REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
PRIMA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati
Dott. FRANCESCO ANTONIO GENOVESE -Presidente
Dott. ROSARIO CAIAZZO -Consigliere-Rel
Dott. MASSIMO FALABELLA -Consigliere
Dott. EDUARDO CAMPESE -Consigliere
Dott. PAOLO CATALLOZZI -Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 9989/2021 proposto da:
(omissis) (omissis) s.r.l.; (omissis) s.p.a., in persona dei rispettivi legali rappres. p.t., elett.te domic. presso gli avv.ti (omissis) (omissis) con procura speciale in calce al ricorso;
-ricorrenti-
contro
(omissis) (omissis) MBH, in persona del legale rappres. p.t., elett.te domic. presso l’avv. (omissis) (omissis), con procura speciale in atti;
-controricorrente-
nonché
(omissis) (omissis) (omissis) in persona del legale rappres. p.t., elett.te domic. presso l’avv (omissis) dal quale è rappres. e difesa, unitamente agli avv.ti (omissis) (omissis) con procura speciale in atti;
-ricorrente incidentale-
nonché contro
(omissis) (omissis), in persona dei rispettivi legali rappres. (omissis) con procura speciale in calce al ricorso;
-intimate-
avverso le sentenze n. 887/2019- parziale- pubblicata il 27.5.19, e n. 1073/2020- definitiva- della Corte d’appello di Torino, pubblicata il 2.11.2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Cons. rel., dott. ROSARIO CAIAZZO.
RILEVATO CHE
Con citazione del 2016, (omissis) s.p.a. e (omissis) s.p.a. convennero innanzi al Tribunale di Torino -sezione specializzata per le imprese- (omissis) s.r.l. e (omissis) (omissis) (omissis) seguito (omissis) affermando che:
la prima era proprietaria di varie registrazioni per i marchi (omissis) in vari paesi (tra i quali Italia e Germania e Polonia), concessi in licenza a imprenditori di varie aree geografiche per la produzione, distribuzione e vendita dei prodotti sui quali essi erano apposti;
(omissis) s.p.a. si occupava dello studio, creazione e industrializzazione dei prodotti su quali erano apposti i suddetti marchi, concedendo in licenza i propri diritti sui modelli realizzati alle società licenziatarie:
la (omissis) era divenuta licenziataria di (omissis) per i marchi (omissis) in vari paesi con contratto del 4.11.11, valido sino al 31.12.14, per produzione e commercializzazione di articoli di abbigliamento intimo; tale accordo era stato modificato il 18.7.14 in ordine ai fatturati minimi e alle royalties minime garantite, limitando dall’1.1.15 il territorio di operatività alla sola Italia;
la (omissis) aveva nominato la (omissis) quale distributrice in esclusiva per Germania, Austria e Benelux, con contratto del 20.9.13 con durata fino al 2017;
i diritti sui suddetti marchi erano stati violati dalle convenute a norma dell’art. 20 c.p.i., con pregiudizio dovuto all’uso non autorizzato dei marchi attraverso la vendita in Germania, e dell’art. 23, c. 3, atteso che l’utilizzazione non autorizzata costituiva un atto di contraffazione.
Pertanto, le attrici chiedevano il risarcimento dei danni, previo accertamento che la produzione, l’importazione in Italia e l’esportazione in Germania nel corso del 2015 aveva costituito contraffazione dei marchi, e di inibire a (omissis) tali attività in Germania e Polonia.
Si costituiva (omissis) eccependo l’infondatezza della domanda.
Con sentenza del 2018 il Tribunale accolse le domanda, condannando le due convenute al pagamento, rispettivamente, di euro 100.000,00 per Bpb e di euro 123.185,29 per (omissis).
Quest’ultima appellò la suddetta sentenza. La Corte d’appello di Torino, con sentenza non definitiva del 27.5.19, respinse l’impugnazione in ordine al capo della statuizione concernente l’accertamento della contraffazione dei marchi, ed accolse invece l’appello subordinato della stessa (omissis) rispetto al quantum del risarcimento e, con separata ordinanza, disponeva la prosecuzione dell’istruttoria per la nomina di un c.t.u. per determinare gli utili realizzati dall’appellante, tenuto conto di tutti i costi sostenuti dallo stesso.
Al riguardo, la Corte territoriale osservò che: la sentenza sull’accertamento della contraffazione era divenuta definitiva per mancata impugnazione; era altresì passato in giudicato il capo della sentenza circa la mancanza dell’elemento soggettivo della condotta illecita delle convenute; la (omissis) era tenuta alla retroversione degli utili, ex art. 125 c.p.i., avendo la stessa commesso contraffazione per violazione dei termini al 30.6.15; la vendita dei capi d’abbigliamento con i suddetti marchi aveva determinato l’arricchimento della (omissis) grazie alla commercializzazione successiva al 30.6.15; era invece fondata la doglianza concernente la detrazione, dagli utili oggetto di retroversione, dei costi sostenuti nella commercializzazione dei prodotti (metodo del cd. full costing); poiché la (omissis) aveva commesso una contraffazione incolpevole, non risultavano dimostrati in modo certo gli utili e i costi sostenuti.
Con sentenza definitiva del 2.11.2020, la Corte d’appello condannò la (omissis) alla retroversione, a favore delle appellate, degli utili conseguiti nella misura di euro 25.151,41 disponendo altresì che le appellate restituissero la differenza con la somma ricevuta in esecuzione della sentenza di primo grado.
(omissis) (omissis) (omissis) s.p.a. ricorrono in cassazione avverso le due sentenze d’appello (parziale e definitiva) con cinque motivi, illustrati da memoria.
(omissis) resiste con controricorso, proponendo ricorso incidentale affidato ad unico motivo, illustrati da memoria.
RITENUTO CHE
Il primo motivo del ricorso principale, relativo alla sentenza non definitiva, denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 113 c.p.c. e 125, c. 3, c.p.c., per aver la Corte d’appello applicato il criterio della retroversione degli utili, quantificandone l’importo equitativamente con criteri differenti rispetto al caso della sussistenza dell’elemento soggettivo della condotta di contraffazione, detraendo costi maggiori non incrementali, essendo a tal fine irrilevante l’elemento soggettivo.
Il secondo motivo, relativo alla sentenza definitiva, denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 113, 115 e 116, c.p.c., per aver la Corte d’appello calcolato le somme da restituire utilizzando quale criterio di calcolo, dal quale detrarre i costi incrementali del contraffattore, la somma liquidata equitativamente dal Tribunale, omettendo ogni valutazione.
Il terzo motivo, relativo alla sentenza definitiva, denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116, c.p.c., per aver la Corte d’appello calcolato le somme da restituire detraendo dalla somma liquidata in primo grado costi fissi analiticamente calcolati, ma non direttamente riconducibili ai prodotti contraffatti, prendendo come base di partenza del calcolo la sentenza di primo grado.
Il quarto motivo denunzia violazione dell’art. 112 c.p.c., per aver la Corte territoriale deciso ultra petitum nella parte in cui ha statuito di distrarre le spese ritenute connesse alla contraffazione per somma notevolmente superiore a quella dichiarata e richiesta dalla (omissis) in appello.
Il quinto motivo deduce falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., per aver la Corte territoriale erroneamente compensato le spese legali, motivando sul quantum, ritenendo una parziale soccombenza della (omissis) s.p.a., non tenendo conto del criterio di causalità.
L’unico motivo del ricorso incidentale denunzia violazione dell’art. 125, c. 3, d.lgs. n. 30/25, per aver la Corte d’appello disposto la retroversione degli utili a carico di soggetto non colpevole della contraffazione per cui è causa, interpretando la predetta norma nell’accezione risarcitoria e non restitutoria.
L’ordine logico delle varie questioni, oggetto dei due ricorsi, esige che sia esaminato dapprima il ricorso incidentale in quanto attiene all’affermazione della retroversione per contraffazione incolpevole.
Il ricorso incidentale è infondato. Infatti, il titolare del diritto di privativa che lamenti la sua violazione ha facoltà di chiedere, in luogo del risarcimento del danno da lucro cessante, la restituzione (cd. retroversione”) degli utili realizzati dall’autore della violazione, con apposita domanda ai sensi dell’art. 125 c.p.i., senza che sia necessario allegare specificamente e dimostrare che l’autore della violazione abbia agito con colpa o con dolo (Cass., n. 21832/21).
Al riguardo, il soggetto contraffattore, pur avendo agito in mancanza dell’elemento soggettivo (doloso o colposo), deve comunque restituire al titolare gli utili che ha realizzato nella propria attività di violazione, per effetto del rimedio restitutorio, volto a salvaguardare il titolare di un diritto di privativa che rimarrebbe altrimenti privo di tutela laddove la contraffazione fosse causata in assenza dell’elemento soggettivo del dolo e della colpa.
Secondo il ribadito orientamento, se un soggetto commette una contraffazione consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole, il titolare del diritto violato può ottenere il risarcimento del danno, domandando il danno emergente ed il lucro cessante (ovvero, in alternativa a questo, la restituzione degli utili prodotti dal contraffattore); se, invece, fa difetto l’elemento soggettivo in capo al contraffattore, il titolare della privativa può domandare comunque la retroversione degli utili.
Il terzo comma dell’art. 125 c.p.i., appunto prevede che «in ogni caso» il titolare del diritto leso possa chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione -evidentemente in forza e in conseguenza della stessa – in alternativa al risarcimento del lucro cessante.
La lettera della norma è inequivocabile nel circoscrivere la forma di ristoro al pregiudizio da lucro cessante, ossia ai mancati guadagni, sicché tale voce può sicuramente cumularsi al risarcimento di quelle di danno emergente.
La norma è altrettanto chiara nell’ammettere la richiesta della retroversione degli utili realizzati dal contraffattore nella misura in cui essi superino il risarcimento del lucro cessante.
In tal modo il titolare del diritto può chiedere la restituzione di benefici che egli non avrebbe ritratto anche se la violazione non vi fosse stata, per esempio perché, essendo meno attrezzato, meno efficiente o meno dimensionato rispetto allo sleale e illegittimo competitore, non avrebbe avuto la capacità di operare nello stesso modo sul mercato; il caso inoltre si può verificare nella materia brevettuale, in cui la titolarità del diritto di proprietà industriale può essere svincolata dallo svolgimento di una attività di impresa, quando l’inventore titolare lamenti la violazione da parte di un imprenditore di una privativa che egli non ha ancora provveduto a realizzare o a far realizzare industrialmente.
Il tema è stato indagato da autorevole dottrina, che ha posto in luce l’esigenza di impedire che il contraffattore tragga profitti dal proprio illecito e di prevenire la pianificazione di attività contraffattive da parte di operatori economici più efficienti per capacità imprenditoriale del titolare del diritto di proprietà intellettuale; questi infatti potrebbero, anche in presenza di un sistema che garantisca al titolare una piena compensazione del suo mancato profitto, organizzare una attività di contraffazione di per sé vantaggiosa, pur considerando il loro obbligo di risarcire il titolare del mancato guadagno, contando sul lucro costituito dalla differenza tra il mancato guadagno del titolare ed il proprio maggior profitto.
In tali ipotesi, il ricorso a questa forma di liquidazione forfettaria e rigida del danno allontana il risarcimento dalla tradizionale funzione meramente compensativa ad esso assegnata nel nostro ordinamento, preordinata a ristorare il titolare del diritto da una perdita che non avrebbe subito se la violazione non fosse stata perpetrata, o, quantomeno, da tale sola funzione, avvicinandola sensibilmente a una logica preventiva e dissuasiva dall’illecito, sia pur sempre sotto l’egida del collegamento necessario con la violazione di un diritto assoluto potenzialmente capace di una espansione economica.
In questa prospettiva la retroversione, così come delineata dal legislatore, rivela una evidente analogia (seppur non in termini di completa sovrapposizione delle fattispecie) con i principi che governano l’arricchimento senza causa per l’intento di riallocare la distribuzione di ricchezza in tal modo conseguita fra colui che ha realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa.
Il legislatore del 2006 ha così introdotto uno strumento rimediale sui generis, di tipo restitutorio, ispirato a una logica composita, in parte compensatoria e in parte dissuasiva/deterrente, che si affianca alla tutela risarcitoria classica, sia pur nella sua declinazione speciale prevista in materia di proprietà industriale con le regole particolari stabilite nei primi due commi dell’art.125 c.p.i. (Cass., n. 21832/21).
Questa conclusione è resa evidente già dalla stessa rubrica del novellato art.125, intitolata al «Risarcimento del danno e restituzione dei profitti dell’autore della violazione» e caratterizzata dal riferimento ai due istituti rimediali.
In applicazione dei suesposti principi, va affermata l’infondatezza della doglianza, in quanto la ritenuta irrilevanza dell’elemento soggettivo della condotta contraffattiva (accertato nella sentenza non definitiva, sul punto non appellata), non può incidere sulla determinazione del quantum effettuata dalla Corte d’appello.
Premesso ciò, i primi tre motivi del ricorso principale, esaminabili congiuntamente poiché tra loro connessi, sono fondati.
La ricorrente lamenta che il giudice di secondo grado abbia calcolato gli utili da retrovertere, con criterio equitativo, detraendo i costi non connessi a tali beni contraffatti, utilizzando la sentenza di primo grado quale base di calcolo.
Va osservato che il titolare del diritto di privativa leso, in alternativa alla domanda di risarcimento del lucro cessante, può fare ricorso al criterio della c.d. “retroversione degli utili”, di cui all’art. 125 del d.lgs. 30 del 2005 (c.d. “codice della proprietà industriale”, nel testo modificato dall’art.17 d.lgs. n. 140 del 2006), secondo cui il danno va liquidato tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale (Cass., n. 8944/20).
E’ stato altresì precisato che il criterio della retroversione degli utili, anche ove più favorevole al danneggiato, resta nondimeno ancorato alla regola della necessaria derivazione causale ex art. 1223 c.c. dal fatto illecito: ne consegue che la somma, così come accertata quale ricavo per lo sfruttamento dell’opera realizzato dal responsabile, deve essere depurata, da un lato, dei costi sopportati dal medesimo, il quale ha l’onere di fornire, ai fini dello scomputo, elementi concreti di calcolo desumibili dai bilanci (Cass., n. 21833/21).
Nel caso concreto, la Corte d’appello ha rilevato che la c.t.u. aveva quantificato gli utili conseguiti dalla (omissis) del 2015, quale differenza tra costi e ricavi, esaminando il conto economico della stessa società, deducendo poi i costi, fissi e variabili, distinguendo gli utili per entrambe le convenute; nella relazione integrativa, il c.t.u. deduceva dalla somma di euro 123.185,29 – somma indicata nella sentenza di primo grado – tali costi, determinando così utili complessivi, per il secondo semestre 2015, per euro 25.151,41, e calcolando le rimanenze finali al 31.12.15, tenendo conto dell’effettivo prezzo di realizzo conseguente alla vendita avvenuta nel febbraio del 2016, anziché al costo d’acquisto.
Tuttavia, la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante tale questione del prezzo di realizzo, ai fini del calcolo dell’utile, dato che la vendita del 2016 era avvenuta dopo i fatti oggetto di causa.
Ora, le doglianze in esame censurano la sentenza impugnata per non aver calcolato gli utili cd. incrementali, cioè connessi con l’opera del contraffattore, in quanto la Corte d’appello, recependo la c.t.u., ha detratti i costi, fissi e variabili, ma senza alcuna indicazione del carattere incrementale suddetto, come emerge dalla motivazione della sentenza definitiva, che però non è chiara, non esplicitando i criteri seguiti per la detrazione delle voci dei costi dagli utili.
Ma dalla sentenza non definitiva si desume, invece, la necessità della c.t.u. al fine di applicare i costi sostenuti dalla (omissis) nell’attività di contraffazione (cd. costi incrementali).
In particolare, la critica relativa al calcolo degli utili effettuato prendendo come base del conteggio la sentenza di primo grado merita accoglimento, in ragione del fatto che essa aveva determinato gli utili equitativamente, essendo dunque inficiata da una asimmetria logico- argomentativa confliggente con l’art. 125 c.p.i.
Invero, come detto, il danno va liquidato tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale; è evidente che tale deduzione dei costi presuppone un calcolo plausibile, pur utilizzando modalità equitative, conseguendone che in caso di determinazione equitativa degli utili, contenuta nella sentenza di primo grado, occorra verificare se le modalità di calcolo di tali costi sia cioè compatibile con una liquidazione degli utili.
Dalle sentenze impugnate non emerge, in effetti, la congruenza dell’avvenuta deduzione dei costi rispetto ai criteri seguiti dal giudice di primo grado.
Inoltre, la sentenza definitiva non chiarisce i criteri adottati per la determinazione dei costi cd. “incrementali” da detrarre dagli utili, pur tenendo conto della c.t.u. espletata.
Gli altri motivi devono ritenersi assorbiti.
Per quanto esposto, le due sentenze impugnate vanno cassate relativamente ai primi tre motivi del ricorso principale, nei limiti di cui in motivazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi tre motivi del ricorso principale, nei limiti di cui in motivazione, assorbiti gli altri. Rigetta il ricorso incidentale. Cassa le sentenze impugnate in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Torino – sezione specializzata per le imprese – in diversa composizione, anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, del d.p.r. n.115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 23 maggio 2023.
Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2023.