Condannata la donna che finge di essere incinta per sottrarsi al provvedimento di espulsione (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 13 giugno 2022, n. 22969).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MICCOLI Grazia Rosa Anna – Presidente –

Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –

Dott. BELMONTE Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BRANCACCIO Matilde – Rel. Consigliere –

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) DORINA nata il 24/11/1990;

avverso la sentenza del 26/02/2021 della CORTE APPELLO di TORINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa MATILDE BRANCACCIO;

udito il Sostituto Procuratore Generale, Dott.ssa PERLA LORI che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Viene in esame la sentenza della Corte d’Appello di Torino con cui, nei confronti di Dorina (OMISSIS), è stata confermata la condanna ad otto mesi di reclusione per il reato di false dichiarazioni relative all’asserito suo stato di gravidanza, rese ad un agente della Polizia di Stato, una volta identificata a seguito di un controllo ed essendo emerso che ella era destinataria di un provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale.

Nei confronti dell’imputata è stata esclusa la circostanza aggravante della recidiva e sono state riconosciute, invece, le attenuanti generiche.

2. Propone ricorso l’imputata, tramite il difensore di fiducia, deducendo quattro motivi distinti.

2.1. Il primo argomento di censura denuncia violazione di legge in relazione alla configurabilità del reato previsto dall’art. 495 cod. pen.

La tesi del ricorrente è che, tra le “qualità personali” (per usare l’espressione prevista dalla Rubrica normativa), la falsità delle quali può configurare il delitto in esame, non possa rientrare quella di uno stato fisico – come si rivela, nella specie, la condizione di essere incinta -, dovendo trattarsi di qualità funzionali all’individuazione o all’identificazione di un soggetto (si citano le sentenze n. 30192 del 2013 e n. 12887 del 1989): l’essere in stato di gravidanza, invece, costituisce una condizione fisica che non ha alcuna rilevanza ai fini dell’identificazione della persona controllata.

Il ricorrente evoca, altresì, la sentenza Sez. 5, n. 30809 del 22/7/2003, Mirenda, Rv. 226969, in una fattispecie con aspetti di analogia a quella dedotta.

2.2. La seconda eccezione deduce violazione di legge in relazione al principio del nemo tenetur se detegere.

La ricorrente ha reso la sua dichiarazione mendace per sottrarsi al provvedimento amministrativo di espulsione dal territorio nazionale, emesso ai sensi dell’art. 20, comma 11, d.lgs. n. 30 del 2007, ed il principio generale richiamato si applica anche ai procedimenti amministrativi e non soltanto a quelli penali.

2.3. Il terzo motivo di ricorso deduce vizio di carenza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata acquisizione del certificato farmaceutico relativo al test di gravidanza positivo utilizzato dalla ricorrente per dar forza alla propria dichiarazione mendace circa il suo stato di gravidanza e ritenuto falso anch’esso dai giudici di merito.

2.4. La quarta ragione di censura eccepisce vizio di mancanza e manifesta illogicità della motivazione, che non ha tenuto conto della memoria difensiva depositata prima della discussione del giudizio d’appello, memoria di cui non si dà atto neppure nel verbale d’udienza.

3. Il PG ha concluso per il rigetto del ricorso con requisitoria scritta.

3.1. Il difensore dell’imputata ha depositato conclusioni scritte per l’accoglimento del ricorso, chiedendo l’annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste ovvero con rinvio per nuovo esame.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Il primo motivo pone la questione dei confini applicativi del reato di cui all’art. 495 cod. pen. (falsa attestazione o dichiarazione ad un pubblico ufficiale sull’identità o su qualità personali proprie o di altri), tema già più volte dibattuto dalla giurisprudenza di legittimità.

Seguendo la linea interpretativa dominante leggibile dalle sentenze della Corte di cassazione (un’eco contraria si ritrova solo in poche, più risalenti pronunce: cfr. Sez. 4, n. 30192 del 18/12/2012, dep. 2013, Giusto, Rv. 257737), nella nozione di qualità personali, cui fa riferimento l’art. 495, comma primo, cod. pen., rientrano gli attributi ed i modi di essere che servono ad integrare l’individualità di un soggetto e, cioè, sia le qualità primarie, concernenti l’identità e lo stato civile delle persone, sia le altre qualità che pure contribuiscono ad identificare le persone, quali la professione, la dignità, il grado accademico, l’ufficio pubblico ricoperto, una precedente condanna e simili (Sez. 5, n. 19695 del 5/3/2019, Bigoni, Rv. 275920, in una fattispecie in cui la falsa informazione di ricoprire il titolo di alto ufficiale dell’esercito è stata ritenuta rientrare nelle qualità secondarie).

Il portato applicativo che fa leva su tale nozione estesa di “altre qualità”, riferita ad ogni dato identificativo della persona che risulti in qualche modo essenziale o significativo per individuare il soggetto dichiarante, in relazione alle circostanze concrete di verifica da parte del pubblico ufficiale, si espande sino a comprendere sia quelle informazioni che concernono direttamente l’identità del dichiarante (le qualità primarie), sia quelle informazioni che, pur non offrendo informazioni utili alla identificazione anagrafica del soggetto, contribuiscono ad identificarlo nella sua individualità (le qualità secondarie) ed anche quelle situazioni di fatto cui l’ordinamento collega effetti giuridici, quali presupposti o condizioni di legittimazione nei rapporti intersoggettivi.

E la casistica che si è svelata all’osservazione della Corte — e che si è ritenuto integrasse il delitto in esame – ha toccato i contesti più vari:

– la condotta del privato che attesti falsamente, al fine di essere ammesso a colloquio con un soggetto detenuto, di essere legato allo stesso da un rapporto di convivenza (Sez. 5, n. 44111 del 26/9/2019, Farsetta, Rv. 277846; Sez. 5, n. 10123 del 8/2/2022, Culò, Rv. 221492);

– la condotta del privato che attesti falsamente al pubblico ufficiale l’identità del coniuge nell’atto di matrimonio (Sez. 5, n. 4054 del 10/1/2019, Tarascio, Rv. 275489);

– la condotta di chi dichiari nel corso di un controllo di non avere precedenti penali (Sez. 5, n. 18476 del 26/2/2016, Livreri, Rv. 266549; vedi anche Sez. 5, n. 37571 del 8/7/2015, Zara, Rv. 264944).

Nel caso della ricorrente, lo stato di gravidanza falsamente dichiarato, al pari delle altre qualità secondarie esemplificativamente indicate, contribuisce all’accertamento di un connotato della persona integrativo della sua identità; o meglio, rappresenta una condizione fisica rilevante per l’ordinamento, che ad essa riconnette alcuni effetti giuridici.

L’imputata, infatti, ha fornito l’informazione personale, attinente ad un suo stato fisico, integrativo della sua identità, in un dato momento storico della sua vita, al fine di usufruire degli effetti giuridici che da esso avrebbero potuto derivare, in relazione al provvedimento di allontanamento dal territorio dello Stato, rilevato dopo la sua identificazione anagrafica dagli ufficiali di polizia che stavano procedendo al controllo stradale.

Per le ragioni predette, il Collegio intende affermare, con riferimento alla fattispecie in esame, che nella nozione di qualità personali, cui fa riferimento l’art. 495, comma primo, cod. pen. (falsa attestazione o dichiarazione ad un pubblico ufficiale sull’identità o su qualità personali proprie o di altri), rientrano gli attributi ed i modi di essere che servono ad integrare l’individualità di un soggetto, e cioè: le qualità primarie, concernenti l’identità e lo stato civile delle persone; le qualità secondarie che pure contribuiscono ad identificare le persone, quali la professione, la dignità, il grado accademico, l’ufficio pubblico ricoperto, una precedente condanna; le situazioni di fatto cui l’ordinamento collega effetti giuridici, quali presupposti o condizioni di legittimazione nei rapporti intersoggettivi.

Le ragioni proposte dalla difesa, dunque, non hanno pregio, né incrina l’opzione ermeneutica qui condivisa la sentenza citata dalla difesa (Sez. 5, n. 30809 del 20/3/2003, Mirenda, Rv. 226969), che non è rilevante poiché la ratio assolutoria si incentra sulla facoltà di non sottoscrivere l’atto, assorbente rispetto alla dichiarazione falsa relativa alla incapacità a sottoscriverlo.

3. Il secondo motivo di ricorso, che richiama il principio generale di garanzia secondo cui nemo tenetur se detegere, è inammissibile perché manifestamente infondato e fuori fuoco nella fattispecie esaminata.

La finalizzazione della condotta mendace della ricorrente, il suo “movente” ad agire, per evitare il provvedimento amministrativo di espulsione dal territorio nazionale, non può avere rilievo nei termini invocati dalla difesa.

Il principio suddetto, espressione di un vero e proprio “diritto al silenzio” di chi sia sottoposto a procedimento penale, tradizionalmente, si intende che operi esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già avviato, non potendo essere esteso, ai sensi dell’art. 51 cod. pen., ai reati di falso in atto pubblico.

Il riconoscimento ad un soggetto del diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione, a conferma e garanzia irrinunciabile dell’equo processo previsto dall’art. 6 CEDU, opererebbe esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato e non nella fase ad esso precedente e relativa alla commissione di un reato, poiché la sua “ratio” è da individuarsi nella protezione dell’imputato da coercizioni abusive da parte dell’autorità (Sez. 3, n. 53656 del 3/10/2018, A., Rv. 275452; Sez. 5, n. 12697 del 20/11/2014, dep. 2015, Strazimiri, Rv. 263034).

Il Collegio non ignora che, successivamente alla sentenza della Corte di Giustizia Europea CGUE, Grande Sezione, 2 febbraio 2021, causa C-481/19 – avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Corte costituzionale italiana, con ordinanza del 6 marzo 2019, nel procedimento DB contro CONSOB – potrebbe oggi ritenersi possibile un ampliamento dell’ambito di applicazione del diritto al silenzio a quei procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni sostanzialmente penali e con forti tratti peculiari, sia per le modalità attraverso le quali essi si snodano, sia per gli importanti esiti afflittivi ai quali possono dar luogo.

Come noto, nella richiamata pronuncia, la Grande Camera della Corte di Giustizia, interpretando gli artt. 47 e 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, alla luce anche della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di diritto ad un “processo equo”, ha stabilito che l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), e l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6 e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione, letti alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che essi consentono agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica, la quale, nell’ambito di un’indagine svolta nei suoi confronti dall’autorità competente a titolo di detta direttiva o di detto regolamento, si rifiuti di fornire a tale autorità risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale (per il concetto di sanzioni sostanzialmente penali, cfr., tra le molte, Sez. 5, n. 39999 del 15/4/2019, Respigo, Rv. 276963; Sez. 5, n. 49869 del 21/9/2018, Chiarion, Rv. 274604).

Manifestamente, nel caso di specie, non ci trova dinanzi ad un procedimento amministrativo del genere di quello instaurato su iniziativa della CONSOB per illeciti previsti dal d.lgs. n. 58 del 1998, sicché, anche a voler estendere l’operatività del diritto al silenzio alla specifica categoria dei procedimenti amministrativi suddetti evidentemente tra essi non rientrerebbe la fattispecie in esame.

Inoltre, manca in ogni caso l’altro necessario presupposto, utile a far scattare il principio del nemo tenetur se detegere e la garanzia del diritto al silenzio; vale a dire che non ci si trova dinanzi ad una procedura già attivata, ma le false dichiarazioni si collocano in una fase precedente, caratterizzata da una situazione di irregolarità della presenza nel territorio dello Stato non ancora emersa neppure all’attenzione della polizia giudiziaria che procedeva al controllo, né tantomeno posta alla base di un qualsiasi procedimento di espulsione od allontanamento in relazione al quale la ricorrente si trovasse ad essere ascoltata (ella era stata soltanto fermata per controlli stradali insieme ad altri).

Ed invece, il presupposto dell’attivazione di un procedimento integra un requisito comunque necessario a far scattare la ragione di tutela costituita dall’esigenza di proteggere il soggetto nei confronti di abusi da parte dell’autorità statale che intenda porgli delle domande.

Sotto altro profilo, il diritto al silenzio non si spinge fino alla tutela di chi non già taccia di fronte a contestazioni mossegli all’interno di un procedimento (penale o magari anche amministrativo), bensì “inventi” spontaneamente e senza alcuna sollecitazione proveniente dalla pubblica autorità (gli agenti di polizia si stavano limitando alla sua identificazione) circostanze a lui favorevoli, per sfuggire alle conseguenze di procedure amministrative (quella di espulsione o allontanamento dal territorio dello Stato) neppure ancora emerse al momento in cui si rendono le dichiarazioni false.

In conclusione, con riferimento alla fattispecie in esame, deve affermarsi il seguente principio di diritto: il riconoscimento ad un soggetto de/diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione (diritto al silenzio), a conferma e garanzia irrinunciabile dell’equo processo previsto dall’art. 6 CEDU, sia che operi nell’ambito di un procedimento penale ovvero venga in rilievo in relazione a determinati e peculiari procedimenti amministrativi, impone che il procedimento sia già attivato e non si spinge fino alla tutela di chi non già taccia di fronte a contestazioni mossegli all’interno dello stesso procedimento, bensì “inventi” spontaneamente e senza alcuna sollecitazione proveniente dalla pubblica autorità circostanze a lui favorevoli, per sfuggire alle conseguenze di procedure amministrative neppure ancora emerse al momento in cui si rendono le dichiarazioni false.

4. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato: non è contestata la falsità del certificato farmaceutico attestante lo stato di gravidanza, ma solo la dichiarazione relativa a tale condizione fisica.

Pertanto, la necessità di acquisizione del certificato medico evocata dalla ricorrente è irrilevante ai fini della prova del suo stato di gravidanza, che è stata desunta aliunde, e precisamente da un esame clinico cui è stata sottoposta l’imputata dalla polizia giudiziaria proprio per verificare se fosse o meno incinta.

5. Infine, anche la quarta ragione di censura è inammissibile.

Il Collegio intende ribadire, in generale, che l’omessa valutazione di una memoria difensiva non determina alcuna nullità, ma può influire sulla congruità e sulla correttezza logico-giuridica della motivazione del provvedimento che definisce la fase o il grado nel cui ambito sono state espresse le ragioni difensive (Sez. 1, n. 26536 del 24/6/2020, Cilio, Rv. 279578).

Ad ogni buon conto, nel giudizio di cassazione, la parte che deduce l’omessa valutazione di memorie difensive ha l’onere di indicare, pena la genericità del motivo di impugnazione, l’argomento decisivo per la ricostruzione del fatto contenuto nelle memorie e non valutato dal giudice nel provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 24437 del 17/1/2019, Armeli, Rv. 276511; in motivazione, la Corte ha precisato che l’omessa valutazione di memorie difensive non costituisce causa di nullità della decisione, ma può unicamente incidere sulla tenuta logico-giuridica della motivazione).

Nel caso di specie, il ricorso chiarisce che la memoria era incentrata su argomenti giuridici ed analisi di giurisprudenza in tema di falsità in atti, ma non individua vizi della motivazione determinati dalla sua mancata analisi, tanto più che la sentenza ha dato conto degli orientamenti ermeneutici ai quali si è rapportata, con ciò rispondendo alle ragioni di diritto illustrate nella memoria difensiva, sebbene non accogliendo l’opzione gradita all’imputato ed esposta principalmente nel primo motivo di censura.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 28 aprile 2022.

Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.