Condominio e danni da violazione di distanze.

(Corte di Cassazione civile, Sez. II, sentenza 7 settembre 2016, n. 17695)

Il danno derivante dalla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni è “in re ipsa”, una volta dimostrato il fatto obiettivo della violazione, non occorre un’autonoma e specifica prova del pregiudizio sofferto, che può essere valutato dal giudice equitativamente a norma dell’art. 1226 c.c. , ove risulti la difficoltà di una sua precisa determinazione in relazione alla peculiarità del fatto dannoso.

Cassazione civile Sez. II, 7/9/2016, n. 17695

…omissis…

Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia la “violazione degli artt. 907 e 1120 c.c. , per avere la corte d’appello ritenuto illegittima la tettoia in relazione al mancato rispetto delle distanze legali e alla lesione del decoro architettonico dell’edificio ( art. 360 c.p.c. , n. 3)” (così ricorso principale, pag. 27).

Deduce che, contrariamente all’assunto della corte di merito e conformemente agli esiti, rettamente intesi, della c.t.u., la tettoia oggetto della controversia “non può essere considerata una costruzione” (così ricorso principale, pag. 27) ai fini di cui all’art. 907 c.c. ; che, invero, la tettoia è “priva del carattere di stabilità, non costituisce un manufatto capace di incidere negativamente sull’esercizio del diritto di veduta, non comportando, quindi, alcun ostacolo alla fruizione di aria e luce nella zona di rispetto” (così ricorso principale, pag. 29).

Deduce che, d’altra parte, la tettoia non rileva ai sensi dell’art. 1120 c.c. , comma 2, atteso che siffatta disposizione “riguarda esclusivamente le innovazioni realizzate nelle parti comuni dell’edificio, mentre la tettoia è stata realizzata nel terrazzo di proprietà esclusiva del ricorrente” (così ricorso principale, pag. 29); che, al contempo, non sussiste lesione del decoro architettonico dell’edificio, “come dimostrato dalle fotografie allegate nel giudizio di primo grado (…) e (…) tenuto anche conto della ben visibile biancheria dei condomini stesa sui relativi fili sporgenti e delle numerose macchine dei condizionatori” (così ricorso principale, pag. 30); che, in ogni caso, la rimozione della tettoia era da dispone unicamente nei limiti in cui lede il decoro architettonico, siccome del resto in via subordinata le stesse controparti avevano richiesto.

Il motivo non merita seguito.

Si premette che il motivo de quo si qualifica in relazione alla previsione del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. , comma 1 (si condivide, dunque, la prospettazione dei controricorrenti secondo cui si tratta di “pure e semplici contestazioni in ordine a valutazioni di merito”: così controricorso, pag. 5).

Occorre tener conto, da un lato, che C.P. col motivo in disamina censura sostanzialmente il giudizio di fatto cui la corte distrettuale ha atteso (“la Corte d’Appello è incorsa nell’errore di ritenere (…) che la tettoia esistente nel terrazzo dell’appartamento del ricorrente costituisca una costruzione o un’opera ad essa equiparabile” così ricorso, pag. 27; “altro errore consiste nell’aver ritenuto cha la tettoia costituisca innovazione che (…) lede il decoro architettonico (…)”: così ricorso, pag. 29).

Occorre tener conto, dall’altro, che è propriamente il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5), che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499).

Si premette, ulteriormente, che, in ossequio al canone di cosiddetta “autosufficienza” del ricorso per cassazione (cfr. Cass. sez. lav. 4.3.2014, n. 4980), quale positivamente sancito all’art. 366 c.p.c. , comma 1, n. 6), ben avrebbe dovuto il ricorrente, onde consentire a questa Corte il compiuto riscontro, il compiuto vaglio dei suoi assunti, riprodurre più o meno integralmente nel corpo del ricorso il testo della relazione di consulenza tecnica d’ufficio e non limitarsi a parafrasarne singoli stralci.

E ciò tanto più giacchè, per un verso, il ricorrente ha assunto che “l’errata interpretazione della Corte d’Appello nasce da una sbagliata lettura della relazione di consulenza tecnica d’ufficio” (così ricorso, pag. 28) e giacchè, per altro verso, il controricorrente ha dedotto che le valutazioni della corte distrettuale sono “largamente confortate dalle risultanze della C.T.U.” (così controricorso, pag. 5).

Si rappresenta, comunque, che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllame l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Si rappresenta, conseguentemente, che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato alle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (cfr. Cass. 9.82007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Nei termini testè enunciati l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte distrettuale risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo ed esaustivo sul piano logico – formale.

Più esattamente la corte territoriale ha vagliato nel complesso – non ha dunque obliterato la disamina di punti decisivi – e dipoi ha in maniera inappuntabile selezionato il materiale probatorio cui ha inteso ancorare il suo dictum (“a seguito dell’esame diretto dei rilievi fotografici allegati alla relazione di c.t.u., (…) si rileva che trattasi di costruzione di dimensioni notevoli, posta (…) nel prospetto dell’edificio, sito sulla via (OMISSIS), dalla quale è chiaramente visibile, che deturpa notevolmente la facciata, importando una lesione della sua linea armonica e della sua simmetria”: così sentenza d’appello, pag. 5; che la “veranda è stata realizzata, come la veranda originaria, a distanza di cm. 25 dalla soletta del balcone dell’appartamento S.”: così sentenza d’appello, pag. 7), altresì palesando in forma nitida e coerente il percorso decisorio seguito (“a seguito dell’esame diretto dei rilievi fotografici allegati alla relazione di c.t.u., (…)”: così sentenza d’appello, pag. 7).

In pari tempo, il dictum della corte palermitana è perfettamente in linea con gli insegnamenti di questa Corte di legittimità, che, difatti, spiega quanto segue.

In primo luogo, che l’art. 907 c.c. , in tema di distanze delle costruzioni dalle vedute, è applicabile anche nei rapporti tra condomini di un edificio, non derogando l’art. 1102 c.c. , al disposto del citato art. 907 c.c. (cfr. Cass. 2.10.2000, n. 13012); che, segnatamente, il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta in appiombo fino alla base dell’edificio e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino (nella specie, un pergolato realizzato a copertura del terrazzo del rispettivo appartamento), che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l’esercizio di tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l’art. 907 c.c. , il bilanciamento tra l’interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, in quanto luce ed aria assicurano l’igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita (cfr. Cass. 16.1.2013, n. 955).

In secondo luogo, che la violazione del diritto di veduta del proprietario di un’unità immobiliare si determina quando viene realizzata una “fabbrica”, a distanza inferiore da quella prevista dalla legge, di qualsiasi materiale e forma tanto, si badi, in rapporto alla deduzione del ricorrente principale secondo cui la tettoia de qua non può essere considerata una costruzione, idonea ad ostacolare stabilmente l’esercizio della “inspectio” e della “prospectio” nonchè di godere di luce ed aria dalla veduta (cfr. Cass. 30.1.2008, n. 2209); che, segnatamente, il condomino che abbia trasformato il proprio balcone in veranda, elevandola sino alla soglia del balcone sovrastante, è soggetto alla normativa sulle distanze di cui all’art. 907 c.c. , quando la costruzione insista su altra area del terrazzo non ricadente in quella del sovrastante balcone, mentre non è tenuto ad analogo rispetto qualora la veranda insista esattamente nell’area del balcone senza debordare dal suo perimetro, in modo da non limitare la veduta in avanti e a piombo del proprietario sovrastante (cfr. Cass. 7.8.2007, n. 17317).

In terzo luogo, che costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (cfr. Cass. 11.5.2011, n. 10350); altresì, che la relativa valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, ove non presenti vizi di motivazione (cfr. Cass. 11.5.2011, n. 10350); ancora, che, ai fini della tutela prevista dall’art. 1120 c.c. , comma 2, in materia di divieto di innovazioni sulle parti comuni dell’edificio condominiale, non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall’innovazione abbia un particolare pregio artistico, nè rileva che tale decoro sia stato già gravemente ed evidentemente compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano alterate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità (cfr. Cass. 19.6.2009, n. 14455).

Evidentemente, alla luce degli insegnamenti in terzo luogo ribaditi, la tettoia non poteva che esser reputata lesiva nel suo complesso del decoro architettonico del fabbricato condominiale, sicchè non poteva che disporsene (in accoglimento della principale domanda degli originari attori) l’integrale e non già la parziale rimozione; in pari tempo, alla luce degli stessi insegnamenti, del tutto ingiustificata è la prospettazione secondo cui la tettoia non rileva ai sensi dell’art. 1120 c.c. , comma 2, giacchè “è stata realizzata nel terrazzo di proprietà esclusiva de ricorrente” (così ricorso principale, pag. 29).

A tal ultimi riguardi si tenga conto, ulteriormente, che, in tema di condominio, il decoro architettonico, quando possa individuarsi nel fabbricato una linea armonica, sia pure estremamente semplice, che ne caratterizzi la fisionomia, è un bene comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c. , il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendono apportare (cfr. Cass. 4.4.2008, n. 8830).

E, di conseguenza, giacchè la tutela del decoro architettonico attiene a tutto ciò che nell’edificio è visibile ed apprezzabile dall’esterno, posto che esso si riferisce alle linee essenziali del fabbricato, cioè alla sua particolare struttura e fisionomia, che contribuisce a dare ad esso una sua specifica identità, il proprietario della singola unità immobiliare non può mai, senza autorizzazione del condominio, esercitare una autonoma facoltà di modificare quelle parti esterne, siano esse comuni o di proprietà individuale (come, ad esempio, la tamponatura esterna di un balcone rientrante), che incidano sul decoro architettonico dell’intero corpo di fabbrica o di parti significative di esso (cfr. Cass. 30.8.004, n. 17398).

Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia la “violazione dell’art. 1073 c.c. , per non avere la corte d’appello ritenuto prescritta per non uso la servitù di veduta dei sigg. S.A. e Ca.Gi. ( art. 360 c.p.c. , n. 3)” (così ricorso principale, pag. 31).

Deduce che “la tettoia è stata realizzata negli anni 1971 – 1972 e che successivamente è stata soltanto modificata con la sostituzione dell’originaria copertura con lastre di vetro con pannelli lamellari” (così ricorso principale, pag. 31); che, conseguentemente, la servitù di veduta ex adverso pretesa, in dipendenza del mancato esercizio dello ius prohibendi da parte del proprietario dell’asserito fondo dominante, deve reputarsi estinta per prescrizione ventennale ancor prima, per giunta, della presunta realizzazione ex novo, negli anni 1996 – 1998, della tettoia.

Deduce che “a maggior ragione ricorre l’estinzione della servitù stante che non vi è stata alcuna rilevante modificazione della tettoia che possa farla ritenere opera nuova” (così ricorso principale, pag. 32).

Il motivo è immeritevole di seguito.

E’ innegabile che la “veduta” è esercitata dai controricorrenti iure proprietatis, non già iure servitutis.

E’ indubitabile, altresì, che la disciplina delle distanze per le vedute, contenuta nell’art. 907 c.c. , vale per tutte le vedute, indipendentemente dal fatto che esse siano state aperte iure proprietatis o iure servitutis (cfr. Cass. 2.3.1978, n. 1057).

Ed è fuor di dubbio, inoltre, che il “diritto di veduta” iure proprietatis non è soggetto a prescrizione estintiva, trattandosi di facoltà costituente manifestazione intrinseca del diritto di proprietà.

Per nulla giustificate, pertanto, sono le prospettazioni che il motivo in esame veicola.

Segnatamente gli assunti secondo cui “il non uso da parte dei Sigg. S. – Ca. ha determinato l’estinzione della servitù di veduta” (così ricorso principale, pag. 31), secondo cui “il mancato uso dello ius prohibendi da parte del proprietario del fondo dominante comporta, se protratto per un periodo superiore a venti anni, l’estinzione della servitù” (così ricorso principale, pagg. 31 – 32), secondo cui “la leggera modificazione presa in considerazione dalla Corte d’Appello non può concretizzare la realizzazione di un’opera nuova (…). Conseguentemente la Corte d’Appello avrebbe dovuto ritenere senz’altro realizzata l’estinzione della servitù e non averlo dichiarato viola la norma dell’art. 1073 c.c. ” (così ricorso principale, pagg. 32 – 33).

Con il terzo motivo il ricorrente principale denuncia la “violazione dell’art. 1158 c.c. , in rapporto alla mancata dichiarazione da parte della corte d’appello del diritto a mantenere la tettoia per usucapione della servitù corrispondente all’affermato limite legale violato ( art. 360 c.p.c. , n. 3)” (così ricorso principale, pag. 33).

Deduce che ha usucapito la servitù di mantenere la tettoia; che infatti la tettoia non ha subito alcuna modificazione e che a decorrere dal 1971 è ampiamente decorso il termine ventennale.

Con il quarto motivo il ricorrente principale denuncia l'”omessa, insufficiente motivazione sul punto decisivo della controversia consistente nel ritenere che la modificazione della tettoia abbia costituito opera nuova dalla quale decorre il nuovo termine per il decorso dell’usucapione del diritto a mantenere la tettoia ( art. 360 c.p.c. , n. 5)” (così ricorso principale, pag. 34).

Deduce che la circostanza riferita dal consulente tecnico d’ufficio, secondo cui a seguito degli interventi del 1996 – 1998 la tettoia sarebbe “più aggettante di almeno cm. 50 in direzione della via (OMISSIS)”, e poi recepita dalla corte d’appello è “poco rilevante” (così ricorso, pag. 35) e non risulta che la corte d’appello “abbia adeguatamente considerato le ragioni per le quali la ritenuta modificazione (…) porti a stabilire che trattasi di una opera nuova” (così ricorso, pag. 35); che, d’altro canto, la corte siciliana ha omesso ogni motivazione in ordine alle note del 23.10.2006, depositate nel corso del giudizio di primo grado unitamente alle osservazioni del proprio consulente, con cui erano state contestate le conclusioni del c.t.u..

Il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale sono strettamente connessi.

Se ne giustifica, perciò, la disamina congiunta.

Ambedue i motivi comunque sono destituiti di fondamento.

Evidentemente anche il terzo motivo si qualifica in relazione alla previsione del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. , comma 1.

Invero, pur col terzo motivo C.P. censura sostanzialmente il giudizio di “fatto” cui la corte distrettuale ha atteso (“le stesse univoche risultanze (…) dovevano condurre la Corte d’Appello a togliere qualsiasi efficacia alla condanna alla rimozione della tettoia perchè usucapito il diritto al mantenimento di essa”, così ricorso, pag. 33).

Ovviamente anche al riguardo riveste valenza l’inottemperanza al canone di “autosufficienza” del ricorso per cassazione: il ricorrente avrebbe dovuto nel ricorso riprodurre più o meno integralmente della relazione di c.t.u. e delle osservazioni del proprio c.t.p. e non limitarsi a parafrasarne o trascriverne singoli stralci.

In ogni caso – e nel segno dei medesimi insegnamenti dapprima menzionati circa l’ambito del sindacato di questa Corte in ordine al giudizio di “fatto” del giudice del merito – i passaggi motivazionali cui, in parte qua agitur, è ancorata la decisione della corte d’appello, risultano assolutamente ineccepibili.

Analogamente la corte di merito ha vagliato nel complesso e poi in maniera inappuntabile ha selezionato il materiale probatorio su cui ha fondato la sua statuizione, in particolare l’affermata caratterizzazione della tettoia quale opera realizzata ex novo negli anni compresi tra il 1996 ed il 1998 (“dalle univoche risultanze delle deposizioni testimoniali è emerso che l’opera (…) è stata realizzata negli anni 1971 – 72 e che, successivamente alla sua realizzazione, è stata sostituita la sua copertura con lastre di vetro con pannelli lamellari”; “dalla relazione di ctu, si rileva però che intorno al 1996 – 1998 la veranda è stata modificata con struttura in ferro, montanti incastrati nella parete interna del muretto divisorio (…), elementi orizzontali in ferro e tettoia costituita in pannelli lamellari”;

che rispetto alla struttura precedente “detta veranda è stata realizzata (…) più aggettante di almeno cm. 50 in direzione di via (OMISSIS)”;

che, “conseguentemente, la nuova veranda, realizzata con dimensioni maggiori rispetto a quella originaria, essendo più aggettante di almeno cm. 50 (…) costituisce opera nuova”;

che, “pertanto, dalla data della sua realizzazione (…) non antecedente al 1990), decorre un nuovo termine al fine del verificarsi dell’usucapione della servitù avente ad oggetto il mantenimento della costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti (…) locali ed a mantenere comunque la situazione lesiva del decoro dell’edificio esistente”;

che “alla data della proposizione della domanda giudiziaria (25 luglio 2003) il termine di venti anni di usucapione (…) non era quindi decorso” (così sentenza d’appello, pag. 6 – 8)), altresì palesando in forma nitida e coerente il percorso decisorio seguito.

E’ indubitabile, ovviamente, che per il principio “tantum praescriptum quantum possessum”, il termine prescrizionale acquisitivo a titolo originario di un diritto di servitù, nel caso di modifica dell’opera per il suo esercizio rispetto ad altra precedente, decorre dall’effettuata trasformazione (cfr. Cass. 22.10.1998, n. 10481; Cass. 27.1.2014, n. 1616).

D’altro canto, la consulenza di parte, ancorchè confermata sotto il vincolo del giuramento, costituisce una semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di autonomo valore probatorio, con la conseguenza che il giudice di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzarne e a confutarne il contenuto, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con esso incompatibili e conformi al parere del proprio consulente (cfr. Cass. 29.1.2010, n. 2063; Cass. sez. lav. 21.2.2001, n. 2486; Cass. 11.7.1983, n. 4712, secondo cui il giudice di merito può disattendere senza particolare confutazione la consulenza tecnica di parte, fondando il suo convincimento su considerazioni che ne escludono obiettivamente l’attendibilità).

Con l’unico motivo i ricorrenti incidentali censurano la statuizione della corte di Palermo nella parte in cui ha disconosciuto il risarcimento del danno.

Adducono che nei termini della liquidazione equitativa del danno nessun ostacolo si frappone alla liquidazione del pregiudizio nella misura pari ad Euro 2.000,00, quale determinata dal primo giudice, attesa l’indubitabile sussistenza del nocumento da essi sofferto; che comunque il danno connesso alla violazione della servitù di veduta deve considerarsi in re ipsa.

Il ricorso incidentale è fondato e meritevole di accoglimento.

E difatti le argomentazioni sulla cui scorta la corte territoriale ha ritenuto di espungere la condanna al risarcimento del danno pronunciata dal primo giudice (“nella specie, non risulta da alcun elemento di prova, neppure indiziario, che dalla realizzazione dell’opera (…) sia derivato agli appellati alcun danno patrimoniale così sentenza d’appello, pag. 8), non possono essere condivise.

E’ sufficiente reiterare l’insegnamento di questa Corte di legittimità a tenor del quale, in caso di violazione delle distanze tra costruzioni determinante l’asservimento di fatto del fondo del vicino (è il caso di specie) o la limitazione di una servitù a suo favore, il danno deve ritenersi “in re ipsa”, senza necessità di una specifica attività probatoria (cfr. Cass. 27.3.2008, n. 7972; nel caso di cui alla menzionata pronuncia, relativo alla violazione della servitù di veduta esercitata dal balcone dell’appartamento sito al primo piano sopraelevato, poichè il proprietario terreno aveva innalzato una tettoia in canne a meno di tre metri, questa Corte ha ritenuto corretta la liquidazione del danno in via equitativa da parte del giudice di merito, in mancanza di effettive prove fornite dal deducente, tenuto conto della modesta limitazione del diritto di prospetto e del modesto vantaggio derivato dall’ampliamento; cfr. Cass. 16.12.2010, n. 25475).

In tal guisa, giacchè, appunto, il danno derivante dalla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni è “in re ipsa”, una volta dimostrato il fatto obiettivo della violazione, non occorre un’autonoma e specifica prova del pregiudizio sofferto, che può essere valutato dal giudice equitativamente a norma dell’art. 1226 c.c. , ove risulti la difficoltà di una sua precisa determinazione in relazione alla peculiarità del fatto dannoso (cfr. Cass. 23.3.1993, n. 3414).

In parte qua agitur, pertanto, il dictum della corte siciliana è inficiato da violazione di legge (cfr. Cass. 24.10.2007, n. 22348, secondo cui il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c. , n. 3, ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione (“id est”: del processo di sussunzione), rilevando solo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero, ancora, che sia stata male applicata).

In accoglimento del ricorso incidentale la sentenza n. 1227 dei 16.9/3.10.2011 della corte d’appello di Palermo va cassata con rinvio ad altra sezione della medesima corte.

All’enunciazione – in ossequio alla previsione dell’art. 384 c.p.c. , comma 1 – del principio di diritto – al quale ci si dovrà uniformare in sede di rinvio – può farsi luogo per relationem, nei medesimi termini espressi dalla massima desunta, segnatamente, dall’insegnamento di questa Corte n. 7972 del 27.3.2008, dapprima citato.

In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale ed, in relazione e nei limiti dell’accoglimento del medesimo ricorso incidentale, cassa la sentenza n. 1227 dei 16.9/3.10.2011 della corte d’appello di Palermo; rinvia ad altra sezione della corte d’appello di Palermo anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2016.