle prescrizioni del (OMISSIS) l’aveva esposta al freddo della notte senza alcuna protezione e l’aveva devastata dal punto di vista psicofisico, provocandole una broncopolmonite, poi constatata al momento dell’autopsia.

La difesa lamenta che il collegio ha omesso di acquisire prove fondamentali; in particolare, di audire il perito De Giorgio che aveva svolto l’ispezione del cadavere e l’autopsia e che, sentito dalla Corte di Appello il 15 giugno 2018, rispose con scarsa precisione, disse di non aver portato con sé il carteggio, non si presentò alle successive udienze in cui era stato convocato e infine, all’udienza del 10.12.2018, la sua testimonianza non fu più ritenuta necessaria.

Le fotografie del corpo della vittima e soprattutto del collo, ove il solco era profondo ed esteso, dimostrerebbero che le mutandine non potevano essere state il mezzo attraverso il quale la (OMISSIS) si era tolta la vita; il perito doveva specificare meglio perché menzionò nel verbale di autopsia segni sul collo provocati da una fune.

Infine, si lamenta che immotivatamente la Corte d’appello non ha voluto sentire la teste (OMISSIS), detenuta nel periodo della (OMISSIS), che aveva reso ulteriori spontanee dichiarazioni dopo il giudizio di primo grado, ritenute rilevanti e meritevoli di approfondimento dal Procuratore generale della Corte di appello di Roma che le aveva inviate al pubblico ministero di Civitavecchia per le valutazioni del caso.

4.2. Con il secondo motivo censura per vizio di motivazione il proscioglimento del dott. (OMISSIS) rispetto alla cui posizione la Corte territoriale ha utilizzato per relationem le conclusioni, inattendibili e inveritiere, dei periti e non ha tenuto conto dei rilievi dei consulenti tecnici della parte civile.

Deduce che il (OMISSIS), stante il rifiuto del trattamento farmacologico, doveva inviare la (OMISSIS) al trattamento sanitario obbligatorio o in ospedale; adottò invece un comportamento arrogante e di disprezzo che acuì le condizioni di disagio psichico della detenuta; impose prescrizioni degradanti e disumane, facendola stare nuda ed esposta al freddo; violò i doveri fondamentali della professione medica, prescrivendole farmaci che per la loro debolezza non potevano sortire alcun effetto.

4.3. Con il terzo motivo lamenta violazione di legge in quanto il Collegio non ha deciso in ordine alla richiesta di una maggiore provvisionale alla madre e alla sorella, né sull’appello dello zio la cui costituzione di parte civile era stata esclusa in primo grado.

4.4. Violazione dei principi di diritto europeo elaborati dalla giurisprudenza della Corte EDU in relazione all’art. 2 (diritto alla vita) e all’art. 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti).

I comportamenti posti in esser dal medico (OMISSIS) e dai dirigenti della struttura carceraria hanno violato il diritto alla vita e hanno realizzato un trattamento che ha influito gravemente sulla resistenza umana fisica e morale della detenuta.

È mancata nella fattispecie concreta un’indagine approfondita sulle cause effettive della morte della (OMISSIS).

4.5. Le parti civili ricorrenti hanno presentato memoria difensiva il 28.01.2020 con cui chiedono dichiararsi la inammissibilità del ricorso incidentale e hanno illustrato ulteriormente i motivi di ricorso chiedendo l’annullamento dell’assoluzione di (OMISSIS) e l’affermazione agli effetti civili della sua penale responsabilità unitamente a (OMISSIS) e (OMISSIS); l’assegnazione di una provvisionale, incluso (OMISSIS) Giovanni, che tenga conto dell’entità del danno morale sofferto; il rinvio degli atti al pubblico ministero per nuove indagini in relazione alla morte di Anna (OMISSIS).

5. Per Patrizia (OMISSIS) il difensore ha presentato i seguenti motivi di ricorso incidentale agli effetti civili.

5.1. Il ricorso di parte civile è stato comunicato il 24.06.2019 ma non è stata comunicata la data di deposito.

Si ritiene che la presentazione del ricorso principale di parte civile sia tardiva.

Deduce inoltre la inammissibilità del ricorso in quanto la parte civile mira a rivedere la ricostruzione dei fatti e l’accertamento della responsabilità penale.

5.2. Deduce la inammissibilità della richiesta di modifica della provvisionale stabilita in 10.000,00 euro.

5.3. Deduce la inammissibilità del motivo relativo alla costituzione di parte civile dello zio della persona offesa, già esclusa dal primo giudice.

5.4. Lamenta violazione di legge con riferimento all’art. 578 cod. proc. pen. in quanto, pur in presenza di una causa di estinzione del reato quale la prescrizione, la Corte di appello si è pronunciata circa la responsabilità penale dell’imputata.

6. Ha presentato memoria, anche in replica, in data 20.01.2020, la difesa di Paolo (OMISSIS), con cui, dopo aver ripercorso i tratti salienti della vicenda processuale, chiede dichiararsi l’inammissibilità del ricorso di parte civile o rigettarlo in quanto privo di qualsiasi fondamento.

7. Ha presentato memoria l’Avvocatura Generale dello Stato nell’interesse del Ministero della Giustizia, responsabile civile.

Sostiene che nessuna condotta colposa sia ravvisabile a carico del personale dell’Amministrazione penitenziaria mentre il vero responsabile doveva ritenersi il medico (OMISSIS) che avrebbe dovuto disporre il ricovero di urgenza in una struttura ospedaliera.

Sul punto quindi si associa alle richieste della parte civile affinché, in riforma della sentenza di assoluzione, venga dichiarata la responsabilità penale del (OMISSIS) per la morte di Anna (OMISSIS).

Rappresenta che la parte civile ha attivato l’azione in sede civile davanti al Tribunale di Roma ed è fissata la causa a giugno 2020.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso delle parti civili è infondato.

1.1 II primo motivo di ricorso deve ritenersi inammissibile nella parte in cui l’impugnazione proposta, mira a sindacare la qualificazione giuridica conferita al fatto, anche quando dalla relativa decisione del giudice – come nel caso di specie – derivi una sentenza dichiarativa di prescrizione, nei confronti degli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS), poiché il gravame attiene esclusivamente ai profili penali della vicenda processuale, ed il provvedimento non pregiudica gli interessi concernenti l’obbligazione risarcitoria nascente dal fatto in questione (Sez. 6, n. 37034 del 18/6/2003, P.C. in proc. Cannone, Rv. 228407 – 01).

Considerato, infatti, che la parte civile è legittimata, a norma dell’art. 576, comma 1, cod. proc. pen., a proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento ai soli effetti civili, la sua richiesta, in sede d’impugnazione, deve fare riferimento specifico e diretto, a pena d’inammissibilità del gravame, agli effetti di carattere civile che s’intendono conseguire.

Ne deriva che una richiesta della parte civile impugnante al giudice del gravame, riguardante, come nel caso in esame, la qualificazione giuridica del fatto e quindi l’aspetto penale della vicenda e la connessa responsabilità penale degli imputati, rende inammissibile l’impugnazione, in quanto questa si limita sostanzialmente a sollecitare una delibazione su aspetti squisitamente penali, che esulano dai limiti delle facoltà riconosciute dalla legge alla detta parte processuale ( cfr. Sez. 1 – , n. 2874 del 10/07/2018 Ud. (dep. 22/01/2019 ) Rv. 274800 – 01).

1.2. In relazione poi alla lamentata rinnovazione istruttoria, richiesta dalle parti civili in appello, l’apparato argomentativo a supporto del decisum rende altresì ragione dell’omessa ulteriore escussione del consulente tecnico del pubblico ministero De Giorgi che ha svolto l’esame autoptico, debitamente documentato in atti e della teste (OMISSIS) che aveva conosciuto la (OMISSIS) in carcere, entrambi ampiamente escussi nel dibattimento di primo grado (fol. 10 e 11 della sentenza).

Se è vero infatti che il diniego dell’assunzione di una prova deve essere spiegato dal decidente, la relativa motivazione, sulla quale, entro i limiti di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. è esercitabile il controllo di legittimità, può anche desumersi, per implicito, dal complessivo tessuto argomentativo, qualora il giudice abbia dato comunque conto delle ragioni in forza delle quali egli abbia ritenuto di poter decidere senza ulteriori apporti istruttori (Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013 Ud. (dep. 12/03/2014 ) Rv. 259893 – 01 Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013 Ud. (dep. 17/07/2013) Rv. 257741 – 01).

E certamente non può sostenersi, sulla base dell’ampia motivazione fornita dalla Corte territoriale (fol. da 7 a 10) che, sul punto, il supporto giustificativo sia carente.

I rilievi appena formulati si iscrivono nel più ampio orizzonte della tematica inerente all’ammissibilità della motivazione implicita e all’individuazione del discrimen fra motivazione mancante e motivazione implicita.

Il vizio di mancanza di motivazione è infatti da riconoscersi allorché l’impianto giustificativo non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi, anche in relazione alle censure proposte dalle parti, oppure risulti non intelligibile l’itinerario logico esperito dal giudice di merito nella ricostruzione del fatto ovvero le linee argomentative del discorso motivazionale si presentino del tutto scoordinate e incoerenti, al punto che risultino assolutamente incomprensibili le ragioni a sostegno del decisum.

In giurisprudenza è tuttavia ammessa la motivazione implicita, nel senso che il giudice di merito, per giustificare la decisione, non deve prendere in esame tutte le tematiche prospettate e le argomentazioni formulate dalle parti ma solo quelle ritenute essenziali per la formazione del suo convincimento, dovendosi considerare implicitamente disattese, alla stregua della struttura argomentativa della sentenza le prospettazioni di parte non menzionate.

In sede di legittimità non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione formulata con il gravame allorché la stessa debba considerarsi disattesa sulla base della motivazione della sentenza, complessivamente considerata.

Pertanto, per la validità della decisione, non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente, per escludere il ricorrere del vizio, che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei tatti che conduca implicitamente alla reiezione della deduzione difensiva.

Sicché ove il provvedimento indichi, con adeguatezza e logicità, come nel caso in disamina, quali circostanze ed emergenze processuali si siano rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata non vi è luogo per la prospettabilità del vizio di preterizione, alla luce della “esaustività delle prove acquisite in ordine alla ricostruzione del fatto affidata ad accertamenti tecnici oltre che testimoniali assolutamente affidabili congrui approfonditi e risolutivi” ( Cfr. Sez 2, 19-5-2004 n. 29434, Candiano, rv. n. 229220).

1.3. Il secondo e il quarto motivo, che possono essere trattati congiuntamente, sono generici e aspecifici; non tengono conto della compiutezza e dell’approfondimento con cui le sentenze di merito hanno affrontato le problematiche attinenti alla verifica delle condizioni di salute del soggetto detenuto in relazione alla loro compatibilità con il regime carcerario, con specifico richiamo ai principi normativi nazionali e sovranazionali che regolano la materia e in particolare con riferimento alla posizione dell’imputato (OMISSIS), rispetto al quale la Corte d’appello ha ritenuto di disporre anche un ulteriore accertamento peritale di ufficio.

1.3.1. Il sistema dell’assistenza sanitaria penitenziaria, disciplinato dall’art. 11 della legge n. 354/1975, prevede che in ogni istituto penitenziario vi siano un servizio medico ed un servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati e che si disponga, inoltre, dell’opera di almeno uno specialista in psichiatria; cure ed accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari dell’istituto vengono eseguiti previo trasferimento del detenuto in ospedali o luoghi di cura esterni.

Con specifico riguardo alle visite mediche, è prevista una visita medica generale all’atto dell’ingresso nell’istituto allo scopo di accertare eventuali malattie fisiche o psichiche; i sanitari hanno l’obbligo di visitare quotidianamente gli ammalati e coloro che ne facciano richiesta e di segnalare immediatamente la presenza di malattie che richiedono particolari indagini e cure specialistiche.

1.3.2. La tutela del diritto alla salute delle persone private della libertà personale si ricava, in primo luogo, in via interpretativa dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e dalla Convenzione EDU, che sostanzialmente fanno riferimento al divieto di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti, sulla scorta di principi giurisprudenziali ricavati dalla Corte EDU, che riconducono il diritto alla salute nell’alveo dei diritti garantiti in ambito internazionale, quale corollario del diritto alla vita e della dignità umana.

1.3.3. Vi sono, poi, le Regole penitenziarie europee, ove si afferma che la finalità del trattamento consiste nel «salvaguardare la salute e la dignità» dei condannati nella prospettiva del loro reinserimento sociale (art. 3 delle Regole penitenziarie europee), nonché la deliberazione approvata dall’ONU (dicembre 1982) in materia di «Principi di etica medica per il personale sanitario in ordine alla protezione dei detenuti», nella quale è previsto che «gli esercenti le attività sanitarie incaricati di prestare cure a persone detenute o comunque private della libertà, hanno il dovere di proteggerne la salute fisica e mentale, nello stesso modo che li impegna nei confronti delle persone libere».

1.3.4. Tali principi e regole si pongono in linea sia con il principio di umanizzazione sia con la finalità rieducativa della pena, se ed in quanto entrambi postulano il perseguimento di una piena ed efficace tutela del diritto alla salute del condannato, posto che solo una condizione di benessere psico- fisico dello stesso può garantire il suo recupero e perciò il suo reinserimento sociale.

In tal senso quindi, in ossequio all’art. 27 Cost. ed ai suoi corollari, il detenuto ha diritto alla tutela della sua salute sia fisica che mentale, posto che in effetti la pena può svolgere la propria funzione rieducativa verosimilmente su una persona mentalmente in grado di comprenderne la portata e il significato.

1.3.5. Inoltre, al fine di meglio garantire il diritto inviolabile in questione, la riforma della medicina penitenziaria (d.lgs. 22 giugno 1999, n.230) ha previsto il trasferimento della sanità degli istituti di pena dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale, con ciò – in ossequio al principio di sussidiarietà verticale – imponendo la collaborazione e la integrazione, ciascuna nel proprio ambito, alle diverse istituzioni dello Stato.

1.3.6. L’art. 11 dell’Ordinamento penitenziario, nella seconda parte del comma 5, dispone che l’assistenza sanitaria sia prestata, nel corso della permanenza nell’istituto «con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati», con ciò ponendo un obbligo di controllo delle condizioni sanitarie generali dei detenuti, che deve essere periodico e frequente, specie in presenza di situazioni soggettive meritevoli di particolare attenzione, in considerazione di peculiari condizioni psico-fisiche derivanti anche da una pregressa storia clinica che caratterizzi il detenuto come soggetto potenzialmente “a rischio” sanitario.

1.3.7. Il passaggio dei servizi sanitari penitenziari al SSN nelle articolazioni delle singole regioni si è realizzato con il DPCM 1.04.2008, pubblicato in GU il 30.05.2008, che ha reso operativi i contenuti del d.lgs 230/1999 sopra citato; successivamente il percorso di integrazione carcere-territorio-SSN, per alcune specialità quali la psichiatria, è stato oggetto di ulteriori interventi legislativi quali la L. n. 9 del 2012 e la L. 81 del 2014 con la quale si è terminata la chiusura degli ospedali psichiatrici e l’apertura delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS).

I fatti di cui al processo si collocano nel 2009, proprio, come rilevato dai periti di ufficio nominati della Corte di appello, nella fase di transizione tra i due modelli organizzativi in cui le competenze della salute del detenuto venivano trasferite dall’Amministrazione penitenziaria al Servizio sanitario nazionale.

Più in generale, va ricordato che la possibilità per il detenuto di fruire di cure mediche appropriate anche nella condizione di restrizione carceraria, oltre a porsi in linea con la normativa di principio, costituisce il presupposto fondante la linea di demarcazione tra la compatibilità e l’incompatibilità delle condizioni psico-fisiche della persona con il regime carcerario (Sez. 1, n. 16681 del 24/01/2011, Buonanno, Rv. 24996601); tale rilievo, desumibile dal sistema di norme costituito dagli artt. 299, comma 4-ter, cod. proc. pen., 147 n. 2 cod. pen. e 47-ter, comma 1-ter, I. n. 354/1975, impone un’interpretazione del testo normativo conforme all’obiettivo di associare la privazione della libertà personale al costante controllo delle condizioni di salute della persona (cfr. in tal senso e per la ricostruzione del quadro legislativo riportato in questo paragrafo, Sez. 4, n. 25576 del 11/05/2017, P.M., P.C. in proc. Aloise, Rv. 270328-01).

1.3.8. La sentenza impugnata – che sul punto va letta unitamente a quella di primo grado, trattandosi di cd. doppia conforme – presenta in proposito un percorso motivazionale che sfugge ai rilievi di carattere logico-giuridico sollevati nei motivi di doglianza in esame.

In sede di merito è stato compiutamente accertato, tramite l’ausilio del collegio di consulenti tecnici escussi in sede istruttoria, che il decesso è stato causato da asfissia e che non erano presenti altre patologie; che in base alle dimensioni e alla consistenza del solco intorno al collo si deve ritenere che fosse compatibile con uno slip morbido, utilizzato nella massima estensione, come quello sequestrato al momento del fatto (è stata esclusa la compatibilità con una corda o una fune sottile fol. 8); la presenza di “crestoline emorragiche” ha confermato che l’impiccagione è avvenuta quando la ragazza era viva perché quei segni sono indicativi della presenza di vitalità al momento dell’intervenuta morte per asfissia; nel dibattimento di primo grado era stato visionato lo slip in sequestro ed era risultata la presenza di lacerazioni coerenti con la descrizione dei fatti e con i risultati della consulenza tecnica del perito autoptico dott. Giorgi (fol. 9).

Con particolare riferimento alla condotta del medico psichiatra la Corte territoriale, anche alla luce della perizia di ufficio disposta in sede di appello, ha valorizzato, al pari del primo giudice, che il (OMISSIS) aveva fatto una corretta diagnosi d’ingresso il 13 giugno 2009, prescrivendo una adeguata terapia e, che, stante il rischio suicidario che già emergeva dai ripetuti atti autolesionistici nella pregressa detenzione, aveva disposto il collocamento in cella liscia a stretta sorveglianza, senza suppellettili e vestiti, proprio in quanto vi era stato già un tentativo di impiccagione; il (OMISSIS) aveva di nuovo visitato la (OMISSIS) il 17 giugno 2009 e aveva rilevato “disicontrollo pulsionale e un aggravamento del rischio suicidario”; aveva, quindi, aggiunto alla terapia farmacologica il valium e disposto che fosse controllata a vista, ove necessario “contenuta”, e che fosse ricoverata in OPG.

E’ stata esclusa la concreta percorribilità di forme alternative al trattamento in carcere, quali il ricovero in pronto soccorso (che non avrebbe potuto aggiungere nulla in termini di prescrizione farmacologica e ipotesi diagnostica) o la proposta di trattamento sanitario obbligatorio (TSO), per la quale mancavano i tre requisiti richiesti dalla legge; la misure della nudità e della sorveglianza a vista erano necessarie in quanto uniche in grado di garantire un pronto intervento del personale ed’escludere la possibilità suicidaria (fol 10), soprattutto nella fase di breve durata che doveva precedere il trasferimento in una struttura più idonea, e ciò in considerazione del doppio tentativo suicidario effettuato dalla (OMISSIS) nei pochi giorni di permanenza nell’Istituto.

A fronte di ciò, nonostante le circolari del DAP e le linee guida in tema di gestione dei detenuti a rischio suicidario impongano di fatto al direttore del carcere e al capo della polizia penitenziaria l’assunzione di tutte le iniziative e le condotte necessarie per contenere il pericolo, nel caso di specie, oltre alla richiesta di immediato trasferimento, non è stata data attuazione alla sorveglianza a vista, prescritta dal medico psichiatra né, dinanzi all’aggravarsi della situazione, vi è stata una pressante investitura del Provveditorato per attuare l’immediato trasferimento al carcere di Sollicciano o per far fronte ad un’ eventuale carenza di personale.

Ciò posto, la Corte territoriale ha evidenziato, in modo pienamente coerente sul piano logico e plausibile in termini tecnico-scientifici, il carattere di soggetto ad alto rischio della paziente (OMISSIS) per la quale, secondo le linee guida più riconosciute nel settore specifico psichiatrico, si rendeva assolutamente necessario procedere, oltre a tutti gli interventi di tipo farmacologico prescritti, a una stretta sorveglianza, intesa come assistenza della paziente ventiquattr’ore su ventiquattro.

Tale misura non fu in nessun caso e in nessun momento adottata nei confronti della detenuta, che ebbe una sorveglianza saltuaria, oggettivamente insufficiente a impedire il gesto suicidario.

Sul punto, varrà richiamare l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente (anche là dove quest’ultimo non sia sottoposto a ricovero coatto), con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele ( Sez. 4, n. 33609 del 14/06/2016 Ud. (dep. 01/08/2016 ) Rv. 267446 -01;Sez. 4, Sentenza n. 48292 del 27/11/2008, Rv. 242390).

Le condizioni della paziente-detenuta, evidenziatesi nell’imminenza del fatto, le notizie anamnestiche legate alle precedenti esperienze di tentativo di suicidio, unite alla diagnosi di accettazione, rendevano con evidenza largamente prevedibile, e altamente intenso sul piano obiettivo, il rischio di un rinnovato tentativo di suicidio della (OMISSIS), che il (OMISSIS), secondo la conforme ricostruzione dei fatti dei giudici merito, non trascurò, seppe gestire con competenza e attenzione al caso concreto.

Con motivazione immune da vizi d’indole logica o giuridica, la Corte territoriale ha quindi tratto la conclusione che, laddove fosse stata assicurata dall’Amministrazione carceraria una stretta e continua sorveglianza della paziente, l’evento lesivo oggetto di giudizio non si sarebbe verificato con certezza, secondo una valutazione prognostica ex ante, condotta in coerenza al principio dell’elevata probabilità logica e credibilità razionale.

Si tratta in conclusione di argomentazioni che vanno esenti da vizi logico- giuridici riscontrabili in questa sede; nè è consentito a questa Corte di procedere ad una rilettura del fatto in termini alternativi rispetto a quanto compiutamente accertato dai giudici di merito.

1.4. Il terzo motivo, peraltro nemmeno proposto in appello, è inammissibile poiché omette di considerare la regula iuris, al riguardo enunciata da questa Suprema Corte (Sez. 4, n. 34791 del 23/06/2010, dep. 27/09/2010, Rv. 248348; Sez. 5, n. 5001 del 17/01/2007, dep. 07/02/2007, Rv. 236068; Sez. 5, n. 40410 del 18/03/2004, dep. 15/10/2004, Rv. 230105), secondo cui la pronuncia circa l’assegnazione di una provvisionale in sede penale ha carattere meramente delibativo e non acquista efficacia di giudicato in sede civile, mentre la determinazione dell’ammontare della stessa è rimessa alla discrezionalità del giudice del merito che non è tenuto a dare una motivazione specifica sul punto.

Ne consegue che il relativo provvedimento non è impugnabile per cassazione in quanto, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato, è destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione del danno (Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014 Ud. (dep. 03/12/2014), Rv. 261536 – 01).

1.5. Quanto alla dedotta esclusione della parte civile, Giovanni Conte, va osservato (Sez. 3, n. 39321 del 9/7/2009, dep. 9/10/2009, Rv. 244610) che l’ordinanza di esclusione della parte civile, di regola non impugnabile, è suscettibile di ricorso per cassazione ove affetta da abnormità, in quanto caratterizzata da un contenuto di tale assoluta singolarità da porsi in posizione “extra-vagante” rispetto al sistema ordinamentale ed al diritto positivo (nella specie la Corte ritenne abnorme l’ordinanza di esclusione dal dibattimento di parti civili fondata su ragioni di “economia processuale” come tali estranee ai parametri dell’art. 81 cod. proc. pen.).

In definitiva, solo allorquando il provvedimento in parola manifesti a supporto della decisione argomenti del tutto eccentrici rispetto ai parametri valutativi che la legge sottopone al vaglio discrezionale del giudice o allorquando miri a perseguire finalità improprie, deve affermarsi il vizio di abnormità strutturale di un tale provvedimento (Sez. 2, n. 45622 del 14/09/2017 Cc. (dep. 04/10/2017 ) Rv. 271155 – 01; Sez. 4, n. 40737 del 28/06/2016 Cc. (dep. 29/09/2016 ) Rv. 267777 – 01;).

Nel caso di specie non ricorre nessuna delle suddette ipotesi, pertanto, il motivo è manifestamente infondato.

2. Quanto al ricorso incidentale, presentato dalla difesa della (OMISSIS), va rilevato che è ” irricevibile” posto che tale forma di impugnazione in sede di legittimità è ignota al codice di rito penale e che nell’atto non vi è alcun contenuto impugnatorio: l’atto può, quindi, valere come memoria difensiva in quanto i contenuti esprimono sostanzialmente dissenso dalla impugnazione delle parti civili ( cfr. Sez. 1 n.33051 del 12.07.2011).

3. In conclusione il ricorso delle parti civili deve essere rigettato con condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

4. Va dichiarato non luogo a provvedere in ordine al ricorso di (OMISSIS) Patrizia.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso delle parti civili e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Dichiara non luogo a provvedere in ordine al ricorso di (OMISSIS) Patrizia.

Così deciso in Roma, il 12.02.2020.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.