Coniugi, in concorso tra loro, per ottenere il beneficio economico del “reddito di cittadinanza” dichiaravano il falso (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 10 febbraio 2020, n. 5290).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SARNO Giulio – Presidente

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

Dott. CERRONI Claudio – Consigliere

Dott. CORBETTA Stefano – Consigliere

Dott. ANDRONIO Alessandro Maria –  Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Sciortino Gioacchino, nato a Palermo il xx/xx/xxxx;

avverso l’ordinanza del 17/06/2019 del Tribunale di Palermo;

visti gli atti, l’ordinanza impugnata e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Alessandro Maria Andronio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Stefano Tocci, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 17 giugno 2019, il Tribunale di Palermo ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell’interesse di Sciortino avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip del Tribunale di Palermo in data 1 giugno 2019 avente ad oggetto una “Carta POSTAMAT RDC”, in quanto indagato, con la moglie Sacco Francesca, per il reato previsto dall’art. 7 della legge n. 26 del 2019, perché in concorso tra loro, per ottenere il beneficio economico del “reddito di cittadinanza” dichiaravano il falso, attestando lo stato di disoccupazione di entrambi, quando in realtà Sciortino Gioacchino svolgeva attività lavorativa di addetto al laboratorio di pasticceria e rosticceria in un locale denominato “Bar Orchidea”, come accertato dai carabinieri della stazione di Palermo – che effettuavano un servizio di osservazione nel luogo predetto – percependo un compenso pari a euro 180,00 a settimana.

Il Tribunale ha ritenuto infondata la prospettazione difensiva, basata sull’assunto che l’ISEE necessario al fine di dimostrare di rientrare nei parametri reddituali indicati dalla legge sarebbe stato richiesto l’8 febbraio 2019 e rilasciato in data 12 febbraio 2019 in concomitanza con l’inizio dell’attività lavorativa di Sciortino, la cui retribuzione non avrebbe comportato il superamento del limite massimo di ISEE annuo per ottenere il beneficio economico e, dunque, l’obbligo di comunicare la variazione.

In particolare il Tribunale ha rilevato che l’autodichiarazione presentata ai fini della concessione del beneficio è dell’8 marzo 2019 e, perciò, riferita a un momento in cui l’indagato svolgeva attività lavorativa da oltre un mese.

Ha inoltre evidenziato l’anomalia della situazione, rappresentata dal fatto che – al momento del controllo da parte della polizia giudiziaria – risultava che Sciortino svolgesse lavoro senza regolare contratto; mentre, solo successivamente, era stata documentata l’esistenza di un contratto di lavoro semestrale.

2. Avverso l’ordinanza l’indagato, ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo, con unico motivo di doglianza, la violazione dell’art.125 cod. proc. pen. e della “legge n. 26 del 2019”, nonché vizi della motivazione, sulla premessa che la variazione di reddito ritenuta penalmente rilevante, legata alla nuova attività occupazionale da lui svolta, si sarebbe prodotta in un momento successivo al rilascio della documentazione ISEE necessaria per la domanda del reddito di cittadinanza.

Secondo la difesa, sarebbe dubbia l’esistenza di un obbligo di comunicare tale variazione di reddito non essendosi comunque verificato il superamento della soglia richiesta dalla legge – pari ad euro 9.360,00 annui (art. 3, comma 4, del d.l. n. 4 del 2019) – per la concessione del beneficio, dal momento che il reddito percepito sarebbe di 180,00 euro settimanali, per un contratto di durata semestrale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è infondato.

3.1. Viene in rilievo l’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2019, il quale prevede: al comma 1, che «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni»; al comma 2, che «L’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni».

Entrambe le fattispecie – la prima delle quali caratterizzata dal dolo specifico – si configurano come reati di condotta e di pericolo, in quanto dirette a tutelare l’amministrazione contro mendaci e omissioni circa l’effettiva situazione patrimoniale e reddituale da parte dei soggetti che intendono accedere o già hanno acceduto al “reddito di cittadinanza”.

Si tratta, cioè, di una disciplina correlata, nel suo complesso, al generale “principio antielusivo” che, come più volte affermato da questa Corte (ex plurimis, Sez. 4, n. 18107 del 16/03/2017, Rv. 269806, e la giurisprudenza ivi richiamata), s’incardina sulla capacità contributiva ai sensi dell’art. 53 Costituzione, la cui ratio risponde al più generale principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.; per cui, la punibilità del reato di condotta si rapporta, ben oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico.

Tale essendo la ratio delle due fattispecie incriminatrici dell’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, deve ritenersi che le stesse trovino applicazione indipendentemente dall’accertamento dell’effettiva sussistenza delle condizioni per l’ammissione al beneficio e, in particolare, del superamento delle soglie di legge.

Né la necessità di un tale accertamento emerge dalla formulazione letterale della disposizione, nella misura in cui questa si riferisce, al primo comma, «al fine di ottenere indebitamente il beneficio» e, al secondo comma, al complesso delle «informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio».

Entrambi i riferimenti devono essere, infatti, intesi come diretti a qualificare i dati che sono in sé rilevanti ai fini del controllo, da parte dell’amministrazione erogante, sulla sussistenza dei presupposti per la concessione e il mantenimento del beneficio e a differenziarli da quelli irrilevanti, senza che possa essere lasciata al cittadino beneficiario la scelta su cosa comunicare e cosa omettere.

E ciò, perché – come visto – il legislatore ha inteso creare un meccanismo di riequilibrio sociale, quale il reddito di cittadinanza, il cui funzionamento presuppone necessariamente una leale cooperazione fra cittadino e amministrazione, che sia ispirata alla massima trasparenza, come emerge anche dai successivi commi del richiamato art. 7, che disciplinano, non a caso, un’ampia casistica di fattispecie di revoca, decadenza e sanzioni amministrative.

Tale conclusione interpretativa si pone, del resto, in armonia con quanto già affermato da questa Corte in relazione alla fattispecie penale di cui all’art. 95 del d.P.R. n. 115 dei 2002, in materia di patrocinio a spese dello Stato, a norma del quale «La falsità o le omissioni nella dichiarazione sostitutiva di certificazione, nelle dichiarazioni, nelle indicazioni e nelle comunicazioni previste dall’articolo 79, comma 1, lettere b), c) e d), sono punite con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309,87 a euro 1.549,37.

La pena è aumentata se dal fatto consegue l’ottenimento o il mantenimento dell’ammissione al patrocinio; la condanna importa la revoca, con efficacia retroattiva, e il recupero a carico del responsabile delle somme corrisposte dallo Stato».

In particolare, secondo Sez. U, n. 6591 del 27/11/2008, dep. 16/02/2009, Rv. 242152, integrano il delitto di cui al richiamato art. 95 le false indicazioni o le omissioni, anche parziali, dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio.

E tale orientamento ha trovato conferma nella giurisprudenza successiva delle sezioni semplici (ex multis, Sez. 4, n. 40943 del 18/09/2015, Rv. 264711), la quale ha anche precisato che si tratta di un’interpretazione che non si pone in contrasto con la Costituzione – e, in particolare, con gli artt. 2, 3, 24 e 27 – perché attinge al generale dovere di lealtà dei cittadini verso l’amministrazione, che consente l’anticipazione della tutela penale attraverso l’utilizzazione dello strumento del reato di pericolo (Sez. 4, n. 18107 del 16/03/2017, Rv. 269806), fatta evidentemente salva l’esclusione della punibilità di condotte nelle quali manchi l’elemento del dolo, sia pure eventuale (Sez. 4, n. 37144 del 05/06/2019, Rv. 277129; Sez. 4, n. 7192 del 11/01/2018, Rv. 272192).

Si tratta di affermazioni che possono trovare applicazione, in via analogica, anche in relazione alla disciplina ‘fissata dall’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, la quale non si differenzia in maniera essenziale da quella dell’art. 95 del d.P.R. n. 115 del 2002, in quanto entrambe appaiono dirette a sanzionare la violazione del dovere di lealtà del cittadino verso l’amministrazione che eroga una provvidenza in suo favore e non prevedono, perciò, la necessità di accertare la sussistenza in concreto dei requisiti reddituali di legge.

3.2. I principi appena affermati trovano applicazione anche nel caso di specie, in cui la ricostruzione fornita dalla difesa appare, comunque, ampiamente smentita dalla successione dei fatti, come correttamente riportati nell’ordinanza impugnata.

Emerge, in particolare, che:

a) l’accertamento dello svolgimento di attività lavorativa da parte di Sciortino era derivato da appostamenti dei carabinieri presso il suo luogo di lavoro;

b) tale attività lavorativa secondo quanto dichiarato dallo stesso Sciortino, era cominciata l’8 febbraio 2019, ovvero lo stesso giorno in cui gli interessati avevano chiesto il rilascio della attestazione ISEE, poi effettivamente rilasciata il 12 febbraio 2019;

c) la domanda di reddito di cittadinanza era stata presentata, con la relativa autodichiarazione sulla situazione reddituale e patrimoniale, nella successiva data del 18 marzo 2019, senza che l’attività lavorativa, già in corso di svolgimento, fosse stata posta a conoscenza dell’amministrazione;

d) successivamente è stata prodotta un’attestazione relativa all’esistenza di un regolare rapporto di lavoro, sulla base di un contratto di durata semestrale, che contrasta con la prospettazione difensiva iniziale, secondo la quale l’attività lavorativa risultava svolta “al nero”;

e) allo stato degli atti, tale attestazione appare giustificata dall’intento di limitare il reddito percepito a soli sei mesi e ad importo totale di euro 7200,00 in modo da collocarlo al di sotto della soglia di legge;

f) il complesso di questi elementi fa ritenere sussistente anche il dolo specifico del reato di cui al comma 1 dell’art 7 del d.l. n. 4 del 2019, con particolare riferimento alla sostanziale incertezza del reddito effettivamente percepito a seguito di attività lavorativa il nero, il cui effettivo ammontare è stato prima taciuto e poi artificiosamente diminuito dagli indagati;

g) i riscontrati indizi di reato giustificano il disposto sequestro della Carta Postamat, in vista di una revoca del beneficio.

È proprio in relazione a casi come questo che il legislatore ha concepito le sanzioni penali di cui al richiamato art. 7, allo scopo di evitare che il soggetto beneficiario del reddito di cittadinanza possa omettere di comunicare all’amministrazione l’esistenza di redditi percepiti al nero, lasciando all’amministrazione stessa l’onere di determinarne l’esatto ammontare e di computarlo ai fini del superamento delle soglie di accesso al beneficio.

3.3. In conclusione, per quanto riguarda la fattispecie cautelare in esame, può essere formulato il seguente principio di diritto: «ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2019, il sequestro preventivo della carta reddito di cittadinanza, nel caso di false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, da parte del richiedente, può essere disposto anche indipendentemente dall’accertamento dell’effettiva sussistenza delle condizioni per l’ammissione al beneficio».

4. Il ricorso, conseguentemente, deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 25/10/2019.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.