Conto deposito titoli: l’istituto di credito non deve rendicontare il cliente (Corte di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza 21 luglio 2020 n. 15568).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. CAMPESE Edoardo – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 12761/2016 r.g. proposto da:

DI STEFANO FRANCESCANTONIO, rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta a margine del ricorso, dagli Avvocati Rosario Salonia e Fabio Massimo Cozzolino, presso il cui studio elettivamente domicilia in Roma, al Largo Leopoldo Fregoli n. 8.

– ricorrente –

contro

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A. (cod. fisc. 00884060526), con sede in Siena, alla Piazza Salimbeni n. 3, in persona del dott. Luigi Losurdo, suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso, dall’Avvocato Carlo Macallini, presso il cui studio elettivamente domicilia in Roma, Lungotevere Flaminio n. 76

– controricorrente –

avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI L’AQUILA depositata in data 09/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 07/07/2020 dal Consigliere dott. Eduardo Campese.

FATTI DI CAUSA

1. Con atto notificato il 21 gennaio 2000, Francescantonio (detto Francesco) Di Stefano citò la Banca Popolare della Marsica s.p.a. (poi divenuta Monte dei Paschi di Siena s.p.a., per il prosieguo, più semplicemente, Banca) innanzi al Tribunale di Avezzano chiedendo accertarsi il proprio diritto ad avere tutta la documentazione relativa alla consistenza ed alla movimentazione avvenute, fin dal 1990, sul conto deposito titoli n. 1/7750, a lui intestato presso detto istituto e, per l’effetto, ordinarsi a quest’ultimo, previa verifica della sua condotta inadempiente, di produrre tutta la documentazione suddetta.

La Banca si costituì e contestò le avverse argomentazioni.

1.1. All’udienza dell’8 maggio 2003, il difensore dell’attore, invocando il disposto dell’art. 1453, comma 2, cod. civ., modificò la domanda originaria in richiesta di risoluzione del contratto dedotto in giudizio e condanna dell’istituto convenuto al risarcimento dei danni subiti e subendi dal Di Stefano.

La Banca eccepì l’inammissibilità di tali nuove domande.

1.2. Con sentenza del 17/29 novembre 2008, n. 900, l’adito tribunale ritenne inammissibile il descritto mutamento di domanda per l’insussistenza dei presupposti di cui all’art. 1453 cod. civ..

2. Il gravame promosso dal Di Stefano avverso quella decisione è stato respinto dalla Corte di appello di L’Aquila con la sentenza del 9 marzo 2016, resa nel contraddittorio con la Banca.

Per quanto qui ancora di interesse, quella corte:

i) ha considerato ammissibile il mutamento di domanda operato in primo grado dall’appellante, qualificando la sua originaria richiesta come di “adempimento contrattuale”, come tale suscettibile di modifica in domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento ex art. 1453, comma 2, cod. civ.;

ii) ha rigettato quest’ultima domanda ritenendola carente di prova, non essendo stato prodotto il contratto suddetto, con conseguente impossibilità anche di verificare la concreta esistenza dell’obbligo informativo che il Di Stefano assumeva essere stato violato e la non scarsa importanza, ex art. 1455 cod. civ., dell’inadempimento ove effettivamente accertato.

3. Avverso questa sentenza ricorre per cassazione il Di Stefano, affidandosi a due motivi.

Resiste, con controricorso, la Banca, proponendo, altresì, ricorso incidentale condizionato con un motivo.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. 1. I motivi del ricorso principale denunciano, rispettivamente:

I) «Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».

Viene censurata la statuizione di rigetto della domanda di risoluzione contrattuale e si ascrive alla sentenza oggi impugnata di aver erroneamente ritenuto insussistente la prova della titolarità, in capo al Di Stefano, del conto deposito titoli n. 1/7750, appoggiato sul conto corrente n. 3616, entrambi asseritamente aperti dall’odierno ricorrente presso la Banca Popolare della Marsica s.p.a., malgrado la documentazione in atti (lettera contabile del 9 giugno 1998 e modello RAD trasmesso dalla Banca, entrambi allegati alla nota deposito di documenti del 12 settembre 2000) e le risultanze dell’istruttoria orale svolta in primo grado dimostrassero il contrario;

II) «Violazione e falsa applicazione degli artt. 1375, 1453, 1455 e 2697 c.c. – Art. 6 della legge 2 gennaio 1991, n. 1 – artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».

Richiamati i principi resi da questa Corte in tema di prova dell’inadempimento delle obbligazioni, si afferma che l’iter logico seguito dalla corte distrettuale per disattendere la domanda di risoluzione contrattuale «… è palesemente viziato per violazione delle disposizioni del codice sostanziale indicate in rubrica posto che, una volta provato il rapporto negoziale tra le parti ed allegato l’inadempimento della Banca Popolare Marsicana s.p.a., sarebbe stato onere di quest’ultima provare il fatto estintivo della sua pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento…».

Il ricorrente sostiene, inoltre, che «…il diritto del cliente ad essere informato sulle attività di intermediazione mobiliare e sulla giacenza del proprio deposito titoli trova fondamento nel principio di buona fede che è clausola generale di interpretazione ed esecuzione del contratto, nonché fonte di integrazione della regolamentazione negoziale, ai sensi degli artt. 1366, 1375 e 1374 c.c..

Tale diritto si configura come diritto autonomo che, pur derivando dal contratto, è estraneo alle obbligazioni tipiche che ne costituiscono lo specifico contenuto: esso nasce dall’obbligo di buona fede, correttezza e solidarietà – principio costituzionalizzato (art. 2 Costituzione) – che è accessorio di ogni prestazione dedotta in negozio e consente alla parte interessata di conseguire ogni utilità programmata, anche oltre quelle riferibile alle prestazioni convenute, comportando esso stesso una prestazione cui ognuna delle parti è tenuta in quanto imposta direttamente dalla legge».

2. Le descritte doglianze, scrutinabili congiuntamente perché chiaramente connesse, sono complessivamente infondate.

2.1. Invero, la corte aquilana ha respinto la domanda di risoluzione contrattuale del Di Stefano ritenendo non provata la titolarità, in capo a quest’ultimo (invece specificamente contestata dalla controparte), del conto deposito titoli n. 1/7750, giacente presso la Banca Popolare della Marsica.

Egli, infatti, non aveva prodotto il corrispondente contratto, né il numero di quest’ultimo era riportato nelle contabili da lui depositate. Inoltre, la mancanza del documento contrattuale impediva, ad avviso della medesima corte, «anche di valutare il dedotto inadempimento, giudizio imprescindibile, atteso che l’art. 1455 c.c. richiede, per la risoluzione, che l’inadempimento non sia di scarsa importanza.

Infatti, quello in esame non è un contratto di conto corrente, nel quale è comunemente prevista l’obbligazione accessoria di inviare al correntista estratti conto periodici, ma un conto di deposito, con il quale la banca assume l’obbligazione di custodire i titoli che il correntista acquista (e di cui, perciò, necessariamente conosce numero e tipo, atteso che solo a seguito del suo acquisto e di sue disposizioni essi vengono depositati sul conto), ma non anche quella di informare il correntista, periodicamente, della consistenza dei titoli depositati (che, in mancanza di acquisti, può anche non variare mai)».

Si è specificato, infine, da un lato, che «l’art. 119 TUB e l’art. 8 della legge n. 154/1992 sono norme entrate in vigore dopo la stipulazione del contratto di deposito, anteriore al 1990, ed inapplicabili al medesimo perché irretroattive»; dall’altro, che la mancata previsione, in un contratto di deposito, spesso poco o per nulla movimentato, dell’invio periodico di informazioni non appare, «di per sé ed in assenza di altri ulteriori elementi, contrario ai canoni di correttezza e buona fede che regolano l’esecuzione dei contratti».

Pertanto, «in mancanza di prova della sussistenza del concreto contenuto dell’obbligo di informare periodicamente il cliente, non può affermarsi che la banca sia stata inadempiente, né, tanto meno, che il suo inadempimento non sia stato di scarsa importanza».

2.2. La duplice carenza di prova (a) della titolarità del conto predetto e, per effetto dell’omessa produzione del relativo contratto, (b) del concreto contenuto di quest’ultimo, in relazione ad eventuali obblighi informativi ivi sanciti a carico della Banca, è, dunque, ciò che ha condotto la corte distrettuale a disattendere la domanda di risoluzione del Di Stefano.

2.3. Orbene, il primo motivo dell’odierno ricorso di quest’ultimo, – pure volendosene sottacere l’inammissibile prospettazione generica e cumulativa di vizi di natura eterogenea (censure motivazionali ed errores in iudicando), in contrasto con la tassatività dei motivi di impugnazione per cassazione e con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità per cui una simile tecnica espositiva riversa impropriamente sul giudice di legittimità il compito di isolare, all’interno di ciascun motivo, le singole censure (cfr., ex plurimis, Cass. n. 33348 del 2018; Cass. n. 19761, n. 19040, n. 13336 e n. 6690 del 2016; Cass. n. 5964 del 2015; Cass. n. 26018 e n. 22404 del 2014) – per come concretamente argomentato, tende a sovrapporre la questione relativa alla titolarità del conto deposito titoli con quella, affatto differente, del contenuto delle specifiche clausole del corrispondente contratto (di cui è pacifica la mancata produzione in giudizio) rilevanti ai fini della valutazione dell’eventuale inadempimento ascritto alla Banca e, soprattutto, della sua non scarsa importanza ex art. 1455 cod. civ..

2.3.1. E’ intuitivo, tuttavia, che la prima di esse è inidonea, da sola, a dimostrare la sussistenza dei requisiti per la invocata risoluzione: la titolarità di un rapporto contrattuale, infatti, è il presupposto necessario ed imprescindibile che legittima uno dei contraenti ad agire giudizialmente per ottenerne la risoluzione per inadempimento, la cui pronuncia, però, postula l’esame delle clausole contrattuali e la valutazione della condotta, coerente, o meno, ad esse, della parte cui l’inadempimento è ascritto.

2.3.2. Nella specie, questa doglianza del Di Stefano si risolve, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo, cui il ricorrente intenderebbe opporre, inammissibilmente (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019), sotto la formale rubrica di vizio motivazionale e/o di violazione di legge, una diversa valutazione. Così operando, però, egli oblitera totalmente che:

i) la denuncia di violazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. deve essere dedotta, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, cod. proc. civ., non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità.

Essa, dunque, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr., ex multis, Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass. n. 26300 del 2018); la nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., come introdotta dal d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla I. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza pubblicata il 9 marzo 2016), riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass.n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017), altresì ricordandosi che neppure costituiscono “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

2.3.3. In ogni caso, per mera completezza, deve rilevarsi che il documento costituito dalla lettera contabile riprodotta in ricorso (cfr. pag. 32), recante la indicazione dei numeri di conto (quello deposito titoli e quello di conto corrente), appare intestato a Francesco Di Stefano, non già a Francescantonio Di Stefano (questo il nome dell’odierno ricorrente) e non riporta il codice fiscale del soggetto ivi intestatario, con conseguente impossibilità di effettiva identificazione di quest’ultimo (leggendosi, nella sentenza impugnata, che la Banca aveva sempre contestato la titolarità in capo all’odierno ricorrente del conto deposito titoli de quo, attribuendola alla diversa persona di Francesco Di Stefano).

2.3.3.1. Analoga carenza è riscontrabile nel modello RAD riprodotto alla pag. 33 del ricorso.

Invero, nella prima parte del documento è indicato unicamente il nome del soggetto destinatario, pure in tal caso Francesco Di Stefano e non Francescantonio Di Stefano, non anche un numero di conto, A” né alcun altro riferimento al rapporto oggetto di causa; nella sua seconda parte, invece, risulta riportato un codice fiscale del soggetto ma non risulta alcun riferimento al conto titoli oggetto di causa.

2.3.3.2. Trattasi, in definitiva, di documenti riferiti a circostanze fattuali che si rivelano prive di decisività ai fini della individuazione dell’effettivo titolare del citato conto deposito titoli n. 1/7750, e, a maggior ragione, delle clausole che ne sancivano il concreto assetto negoziale.

2.4. Non risultando adeguatamente confutata, alla stregua di quanto si è finora riferito, la prima delle due riportate argomentazioni – chiaramente costituenti autonome rationes decidendi – che hanno condotto la corte distrettuale a respingere la domanda di risoluzione dell’appellante/odierno ricorrente, ben può farsi applicazione, circa la seconda, del principio per cui quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome rationes decidendi, ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile non solo che il soccombente censuri tutte le riferite rationes, ma anche che tali censure risultino tutte fondate (cfr. Cass. n. 12372 del 2006; Cass. n. 9647 del 2011; Cass. n. 6985 del 2019; Cass n. 10815 del 2019; Cass., SU, n. 34476 del 2019, in motivazione).

2.4.1. Ad ogni modo, rileva il Collegio che l’assunto del ricorrente secondo cui l’iter logico giuridico seguito dalla corte territoriale sarebbe viziato in quanto, una volta provato il rapporto negoziale ed allegato l’inadempimento della Banca, sarebbe stato onere di quest’ultima provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, oblitera completamente che, nell’odierna vicenda, il rapporto negoziale non è stato adeguatamente provato (gravando il corrispondente onere sull’odierno ricorrente, proprio in virtù della giurisprudenza di legittimità da lui invocata), e che, comunque, in mancanza del documento contrattuale, non sono stati dimostrati eventuali specifici obblighi della Banca, con conseguente impossibilità di stabilirne eventuali pretese inadempienze e, ovviamente, di valutarne la non scarsa importanza.

2.4.2. A tanto deve soltanto aggiungersi, con riguardo al principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto, oggi invocato, peraltro affatto genericamente, dal Di Stefano, che lo stesso opera e va verificato pur sempre in relazione ad un dato regolamento contrattuale (costituendo, secondo alcuni, un criterio di valutazione a posteriori del comportamento delle parti, nella fase di attuativa del rapporto; secondo altri, un criterio integrativo del contenuto negoziale, fonte di obblighi autonomi e strumentali di informazione, di solidarietà e di protezione, l’inadempimento dei quali comporta responsabilità contrattuale).

2.4.2.1. Nella specie, dunque, le carenze probatorie accertate dalla corte distrettuale, già ampiamente descritte, impediscono qualsivoglia ulteriore approfondimento sul punto in questa sede, dovendosi solo ricordare che, comunque, la corte predetta, seppure sinteticamente, ha effettuato una propria valutazione (cfr. pag. 8, laddove si affermato che «la mancata previsione, in un contratto di deposito, spesso poco o per nulla movimentato … dell’invio periodico di informazioni» non appare, «di per sé ed in assenza di altri ulteriori elementi, contrario ai canoni di correttezza e buona fede che regolano l’esecuzione dei contratti») che, presupponendo accertamenti fattuali, non è qui ulteriormente sindacabile.

3. L’unico motivo del ricorso incidentale condizionato della Banca – rubricato «Art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.: violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1322, 1346 e 1453, comma 2, cod. civ.» e volto a contestare la ritenuta ammissibilità, ad opera della corte aquilana, del mutamento di domanda operato dal Di Stefano in primo grado ex art. 1453 cod. civ. – deve considerarsi assorbito atteso il rigetto del ricorso principale.

4. In definitiva, il ricorso principale va respinto, assorbito l’incidentale, restando le spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, regolate dal principio di soccombenza, altresì dandosi atto, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, «sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma -quater del d.P.R. n. 115/02, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto», mentre «spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento».

PER QUESTI MOTIVI

La Corte rigetta il ricorso principale di Francescantonio (detto Francesco) Di Stefano e dichiara assorbito quello incidentale condizionato della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a..

Condanna il Di Stefano al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, sostenute dalla banca controricorrente, liquidate in C 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in C 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il suo ricorso, giusta il comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.