Diritto di cronaca: al fine di consentire di realizzare un servizio giornalistico, sfruttano il contenuto di un CD Rom contenente intercettazioni illecite. E’ ricettazione? (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 17 settembre 2019, n. 38277).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CRESCIENZO Ugo – Presidente –

Dott. RAGO Geppino – Consigliere –

Dott. FILIPPINI Stefano – Consigliere –

Dott. BELTRANI Sergio – rel. Consigliere –

Dott. SARACO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

N.G., N. IL (OMISSIS);

B.M. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 3748/2016 CORTE APPELLO di MILANO, del 09/04/2018;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/06/2019 la relazione fatta dal Consigliere, Dott. SERGIO BELTRANI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Perelli Simone, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;

uditi:

l’avv. (Ndr: testo originale non comprensibile) Giacomo Umberto per la parte civile F. D., che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, chiedendo la liquidazione delle spese;

l’avv. Sara Turchetti per la parte civile S. M., che ha chiesto l’inammissibilità od il rigetto dei ricorsi e la liquidazione delle spese;

– l’avv. Malavenda Caterina e l’avv. Ranella Valentina, per gli imputati, con richiesta di accoglimento dei motivi di ricorso.

Svolgimento del processo

1. B.M. e N.G., in atti generalizzati, sono stati tratti a giudizio per rispondere:

– (capo A) di concorso (con soggetto nelle more deceduto) nella ricettazione (aggravata ex art. 61 c.p., comma 1, n. 2) di un CD rom contenente telefonate illecitamente registrate sulla linea telefonica d’ufficio di S.M., in atti generalizzato, direttore della (OMISSIS) (reato presupposto, al quale gli imputati non avevano concorso: art. 617 c.p.), ceduto da Q.F. e M.G. – in atti generalizzati e titolari della S.I.S. Servizi d’Investigazione e Sicurezza s.r.l., società che gestiva la sicurezza in (OMISSIS) – al fine di consentire ai due odierni imputati di realizzare un servizio giornalistico sfruttando il contenuto delle predette intercettazioni illecite;

– (capo B) di concorso in calunnia in danno di F.D., in atti generalizzato, falsamente incolpato del reato di cui all’art. 617 c.p..

2. Il GUP del Tribunale di Milano, in data 15.3.2016, all’esito del giudizio abbreviato:

– ha assolto entrambi gli imputati dal reato di ricettazione di cui al capo A) perchè il fatto non costituisce reato;

– ha dichiarato entrambi gli imputati colpevoli del reato di calunnia di cui al capo C);

– ha riconosciuto ad entrambi le circostanze attenuanti generiche, condannando ciascuno – operata la riduzione di rito – alla pena ritenuta di giustizia;

– ha riconosciuto al N. la sospensione condizionale della pena e la non menzione;

– ha sostituito nei confronti del B. la pena con la libertà controllata;

– ha condannato gli imputati a risarcire il danno cagionato alla p.c. F.D., da liquidarsi in separata sede, oltre alla rifusione pro quota delle spese processuali.

3. La Corte d’appello di Milano, in data 9.4.2018, in riforma della sentenza impugnata:

– in accoglimento dell’appello del PM, ha dichiarato gli imputati colpevoli del reato di ricettazione di cui al capo A), condannandoli, previo riconoscimento ad entrambi delle circostanze attenuanti generiche ed operata la riduzione di rito, alla pena per ciascuno ritenuta di giustizia, con sospensione condizionale della pena per entrambi, e non menzione per il solo N., nonchè al risarcimento del danno cagionato alla p.c. S.M., da liquidarsi in separata sede;

– ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di entrambi gli imputati in ordine al reato di calunnia di cui al capo C), perchè estinto per prescrizione, con conferma delle relative statuizioni civili;

– ha condannato entrambi gli imputati in solido alla rifusione delle spese processuali del grado in favore di entrambe le parti civili.

4. Contro tale provvedimento, sono stati proposti tempestivamente e nei modi di rito due ricorsi (uno nell’interesse di entrambi gli imputati, l’altro nell’interesse del solo N.), che denunziano i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

(ricorso B. – N. a firma dell’avv. VALENTINA RAMELLA).

I – mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità degli imputati per il delitto di ricettazione di cui al capo A) – inosservanza dell’art. 533 c.p.p., comma 1, violazione del principio di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio per difetto della c.d. “motivazione rafforzata”, necessaria in caso di modifica in peius del verdetto assolutorio di primo grado;

II – mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità degli imputati per il delitto di ricettazione di cui al capo A) – inosservanza dell’art. 533 c.p.p., comma 1 e art. 603 c.p.p., comma 3-bis, nonchè 6, p. 3, lett. d), Conv. EDU – violazione dell’obbligo di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per riassumere le prove dichiarative asseritamente valutate in appello in senso difforme rispetto alla valutazione operata dal Tribunale – violazione del principio di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio;

III – mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità degli imputati per il delitto di ricettazione di cui al capo A) inosservanza dell’art. 522 c.p.p. e violazione del principio di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, ex art. 521 c.p.p. – inosservanza degli artt. 43, 110 e 648 c.p. in ordine alla ritenuta sussistenza del dolo di profitto del delitto di ricettazione in capo ai ricorrenti (non sarebbe stato chiarito in cosa l’enucleato profitto non patrimoniale degli odierni imputati si sarebbe concretizzato e sulla base di quali elementi sarebbe stato enucleato; inoltre, quanto al presunto profitto patrimoniale del C., sarebbero stati valorizzati i rapporti di concorrenza commerciale tra la ESSELUNGA/ C. e la antagonista (OMISSIS), che tuttavia esulerebbero dal contenuto dell’imputazione; sarebbe stata, infine, immotivatamente attribuita agli imputati una sorta di dolo di profitto “per adesione”);

IV – inosservanza degli artt. 43, 51 e 648 c.p., nonchè art. 21 Cost. e art. 10 Conv. EDU, in ordine alla errata affermazione della sussistenza del dolo di profitto ed al mancato riconoscimento della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto: l’unico fine che avrebbe animato i due giornalisti era la pubblicazione dell’articolo, il che, da un lato, escluderebbe la sussistenza di un proprio fine di profitto di qualsiasi natura (in proposito, la sentenza impugnata non avrebbe risposto alla domanda se l’acquisizione del materiale necessario per la pubblicazione-denuncia di una notizia afferente un reato possa costituire profitto ex art. 648 c.p.), dall’altro evidenzierebbe (anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo) la non considerazione della configurabilità di un esercizio scriminante del diritto di cronaca; in via gradata, si deduce, inoltre, che la valorizzazione della specifica finalità della condotta dei due giornalisti avrebbe dovuto indurre la Corte d’appello a qualificare il fatto accertato ex art. 648 c.p., comma 2, e comunque almeno ad una riduzione della pena irroganda;

V – mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità agli effetti civili degli imputati per il delitto di calunnia di cui al capo C) – inosservanza dell’art. 522 c.p.p. e violazione del principio di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, ex art. 521 c.p.p. – inosservanza degli artt. 1, 43 e 368 c.p. in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di calunnia in capo ai ricorrenti sotto il profilo materiale e soggettivo (la Corte di appello si sarebbe, in concreto, limitata a brevi rilievi riepilogativi delle argomentazioni del primo giudice, richiamando, anche ai fini della disposta statuizione di condanna agli effetti civili, le ragioni del mancato proscioglimento con formula ampia agli effetti penali, senza esaminare compiutamente i plurimi motivi di gravame, cui doveva comunque essere data compiuta risposta per legittimare la concorrente affermazione di responsabilità agli effetti civili, come imposto dall’art. 578 c.p.p.; in particolare, mancherebbe del tutto la disamina riguardante il necessario dolo di calunnia, in riferimento alla necessaria consapevolezza che i due giornalisti dovevano avere della contestata falsità, essendosi la Corte di appello limitata a valorizzare il mero dato oggettivo – ma inerente soltanto alla materialità del reato, non anche all’elemento psicologico – della sussistenza della contestata falsità).

(ricorso N. a firma dell’avv. CATERINA MALAVENDA).

Il secondo ricorso ripropone più o meno pedissequamente le medesime censure dedotte dal ricorso congiunto, naturalmente in riferimento alla posizione dell’unico imputato patrocinato (con qualche evidente lapsus: il III motivo lamenta – come il corrispondente motivo del ricorso congiunto – mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità degli imputati per il delitto di ricettazione di cui al capo A), pur se il ricorso è presentato nell’interesse di un solo imputato).

4.1. Sono stati successivamente depositati:

4.1.1. in data 2.5.2019, memoria della parte civile S.M. (17 pagine non numerate con 5 allegati) con rilievi:

– quanto alla sussistenza del fatto di ricettazione;

– quanto alla ritenuta insussistenza del dolo specifico di ricettazione da parte del GUP;

– quanto alla sussistenza, ritenuta in appello, del dolo di profitto della ricettazione;

– quanto all’infondatezza delle argomentazioni delle difese N. e B. contenute nei rispettivi ricorsi;

4.1.2. in data 7.5.2019, istanza degli avv. MALAVENDA e RAMELLA di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite in riferimento al IV motivo di entrambi i ricorsi sottoscritti dalle predette, poichè:

– “pare sussistere la possibilità di un contrasto interpretativo” sulla questione di diritto se, nell’acquisizione da parte dei giornalisti del materiale, necessario per la pubblicazione di una notizia di pubblico interesse, possa validamente rinvenirsi il profitto ai sensi dell’art. 648 c.p.;

– il tema della punibilità del giornalista che acquisisca materiale, proveniente da reato, per la pubblicazione di articoli, nell’esercizio del diritto primario di informare, costituzionalmente garantito, costituisce questione di speciale importanza;

4.1.3. in data 20.5.2019, motivi nuovi dell’avv. RAMELLA nell’interesse dei coimputati, in realtà contenenti argomentazioni in ipotesi atte a corroborare i motivi IV, III, V, del ricorso principale (8 pagine con 3 allegati “nuovi”);

4.1.4. in data 22.5.2019, memoria della parte civile F.D. (20 pagine) con ampio riepilogo delle vicende sottostanti;

4.1.5. in data 31.5.2019, memoria di replica ancora della parte civile F.D. (20 pagine con 4 sentenze allegate).

5. All’odierna udienza pubblica, è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito; all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, ed il collegio, riunito in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.

Motivi della decisione

La sentenza impugnata va annullata:

– quanto al capo inerente all’affermazione di responsabilità in ordine al delitto di ricettazione, limitatamente al punto riguardante la valutazione circa la configurabilità o meno della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca (art. 51 c.p.);

– quanto al capo inerente al delitto di calunnia, limitatamente al punto riguardante le statuizioni civili.

Va, conseguentemente, disposto il rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per nuovo giudizio sui predetti punti della sentenza impugnata.

I ricorsi vanno, nel resto, complessivamente rigettati.

1. La notevole mole di atti/documenti, allegati a ricorsi e memorie, prodotti in più tempi dalle parti private rende, a parere del collegio, non inopportuno ricordare una serie di principi inerenti al corretto svolgimento del giudizio di legittimità, tanto consolidati quanto inopinatamente non considerati.

1.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Sez. 1, sentenza n. 46711 del 14/07/2011, Rv. 251412; Sez. 2, sentenza n. 15693 del 08/01/2016, Rv. 266441), costituisce principio generale in tema di impugnazioni la necessità che tra i motivi originariamente proposti ed i motivi di ricorso nuovi od aggiunti sussista una connessione, non essendo consentito, con motivi definiti dalla parte proponente “nuovi” od “aggiunti” dedurre vizi non dedotti con l’impugnazione originaria.

Invero, la facoltà conferita al ricorrente dall’art. 585 c.p.p., comma 4, deve trovare necessario riferimento nei motivi principali e rappresentare soltanto uno sviluppo o una migliore e più dettagliata esposizione dei primi, anche per ragioni eventualmente non evidenziate in precedenza, ma sempre collegabili ai capi e punti della decisione impugnata oggetto delle censure già dedotte: ne consegue che “motivi nuovi” ammissibili sono soltanto quelli con i quali, a fondamento del petitum già proposto nei motivi principali d’impugnazione, si alleghino argomentazioni (ma non anche richieste) ulteriori rispetto a quelle originarie, non potendo essere ammessa l’introduzione di censure nuove in deroga ai termini tassativi entro i quali il ricorso va presentato.

I motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono, pertanto, avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i medesimi capi o punti della decisione impugnata che siano stati oggetto di doglianza nell’originario atto d’impugnazione (Sez. 6, n. 73 del 21 settembre 2011, dep. 2012, Rv. 251780).

1.1.1. Va, in proposito, affermato il seguente principio di diritto:

“in materia di termini per l’impugnazione, la facoltà del ricorrente di presentare “motivi nuovi” o “aggiunti” incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, dei quali i motivi ulteriori devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, anche per ragioni eventualmente non evidenziate, ma risultando sempre ricollegabili ai capi ed ai punti già censurati; ne consegue che sono ammissibili soltanto i “motivi nuovi” o “aggiunti” con i quali, a fondamento del petitum formulato nei motivi principali, si alleghino argomentazioni ulteriori rispetto a quelle già svolte, non anche quelli con i quali si intenda allargare l’ambito del predetto petitum, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione”.

1.2. L’art. 585 c.p.p., comma 4, consente alla parte ricorrente unicamente la produzione di “motivi nuovi” – intesi nell’accezione delineata nel p. che precede – non anche di “atti” o “documenti nuovi”.

Ciò, già sotto un profilo strettamente letterale, non può essere senza significato.

1.2.1. Questa Corte (Sez. 4, n. 3396 del 06/12/2005, dep. 2006, Rv. 233241; Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, dep. 2013, Rv. 254302; Sez. 3, n. 5722 del 07/01/2016, Rv. 266390; Sez. 1, n. 42817 del 06/05/2016, Rv. 267801) ha chiarito che non è ammissibile la produzione per la prima volta in sede di legittimità di “documenti nuovi”, ovvero già non facenti parte del fascicolo, diversi da quelli di natura tale da non costituire “nuova prova” e da non esigere alcuna attività di apprezzamento sulla loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte, perchè tale attività è estranea ai compiti istituzionali della Corte di cassazione.

Sarebbe, ad esempio, ammissibile la produzione di certificati di nascita (rilevanti ai fini dell’imputabilità o della competenza per materia) o di morte (rilevanti ai fini della declaratoria di estinzione del reato), che non necessitano di apprezzamento, ma costituiscono, in ipotesi, oggetto di una mera “presa d’atto”.

1.2.2. I documenti di natura diversa esibiti per la prima volta in sede di legittimità non sono, al contrario, ricevibili, perchè il nuovo codice di rito non ha previsto (diversamente dall’art. 533 codice di rito abrogato), tale facoltà: si è, in tal modo, inteso esaltare il ruolo di pura legittimità della Suprema Corte, che procede non ad un esame degli atti, ma soltanto alla valutazione dell’esistenza e della logicità della motivazione.

1.2.3. Un ulteriore argomento conferma la correttezza di questa soluzione.

Come – ancora una volta – già evidenziato da questa Corte (Sez. 3, n. 43307 del 19/10/2001, Rv. 220601), non può ritenersi ammissibile nel giudizio di legittimità, anche dopo l’entrata in vigore della L. 7 dicembre 2000, n. 397, la produzione di nuovi documenti attinenti al merito della contestazione ed all’applicazione degli istituti sostanziali, non potendo interpretarsi come una deroga ai principi generali del procedimento e del giudizio dinanzi alla Corte di cassazione la lettera dell’art. 327-bis c.p.p., comma 2, nella parte in cui attribuisce al difensore la facoltà di svolgere “in ogni stato e grado del processo” le investigazioni in favore del proprio assistito previste dal comma 1, “nelle forme e per le finalità stabilite nel titolo VI-bis” del libro V del codice di rito.

1.2.4. Deve, in proposito, essere affermato il seguente principio di diritto:

“nel giudizio di legittimità possono essere prodotti esclusivamente i documenti che l’interessato non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio, sempre che essi non costituiscano “prova nuova” e non comportino un’attività di apprezzamento circa la loro validità formale e la loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte e valutate dai giudici del merito, ma richiedano una mera presa d’atto del loro contenuto”.

1.2.5. Detto limite vale, naturalmente, sia per gli imputati che per le parti civili.

1.3. Ciò premesso, se i motivi formalmente definiti come “nuovi”, depositati in data 20.5.2019 dall’avv. RAMELLA nell’interesse dei coimputati, contengono in realtà argomentazioni in ipotesi atte a corroborare i motivi IV, III, V del ricorso originario, e sono quindi, in rito, ammissibili (salva la loro successiva disamina, quanto all’accoglibilità o meno, nel merito), è senz’altro non consentita la produzione dei plurimi atti/documenti “nuovi”, che – secondo un’ottica di parte processualmente distorta – dovrebbero variamente produrre efficacia in riferimento al contesto delle prove già raccolte e valutate nei gradi di merito, e che la Corte di cassazione dovrebbe conseguentemente essere chiamata a valutare per la prima volta, perchè tale ultima attività è estranea alle funzioni istituzionali della Corte di cassazione.

2. Non ricorrono le condizioni per disporre la rimessione del processo alla Sezioni Unite, chiesta dalle difese dei coimputati, perchè:

– in riferimento al IV motivo di entrambi i ricorsi, sono le stesse difese instanti a proporre la questione in modo dubitativo (“pare sussistere la possibilità di un contrasto interpretativo (…)”); d’altro canto, come si vedrà, la questione è priva di concreto rilievo ai fini della decisione;

– in riferimento alla “speciale importanza” del tema della punibilità del giornalista che acquisisca materiale, proveniente da reato, per la pubblicazione di articoli, nell’esercizio del diritto primario di informare, costituzionalmente garantito, se, da un lato, l’art. 610 c.p.p., comma 2, riserva soltanto al Primo Presidente di questa Corte (anche su impulso delle parti) la predetta valutazione, giacchè – a fissazione avvenuta – la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite da parte del collegio è consentita dall’art. 618 c.p.p., comma 1, solo in presenza di un contrasto (attuale o potenziale) di giurisprudenza, in subiecta materia inesistente (neanche le difese degli imputati affermano il contrario), dall’altro, nella raccolta delle sentenze di questa Corte (consultabile negli archivi del CED) figurano, soltanto tra le sentenze massimate, ben 6 decisioni delle Sezioni semplici implicanti valutazioni inerenti alla garanzia dell’art. 10 Conv. EDU, ed in tali casi non è stata mai ravvisata quella “speciale importanza” che sola potrebbe legittimare – sia pur soltanto nei modi di rito in precedenza indicati – la (tardivamente) chiesta rimessione alle Sezioni Unite.

3. Il terzo motivo ed il quarto motivo – prima parte – dei ricorsi dei coimputati (la cui disamina appare logicamente preliminare rispetto a quella dei primi due motivi dei medesimi ricorsi) sono infondati.

3.1. Come già chiarito da questa Corte (Sez. 2, n. 21596 del 18/02/2016, n.m. sul punto), nonchè autorevolmente da risalente, ma tuttora attuale, dottrina, il dolo del delitto di ricettazione è misto, perchè generico quanto alla coscienza e volontà di ricevere cose provenienti da delitto, e specifico quanto al fine di trarne profitto per sè o per terzi.

3.2. Quanto alla componente specifica del predetto dolo, deve premettersi che, secondo l’orientamento assolutamente dominante in giurisprudenza, il profitto, il cui conseguimento integra il dolo specifico del reato di ricettazione, può avere anche natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11083 del 12/10/2000, Rv. 217382, in fattispecie relativa all’acquisto di prodotti falsificati, usati per arredare le vetrine del negozio, con riguardo alla quale la S.C. ha ritenuto integrato l’elemento psicologico del delitto dal vantaggio conseguito attraverso l’abbellimento della vetrina, benchè i beni falsificati ed usati per arredare la medesima borse e ombrelli – fossero diversi dai beni – vini e liquori – commercializzati nel negozio; Sez. 2, n. 44378 del 25/11/2010, Rv. 248945, in fattispecie relativa alla detenzione di una camicia militare, recante scritte in caratteri ebraici, dell’esercito israeliano, considerata rappresentativa di Israele, e costituente provento di rapina perpetrata da giovani intenti a distribuire volantini di propaganda politica anti-israeliana; Sez. 2, n. 15680 del 22/03/2016, Rv. 266516, in fattispecie relativa all’acquisto di farmaci anabolizzanti provento del delitto previsto dalla L. 14 dicembre 2000, n. 376, art. 9, al fine di farne uso personale per la modifica della struttura muscolare; Sez. 2, n. 3661 del 23/10/2018, dep. 2019, n.m., in fattispecie analoga a quella da ultimo indicata).

3.2.1. La decisione invocata in senso contrario (Sez. 2, n. 843 del 19/12/2012, dep. 2013, Rv. 254188 – 01) a ben vedere non si è posta in diretto contrasto con il predetto orientamento, essendosi limitata ad affermare che il dolo specifico del fine di profitto, previsto dall’art. 648 c.p. per integrare la condotta di reato, non può consistere in una mera utilità negativa, configurabile ogni qual volta il soggetto attivo agisca allo scopo di commettere un’azione esclusivamente in danno di sè stesso, sia pure perseguendo un’utilità meramente immaginaria o fantastica:

“ritiene il Collegio che la nozione di utilità non possa essere forzata fino al punto da includervi anche la mera utilità negativa, vale a dire ogni circostanza che, senza ledere diritti od interessi altrui, si risolva “in una mera lesione della sfera soggettiva dell’agente.

Di conseguenza deve escludersi che il fine di compiere una azione in danno di sè stessi, sia pure perseguendo un’utilità meramente immaginaria o fantastica (come nel caso di specie), possa integrare il fine di profitto, vale a dire il dolo specifico previsto dalla norma di cui all’art. 648 per la punibilità delle condotte ivi descritte.

Diversamente ragionando si arriverebbe al paradosso di considerare dettata dal fine di profitto l’azione di chi si procuri, attraverso un circuito illecito, dei barbiturici allo scopo di suicidarsi.

Secondo le norme più elementari della logica, invece, non può essere revocato in dubbio che il suicidio, o altri atti lesivi della propria integrità psico-fisica non possano essere ricondotti alla nozione di utilità, a meno che le lesioni alla propria integrità non siano strumentali ad altri fini (per es. il conseguimento di un miglior risultato sul piano agonistico), che nel caso di specie non sussistono”.

3.2.2. Come si vede, nessuna considerazione è stata fatta in merito alla presunta impossibilità di ritenere integrato il necessario dolo specifico di ricettazione in presenza di una finalità di profitto meramente non patrimoniale.

3.3. Peraltro, la questione è, come anticipato, priva di rilievo ai fini dell’odierna decisione, perchè, nel caso in esame, la contestazione configura una fattispecie di concorso di persone (ex art. 110 c.p.) in un reato a dolo (anche) specifico.

3.3.1. In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 16 del 05/10/1994, Demitry, in motivazione), con l’avallo di autorevole dottrina, hanno già chiarito che, nelle fattispecie (anche) a dolo specifico, “la sussistenza del reato richiede che almeno uno dei concorrenti agisca per quella particolare finalità richiesta dalla norma incriminatrice; occorre peraltro che il concorrente privo del dolo specifico sia consapevole che altro concorrente agisca con il richiesto elemento soggettivo; (…). In coerenza con gli orientamenti della teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale, si deve ammettere la possibilità che la specifica intenzione sussista in capo ad un soggetto diverso dall’esecutore”.

3.3.2. Applicando i predetti principi in tema di c.d. concorso esterno nel delitto di cui all’art. 416-bis c.p., questa Corte (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, in motivazione, f. 29 s.) ha, in particolare, osservato quanto segue:

“La particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta, infine, quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell’evento lesivo del “medesimo reato”.

E, sotto questo profilo, nei delitti associativi si esige che il concorrente esterno, pur sprovvisto dell’affectio societatis e cioè della volontà di far parte dell’associazione, sia altresì consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto dell’efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione: egli “sa” e “vuole” che il suo contributo sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio”.

3.3.3. Invero, per effetto dell’ampliamento della sfera della punibilità, fino a ricomprendere anche le cc.dd. “condotte atipiche”, prodotto dall’art. 110 c.p., risulterebbe incriminabile a titolo di concorso nella ricettazione anche il soggetto il cui contributo al reato non sia soggettivamente animato dal necessario dolo specifico, naturalmente a condizione che:

– il reato, realizzato in forma concorsuale, sia comunque integrato nella sua tipicità, e quindi almeno uno dei concorrenti (non necessariamente l’esecutore materiale, ma anche ad esempio – un concorrente “morale”) abbia agito animato dal necessario dolo (anche) specifico;

– il concorrente non soggettivamente animato dal predetto dolo (anche) specifico sia consapevole dell’altrui finalità.

3.3.4. Privo di pregio appare, quindi, l’orientamento, talora espresso dalla giurisprudenza (Sez. 5, n. 18852 del 12/02/2013, Rv. 256242 – 01; Sez. 6, n. 34667 del 05/05/2016, Rv. 267705 – 01), ma solo in relazione al delitto di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12-quinquies (ora art. 512-bis c.p.), a parere del quale il predetto delitto richiederebbe che tutti i concorrenti nel reato abbiano agito con il dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, per la cui prova in giudizio non è sufficiente dar conto della fittizia attribuzione della titolarità o disponibilità di denaro, beni o altre utilità.

Detta affermazione si pone, infatti, in contrasto inconsapevole con il predetto orientamento delle Sezioni Unite, neppure menzionato, e della dottrina, e non esamina il generale tema delle connotazioni del concorso di persone nei reati a dolo specifico.

3.4. Alla luce dei predetti principi di diritto, appare evidente che, nel caso di specie, nessun problema si ponga quanto alla configurazione del necessario dolo (anche) specifico degli odierni coimputati, concorrenti con il defunto C. (“patron” storico di ESSELUNGA) nel contestato reato di ricettazione, erroneamente escluso dal primo giudice.

3.4.1. Si è già osservato che l’eventuale non patrimonialità del profitto perseguito dai coimputati (o dal C.) sarebbe irrilevante ai fini della configurazione del delitto di ricettazione ascritto ai ricorrenti.

3.4.2. Risulta, peraltro, assorbente il rilievo che (OMISSIS) era concorrente commerciale di ESSELUNGA, e la concorrenza commerciale coinvolge sempre interessi di rilievo in re ipsa patrimoniale.

Non importa in qual misura (OMISSIS) fosse in concorrenza con ESSELUNGA, nè se si trattasse di un concorrente “temibile” oppure no, poichè si trattava pur sempre, oggettivamente, di un concorrente e metterlo in difficoltà avrebbe procurato comunque ad ESSELUNGA benefici patrimonialmente apprezzabili (se significativi o minimi non importa ai fini della configurabilità del reato, ma al più ai fini della eventuale qualificazione dei fatti accertati ex art. 648 c.p., comma 2, oppure quoad poenam).

Proprio per conseguire il predetto fine di profitto sicuramente patrimoniale, il C. avveduto e “navigato” patron di ESSELUNGA – non esitò a “mettersi in casa”, con l’apparente incarico di assicurare la sicurezza di ESSELUNGA, due soggetti (il Q. ed il M.) che proprio la negoziazione del CD rom contenente le illecite intercettazioni de quibus aveva oggettivamente documentato essere all’uopo assolutamente inaffidabili, perchè già avevano – per lo meno in una occasione – strumentalizzato i propri compiti di addetti alla Security per carpire notizie riservate riguardanti i propri datori di lavoro, rivelandole al migliore offerente.

La Corte di appello ha, in proposito, valorizzato anche le dichiarazioni del teste SA. (che il primo giudice non aveva giudicato particolarmente significative, errando) quanto allo “strappo alle regole” in precedenza imposte in ESSELUNGA dallo stesso C. (che si era concretizzato nel – mai disposto in precedenza – pagamento in anticipo delle spettanze del Q. e del M., titolari della S.I.S. s.r.l., in ipotesi attributari dell’incarico di curare in ESSELUNGA il settore della vigilanza, ma in realtà immediatamente ricompensati per la cessione del CD rom contenente le illecite registrazioni delle telefonate de quibus), estremamente significativo per ricostruire il senso effettivo di quanto accertato, ed in particolare la reale portata dell’accordo stretto dai soggetti in questione.

Per tali ragioni, la Corte di appello (f. 14 ss. della sentenza impugnata) ha correttamente valorizzato il fine di profitto che animava il concorrente C. (come appena ricordato, “patron” storico di ESSELUNGA), che aveva senza dubbio natura patrimoniale.

3.4.2. Nulla ostava, quindi, sotto questo profilo, alla configurazione del concorso nel reato dei due giornalisti coimputati, pur se in ipotesi a loro volta non soggettivamente animati dal necessario dolo specifico, poichè il reato, realizzato in forma concorsuale, era comunque integrato nella sua tipicità per il fatto che uno dei concorrenti aveva agito animato dal necessario dolo (anche) specifico.

Occorreva, naturalmente verificare che i due giornalisti fossero consapevoli della finalità del C..

3.4.2.1. In proposito, la Corte di appello ha adeguatamente chiarito che i due giornalisti erano pacificamente consapevoli della finalità di profitto patrimoniale del C., al quale si erano rivolti senza esitazione, proponendogli di affidare la security di ESSELUNGA ai menzionati Q. e M., dai quali i giornalisti avrebbero contestualmente ricevuto il CD rom contenente le illecite intercettazioni che avrebbero dovuto mettere in difficoltà (OMISSIS).

Le attività di security all’interno di una azienda articolata e con molti concorrenti come la ESSELUNGA sono strategiche e di rilievo estremo, il che impone necessariamente la costituzione di un rapporto strettamente fiduciario tra il datore di lavoro e chi è incaricato delle predette attività, onde evitare il c.d. effetto boomerang patito da (OMISSIS) (la cui riservatezza era stata violata proprio da chi avrebbe dovuto tutelarla).

Il C. conosceva il Q. ed il M. solo e proprio quali autori della predetta violazione della security di (OMISSIS).

La proposta fattagli dai due giornalisti di affidare la security della propria ditta a soggetti sconosciuti che documentalmente risultavano all’uopo non affidabili sarebbe, pertanto, risultata assolutamente irragionevole, se non fosse stata legittimata dalla comune consapevolezza dell’interesse del patron di ESSELUNGA a screditare e mettere in difficoltà (anche nei rapporti con le rappresentanze sindacali interne e nazionali, come appare evidente sol che si consideri il contenuto delle intercettazioni de quibus) il concorrente (OMISSIS).

3.4.3. Nè può ritenersi che, argomentando in tal modo, la Corte di appello abbia violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza.

Ciò in quanto nell’ultima parte del capo d’imputazione è espressamente evocata la circostanza che (OMISSIS) fosse “concorrente commerciale di ESSELUNGA”.

4. Il primo ed il secondo motivo dei ricorsi dei coimputati sono infondati.

4.1. Deve, in primo luogo, rilevarsi che la difformità tra la statuizione del primo e quella del secondo giudice non riguarda l’accertamento del fatto, identico per entrambi nella sua materialità, quanto la sola configurabilità dell’elemento psicologico in capo agli odierni ricorrenti, che il Tribunale aveva escluso per il rilievo che “l’intenzione di pubblicare lo scoop, con il conseguente auspicato aumento delle vendite, così come l’intenzione dell’imprenditore C. di demolire mediaticamente il concorrente commerciale gettando discredito sulla (OMISSIS), integravano il “movente”, non il “dolo specifico richiesto””.

4.2. Ciò premesso, s’impone un triplice ordine di rilievi.

4.2.1. Le ragioni dell’assoluzione pronunziata in primo grado, come della riforma del menzionato verdetto assolutorio in appello, hanno natura essenzialmente giuridica, riguardando i rapporti tra dolo e movente, e conseguentemente la configurabilità del dolo specifico richiesto, e la eventuale necessità della sua patrimonialità, fermo restando il conforme accertamento fattuale delle vicende accadute.

4.2.1.1. Questa Corte (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679 – 01; Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430 – 01) è tradizionalmente orientata nel senso che il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado (sia condannando l’imputato assolto, sia assolvendo l’imputato condannato) ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.

Pertanto, anche in caso di ribaltamento in appello della sentenza assolutoria di primo grado sussiste un obbligo di motivazione per così dire “rafforzata”.

4.2.1.2. Si è anche in più occasioni chiarito che non sarebbe denunciabile il vizio di motivazione con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito (Sez. 2, n. 3706 del 21/01/2009, Rv. 242634, e n. 19696 del 20/05/2010, Rv. 247123; Sez. 3, n. 6174 del 23/10/2014, dep. 2015, Rv. 264273 – 01; Sez. 1, n. 16372 del 20/03/2015, Rv. 263326 – 01; sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito, Sez. 4, n. 6243 del 07/03/1988, Rv. 178442).

Invero, il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni di fatto, non anche quello attinente alle questioni di diritto, giacchè ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la sorreggano.

D’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneità degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione (Sez. 4, n. 4173 del 22 febbraio 1994, Rv. 197993).

Ne consegue che, nel giudizio di legittimità, il vizio di motivazione non sarebbe denunciabile con riferimento alle questioni di diritto correttamente decise dal provvedimento che s’intenda impugnare.

4.2.1.3. Ciò premesso, appare evidente che la necessità di una motivazione “rafforzata” s’imponga soltanto nei casi in cui la riforma in appello del verdetto pronunciato dal Tribunale fondi su una mutata valutazione delle prove acquisite, non anche quando essa sia legittimata da una diversa e corretta valutazione in diritto, operata sul presupposto dell’erroneità della valutazione del primo giudice.

In tali casi, alla Corte di cassazione spetta il compito di verificare se la questione giuridica difformemente decisa dai giudici del merito sia stata correttamente esaminata e risolta dall’uno o dall’altro, ed il vizio all’uopo in ipotesi denunciabile è solo quello di violazione della legge, penale o processuale.

4.2.1.4. Nel caso in esame, alla luce dei rilievi svolti nei p.p. 3 ss. di queste Considerazioni in diritto, essa è decisa correttamente dalla Corte di appello.

4.2.2. Il Tribunale ha errato anche in fase d’impostazione preliminare della questione da decidere, confondendo movente e dolo, e non ritenendo neppure di indicare – una volta collocati nel fuoco del “movente” tutti gli elementi che secondo il P.M., correttamente, avrebbero integrato il necessario “dolo” – da cosa avrebbe dovuto essere in ipotesi integrato quest’ultimo.

4.2.2.1. La dottrina e la giurisprudenza (Sez. 1, n. 31449 del 14/02/2012, n.m. sul punto) definiscono il dolo quale elemento costitutivo del reato, riguardante la sfera della rappresentazione e volizione dell’evento (ovvero ” quale complesso di fatti interni o psicologici (rappresentazione e volizione), che, dato il termine usato (“intenzione”), non possono essere potenziali, ma devono effettivamente svolgersi nella psiche del soggetto “), distinguendolo dal movente, che “è la causa psichica della condotta umana e costituisce lo stimolo che ha indotto l’individuo ad agire ” e può assumere rilevanza unicamente come circostanza (aggravante od attenuante: cfr. rispettivamente, art. 61 c.p., comma 1, n. 1 e art. 62 c.p., comma 1, n. 1), ovvero ai fini della graduazione della pena (art. 133 c.p., comma 2, n. 1).

La decisione da ultimo citata ha precisato che il movente non è necessariamente razionale, perchè le cause psichiche dell’agire umano sono aperte alle ispirazioni ed agli impulsi più vari e misteriosi, insondabili come la complessità dell’animo umano.

Si afferma correntemente che il movente è irrilevante ai fini dell’integrazione del dolo, ma l’affermazione significa unicamente che il movente può, in ipotesi, mancare, o comunque essere rimasto ignoto. Null’altro.

4.2.2.2. Nel caso in esame, il fine specifico di profitto patrimoniale perseguito dal C. (del quale i concorrenti giornalisti erano certamente consapevoli) integra il dolo (anche) specifico necessario ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 648 c.p..

L’accertata condotta concorsuale è risultata giustificata da specifici e distinti moventi, costituiti dal desiderio di rivalsa del C. e dal desiderio di realizzare uno scoop ascrivibile ai giornalisti.

4.2.3. Quanto fin qui osservato evidenzia, infine, che il mutato verdetto della Corte di appello non fonda sic et simpliciter su una rivalutazione – quanto all’attendibilità – delle acquisite risultanze istruttorie (in presenza della quale sarebbe stata, in ipotesi, necessaria la riassunzione delle prove dichiarative diversamente valorizzate), bensì su una correttamente mutata valutazione in diritto delle concordemente ricostruite risultanze fattuali acquisite.

4.2.3.1. Non appare inopportuno precisare che, per rafforzare il proprio convincimento in diritto, la Corte di appello ha anche valorizzato le dichiarazioni rese dal teste SA. (cfr. f. 14 ss. della sentenza impugnata), cui il Tribunale non aveva dato particolare risalto: tale elemento probatorio non è stato, peraltro, valorizzato dalla Corte di appello in senso difforme – quanto all’attendibilità – rispetto al Tribunale.

Sul punto va registrata una apparente contraddittorietà nelle argomentazioni del ricorso congiunto degli imputati, che a f. 8 lamenta genericamente che dette dichiarazioni sarebbero state valorizzate dalla Corte in senso difforme rispetto alla valutazione del Tribunale, salvo ammettere in prosieguo (f. 9) che in realtà le predette dichiarazioni non erano state ritenute fondamentali dal Tribunale.

Anche da tale prospettazione, emerge con evidenza che la mutata valutazione delle dichiarazioni de quibus non ne ha riguardato il senso, ovvero l’attendibilità, bensì soltanto la possibile rilevanza, ingiustificatamente negata dal Tribunale.

4.2.3.2. In presenza di siffatta situazione, l’esame del dichiarante non andava riassunto in appello.

Invero, le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269787), sia pure con riferimento al testo dell’art. 603 c.p.p. vigente fino al 3.8.2017, hanno enunciato il seguente principio di diritto:

“E’ affetta da vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, di cui all’art. 533 c.p.p., comma 1, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni”.

Hanno, peraltro, precisato, in motivazione, che il predetto principio vale soltanto nei casi in cui di differente “valutazione” del significato della prova dichiarativa si possa effettivamente parlare: “non perciò quando il documento che tale prova riporta risulti semplicemente “travisato”, quando, cioè, emerga che la lettura della prova sia affetta da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato) e, perciò, non può sorgere alcuna esigenza di rivalutazione di tale contenuto attraverso una nuova audizione del dichiarante”.

Nel caso in esame, si era in presenza di un c.d. errore “per omissione”, avendo il Tribunale ingiustificatamente negato la possibile rilevanza delle dichiarazioni de quibus.

4.2.3.3. Ancor più chiaramente, il nuovo comma 3-bis, inserito nell’art. 603 c.p.p. dalla L. n. 103 del 2017, e vigente a partire dal 3.8.2017, impone testualmente – nei casi de quibus – la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale soltanto “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa”.

“Motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa” che, nel caso di specie, come fin qui illustrato, non ricorrono.

5. Il quarto motivo – seconda parte è fondato.

5.1. I ricorrenti lamentano inosservanza degli artt. 43, 51 e 648 c.p., nonchè art. 21 Cost. e art. 10 Conv. EDU quanto al mancato riconoscimento della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto.

5.1.1. Detta conclusione era stata espressamente formulata all’udienza 9.4.2018 dalla difesa dell’imputato N. attraverso il richiamo alle note di udienza all’uopo depositate, che trattavano la questione.

Peraltro, il Tribunale (f. 30 s. della sentenza di primo grado) aveva espressamente posto a fondamento del pronunziato verdetto assolutorio perchè il fatto non costituisce reato (poi riformato in appello) anche le seguenti argomentazioni:

– “la divulgazione di una notizia di interesse pubblico, per quanto ottenuta in modo illecito, rappresenta un interesse giuridicamente tutelato”;

– “anche alla preliminare attività di raccolta delle informazioni de(ve) essere estesa la tutela garantita dall’art. 10 CEDU al fine di non svuotarla di significato”.

Ciò, sia in ossequio a quanto disposto dall’art. 530 c.p.p., comma 3, sia per la già evidenziata esigenza, in rito, che la disposta mutatio del verdetto del Tribunale fosse legittimata da una motivazione “rafforzata”, avrebbe comunque imposto alla Corte di appello la disamina della questione inerente alla configurabilità o meno della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca, nei confronti di entrambi gli imputati.

5.2. La giurisprudenza di questa Corte ha inizialmente negato la compatibilità della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca con il delitto di ricettazione, avendo osservato che “le scriminanti dell’esercizio del diritto di critica e del diritto di cronaca rilevano solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, e non anche rispetto ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima” (Sez. 1, n. 27984 del 07/04/2016, Rv. 267053 – 01: in applicazione del principio, è stato rigettato il ricorso dell’imputato del reato di cui all’art. 650 c.p., il quale, nella sua qualità di giornalista, aveva violato il divieto prefettizio di stazionare e circolare in una determinata zona nella quale lo stesso si era introdotto al fine di acquisire notizie utili per la realizzazione di una trasmissione radiofonica, in differita, sulle manifestazioni del movimento “NO TAV”).

5.2.1. A tale orientamento sembrerebbe essersi inconsapevolmente rifatta la Corte di appello che, pur non avendo esplicitamente esaminato la questione – in ordine alla quale è rimasta del tutto silente – a f. 15 della sentenza impugnata osserva che non sarebbe in nessun caso consentita la commissione di reati nell’esercizio della fondamentale attività di informazione al pubblico.

5.2.2. Una prima apertura nel senso della compatibilità tra la predetta causa di giustificazione ed il predetto reato si è, peraltro, avuta con Sez. 2, n. 25363 del 15/05/2015, n.m. sul punto, che ha riconosciuto l’astratta compatibilità tra la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca ed il delitto di ricettazione, salvo ritenere immune da censure la valutazione della Corte di appello che aveva escluso la configurabilità, nel caso concreto, della predetta causa di giustificazione.

5.3. I giudici della Corte di Strasburgo negli ultimi decenni hanno in più occasioni esaminato il tema, in relazione alla generale garanzia della libertà di esprimersi, sancita dall’art. 10 Conv. EDU. 5.3.1. In particolare, il tema è stato compiutamente esaminato dalla CORTE EDU, Grande Chambre, sentenza 21 gennaio 1999, caso Fr. et R. c. Francia.

5.3.2. Nel predetto caso, i ricorrenti FR. e R., rispettivamente direttore e giornalista del settimanale satirico (OMISSIS), condannati per il reato di ricettazione di fotocopie di dichiarazioni dei redditi provenienti dalla violazione del segreto professionale da parte di un non identificato funzionario dell’Ufficio delle imposte, per avere pubblicato, in occasione di un’agitazione sindacale all’interno di un’azienda automobilistica di rilievo nazionale (causata, tra l’altro, dal rifiuto del suo Presidente e della direzione di concedere aumenti salariali agli operai), i predetti documenti coperti dal segreto fiscale, dai quali erano risultati desumibili i plurimi aumenti salariali percepiti dal predetto Presidente nel triennio antecedente, avevano lamentato che la condanna riportata avrebbe violato la loro libertà di espressione, garantita dall’art. 10 Conv. EDU. 5.3.3. In quella occasione, la Grande Chambre ha preliminarmente ribadito, sulla scia dei propri precedenti, che:

– la libertà di espressione costituisce uno dei cardini essenziali di una società democratica ed una delle condizioni primarie del suo progresso e dello sviluppo di ciascuno, e “copre” anche le “informazioni” e le “idee” che possano offendere, ferire o turbare qualcuno, perchè così esigono il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura, senza i quali non vi è una “società democratica”;

– la stampa ha una funzione rilevante in una società democratica: benchè non debba travalicare alcuni limiti, in particolare relativamente alla protezione della reputazione e dei diritti altrui, nonchè alla necessità d’impedire la divulgazione di informazioni riservate, le compete nondimeno il compito di comunicare, nel rispetto dei propri doveri e responsabilità, informazioni ed idee su tutti i temi d’interesse generale;

– alle autorità nazionali può essere attribuito il potere di valutare se ragioni di “prevalente necessità sociale” legittimino restrizioni all’esercizio della libertà di espressione, ma, “di regola”, la “necessità” d’imporre restrizioni all’esercizio della libertà di espressione deve essere provata in modo convincente: tuttavia, il predetto potere si pone in conflitto con l’interesse della società democratica ad assicurare e mantenere integra la libertà di stampa e, per tale ragione, quando si tratti di valutare se le restrizioni imposte dalle autorità siano proporzionali rispetto allo scopo perseguito, è opportuno conferire alla libertà di stampa grande rilevanza.

Trattasi di affermazioni di principio non sempre delineate con tratti netti, talora anche paradossali (se solo “di regola”, la “necessità” di imporre restrizioni all’esercizio della libertà di espressione deve essere provata “in modo convincente”, si ammette implicitamente che ci siano casi – non indicati, e la cui individuazione è quindi rimessa all’interprete – in cui le suddette restrizioni possono risultare legittime pur se motivate in modo non convincente, il che sembrerebbe legittimare l’elusione della garanzia convenzionale de qua), ma dalle quali è comunque desumibile con certezza che, nel bilanciamento tra i valori in conflitto, alla libertà di stampa va sempre riconosciuto un rango apicale, naturalmente a patto che le informazioni divulgate:

– corrispondano al vero;

– riguardino temi d’interesse generale;

– non si concretizzino unicamente in attacchi personali.

5.3.4. Con specifico riferimento alla vicenda esaminata, la Grande Chambre ha osservato che la pubblicazione dell’articolo che divulgava l’informazione in contestazione, pur illegittimamente acquisita, “apportava un contributo ad un dibattito pubblico su un tema di interesse generale; il suo scopo non era di arrecare pregiudizio alla reputazione del signor C., ma, più ampiamente, di dibattere una questione di attualità che interessava la collettività”; doveva, inoltre, considerarsi che “alla funzione della stampa, che consiste nel diffondere informazioni e idee su temi di interesse pubblico, si aggiunge il diritto per la collettività di riceverle”, e, nel caso esaminato, i problemi dell’occupazione e della remunerazione suscitano tradizionalmente notevole interesse nella collettività.

5.3.4.1. Quanto alla provenienza illegittima dei documenti dai quali erano state desunte le informazione pubblicate (della quale entrambi i giornalisti francesi erano certamente consapevoli), la Grande Chambre ha osservato che, in linea di principio, la garanzia di cui all’art. 10 Conv. EDU non può esonerare i giornalisti dall’obbligo di rispettare le leggi penali di diritto comune, considerato anche che lo stesso art. 10 cit., nel p. 2, legittima l’imposizione di limiti all’esercizio della libertà di espressione.

Tuttavia, quando il giornalista si sia procurato le notizie d’interesse pubblico divulgate attraverso la commissione di una ricettazione (la Grande Chambre parla di “origine opinabile dei documenti”), occorre accertare se, nelle particolari circostanze del caso, l’interesse d’informare la collettività prevalesse sui “doveri e responsabilità” che gravano sui giornalisti.

5.3.4.2. Nel caso esaminato, chiamata a verificare se l’obiettivo della salvaguardia del segreto fiscale – di per sè legittimo – offrisse una giustificazione pertinente e sufficiente alla limitazione della libertà di stampa, la Grande Chambre ha ritenuto che non sussistesse l’interesse a mantenere segrete le informazioni de quibus, le quali, pur non essendo divulgabili, erano comunque accessibili a singoli contribuenti del medesimo comune di residenza dell’interessato (i quali potevano a loro volta comunicarle a terzi, e così via), attraverso la consultazione dell’elenco comunale dei soggetti d’imposta, che contiene l’indicazione, per ciascun contribuente, del reddito imponibile e dell’ammontare dell’imposta;

D’altro canto, uno dei ricorrenti si era difeso affermando anche che i dati in ipotesi illegittimamente divulgati erano correntemente pubblicati sulle riviste specializzate del settore finanziario, e su ciò non erano state mosse contestazioni.

Per tali ragioni, “benchè la pubblicazione delle denunzie dei redditi fosse proibita nella fattispecie, le informazioni che contenevano non erano più segrete”, e, conseguentemente, “la protezione delle informazioni in quanto riservate non costituiva una necessità preponderante”.

Non essendo state messe in discussione nè la materialità dei fatti riferiti, nè le buona fede dei giornalisti nel riferirle, e non avendo la pubblicazione delle informazioni intenti meramente diffamatori, ma riguardando anzi vicende di rilevante interesse pubblico che si innestavano all’interno di un dibattito sociale in corso, si è conclusivamente ritenuto che la condanna dei due giornalisti non costituisse un mezzo ragionevolmente proporzionato al perseguimento degli scopi legittimi avuti di mira attraverso le restrizioni indirettamente imposte (attraverso il divieto di pubblicazione di documenti ricettati) alla libertà di stampa nel caso di specie, “tenuto conto dell’interesse della società democratica ad assicurare e mantenere la libertà della stampa”, e che vi era stata, quindi, violazione dell’art. 10 Conv. EDU. 5.3.5. In seguito, la Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 10 dicembre 2007, caso Stoll c. Svizzera, ha precisato che le limitazioni previste dalla legge alla libertà di espressione, ai sensi dell’art. 10 Conv. EDU, possono essere opposte per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali, sia da parte di chi le ha ricevute direttamente, sia da parte della stampa, e che la divulgazione da parte della stampa di un documento segreto non è illecita in sè, ma solo quando essa possa apportare un considerevole pregiudizio agli interessi nazionali (in applicazione del principio, la Grande Chambre, capovolgendo la sentenza della Chambre semplice del 25 aprile 2006, ha ritenuto illegittima la divulgazione delle notizie delle quali in quella occasione si discuteva, perchè potenzialmente in grado di compromettere seriamente un negoziato diplomatico in corso).

5.4. Per quanto riguarda l’efficacia nel diritto interno delle norme della Convenzione EDU (con i Protocolli addizionali), e delle decisioni della Corte EDU, la giurisprudenza costituzionale, nel sottolineare la differenza tra le norme della Convenzione EDU e quelle dell’Unione Europea (o, in passato, comunitarie), ha evidenziato che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, “sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudizi nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto” (Corte Cost., n. 348 del 2007).

Ne consegue che la disapplicazione della disposizione di legge interna da parte del giudice che reputasse una determinata disciplina non conforme alle previsioni della Convenzione EDU, sarebbe illegittima, perchè in contrasto con la stessa Costituzione.

Alle norme della predetta Convenzione deve, invece, assegnarsi il rango di “fonti interposte”, destinate ad integrare il parametro di cui all’art. 117 Cost., il cui comma 1 impone al legislatore, nazionale e regionale, di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione. Proprio perchè si tratta di norme che integrano il predetto parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi: “le norme della Convenzione EDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte Europea; la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non la disposizione in sè e per sè considerata.

Si deve pertanto escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali (imposto dall’art. 117 Cost., comma 1) e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione” (Corte Cost., n. 348 del 2007 e n. 349 del 2007, cc.dd. “sentenze gemelle”).

Pertanto, in materia di rapporti tra l’art. 117 Cost., comma 1 e le norme della Convenzione EDU, tenuto conto della ricostruzione ermeneutica della Corte EDU e della giurisprudenza costituzionale, ormai consolidata (cfr., da ultimo, Corte Cost., n. 303 del 2011 e n. 264 del 2012), deve conclusivamente ritenersi che, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale e le norme della Convenzione EDU non possa essere risolto in via interpretativa, deve escludersi che possa essere direttamente applicata la norma convenzionale interposta “obliterando il contrario disposto di una norma interna” (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, in motivazione; conforme, in precedenza, Sez. U, n. 34472 del 19/04/2012, Ercolano, Rv. 252934, e n. 41694 del 18/10/2012, Nicosia, in motivazione: in questo caso, dovrà essere sollevato l’incidente di costituzionalità, e la Corte costituzionale dovrà accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Convenzione, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale e, nel contempo, verificare se le norme convenzionali interposte, sempre nell’interpretazione fornita dalla medesima Corte Europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell’ordinamento costituzionale italiano, perchè “il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla Convenzione EDU è subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poichè tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla Convenzione EDU.

Nelle ipotesi in cui non sia possibile percorrere tale via, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana e sia perciò tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge di adattamento” (Corte Cost., n. 49 del 2015).

La Corte costituzionale, se non può prescindere dall’interpretazione data delle disposizioni della Convenzione EDU dalla Corte di Strasburgo (ai sensi dell’art. 32, p. 1, della Convenzione, infatti, la competenza della predetta Corte “si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli che siano sottoposte a essa”), può, nondimeno, a sua volta interpretare la Convenzione, purchè nel rispetto sostanziale della giurisprudenza Europea formatasi al riguardo, ma “con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi” (sentenze n. 311 del 2009 e n. 236 del 2011).

In sintesi, al Giudice delle leggi spettano, in materia, i seguenti poteri:

(a) “verificare se la norma della Convenzione EDU, nell’interpretazione data dalla Corte Europea, non si ponga in conflitto con altre norme conferenti della nostra Costituzione” (sentenza n. 311/09), ” ipotesi nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato” (sentenza n. 113 del 2011)…;

(b)… ovvero “valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte Europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. Infatti, la norma CEDU – nel momento in cui va ad integrare l’art. 117 Cost., omma 1, – da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza” (sentenza n. 317 del 20/09).

5.4.1. Altro problema è quello degli effetti delle sentenze della Corte EDU nell’ordinamento interno.

L’art. 46 Convenzione EDU impegna, nel p. 1, gli Stati contraenti “a conformarsi alle sentenze definitive della Corte (Europea dei diritti dell’uomo) sulle controversie di cui sono parti”; soggiungendo, nel p. 2, che “la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne controlla l’esecuzione”.

Può ritenersi consolidata, nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, l’affermazione che “quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico, non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo di equa soddisfazione, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie” (tra le tante, Corte EDU, Grande Chambre, 17 settembre 2009, caso Scoppola c. Italia, p. 147 ss.; 1 marzo 2006, caso Sejdovic c. Italia, p. 119; 8 aprile 2004, caso Assanidzè c. Georgia, p. 198).

La Corte costituzionale (sentenza n. 113 del 2011) ha, in proposito, osservato che “la finalità delle misure individuali che lo Stato convenuto è tenuto a porre in essere è, per altro verso, puntualmente individuata dalla Corte Europea nella restitutio in integrum in favore dell’interessato.

Dette misure devono porre, cioè, “il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza della Convenzione”.

In quest’ottica, lo Stato convenuto è chiamato anche a rimuovere gli impedimenti che, a livello di legislazione nazionale, si frappongano al conseguimento dell’obiettivo: “ratificando la Convenzione”, difatti, “gli Stati contraenti si impegnano a far sì che il loro diritto interno sia compatibile con quest’ultima” e, dunque, anche ad “eliminare, nel proprio ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo a un adeguato ripristino della situazione del ricorrente” (…).

Con particolare riguardo alle infrazioni correlate allo svolgimento di un processo, e di un processo penale in specie, la Corte di Strasburgo, muovendo dalle ricordate premesse, ha identificato nella riapertura del processo il meccanismo più consono ai fini della restitutio in integrum, segnatamente nei casi di accertata violazione delle garanzie stabilite dall’art. 6 Convenzione. (…)

I Giudici di Strasburgo hanno affermato, in specie (…) – con giurisprudenza ormai costante – che, quando un privato è stato condannato all’esito di un procedimento inficiato da inosservanze dell’art. 6 Convenzione, il mezzo più appropriato per porre rimedio alla violazione constatata è rappresentato, in linea di principio, “da un nuovo processo o dalla riapertura del procedimento, su domanda dell’interessato””, nel rispetto di tutte le condizioni di un processo equo (…).

Ciò, pur dovendosi riconoscere allo Stato convenuto una discrezionalità nella scelta delle modalità di adempimento del proprio obbligo, sotto il controllo del Comitato dei ministri e nei limiti della compatibilità con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte”.

La lacuna in proposito esistente nell’ordinamento italiano è stata, alfine (ponendo termine alle numerose incertezze derivanti dal pur lodevole tentativo della giurisprudenza di legittimità di porvi rimedio, ma in difetto di un sicuro riferimento normativo), colmata dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 113 del 2011) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p.” nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei diritti dell’uomo”.

E la Corte di cassazione (Sez. U, n. 34472 del 2012 cit.) ha anche ritenuto che “le decisioni della Corte EDU che evidenzino una situazione di oggettivo contrasto – non correlata in via esclusiva al caso esaminato – della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU, assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale è intervenuta la pronunzia della predetta Corte internazionale”.

A prescindere dalla tematica (in questa sede non rilevante) dell’efficacia delle cc.dd. sentenze-pilota (il nuovo testo dell’art. 61 Regolamento della Corte EDU, introdotto il 1 aprile 2011 prevede in modo formale la possibilità – in precedenza già ritenuta dalla giurisprudenza della Corte EDU, ma in difetto di una base legale – per la medesima Corte di avviare la relativa procedura in tutti i casi nei quali ci si trovi in presenza di ricorsi ripetitivi, scaturenti da un problema strutturale o sistematico dell’ordinamento interno del singolo Stato convenuto, per incompatibilità con i principi della Convenzione, che lo Stato può risolvere adottando misure ad hoc, e di esaminare soltanto uno o più ricorsi seriali, rinviando l’esame di casi omogenei), la giurisprudenza sembra allo stato ferma nel ritenere che, data la natura eminentemente casistica delle sentenze della Corte EDU, “che per di più si riferiscono a una pluralità di ordinamenti, il vincolo per il giudice nazionale sussiste esclusivamente con riguardo a un orientamento convenzionale “consolidato” ovvero a una decisione “pilota” in senso stretto, la quale, cioè, con riferimento a un determinato ordinamento nazionale, ne evidenzi lacune o contrasti strutturali con la Convenzione EDU” (Sez. U, n. 27620 del 2016 cit.; Corte Cost., n. 49 del 2015 cit.).

Tuttavia, la possibilità di limitare l’efficacia delle sentenze della Corte EDU (a prescindere da quelle “pilota”, sempre vincolanti) ai soli “orientamenti consolidati” è stata decisamente smentita dalla Corte EDU, Grande Chambre, 28 giugno 2018, casi G.I.E.M. S.r.l. ed altri c. Italia (p. 252: “the Court would emphasise that its judgments all have the same legal value. Their binding nature and interpretative authority cannot be therefore depend on the formation by which the were rendered”), chiara nell’evidenziare che non esistono suoi orientamenti “consolidati” o “non consolidati”, perchè le decisioni della Corte EDU hanno tutte lo stesso valore giuridico, la stessa efficacia vincolante e la stessa “autorità interpretativa”, a prescindere dal fatto che siano emesse dalla Grande Chambre o da sezioni semplici.

Naturalmente, in forza del già richiamato art. 32, p. 1, Conv. EDU, ciò vale soltanto con riguardo all’interpretazione delle norme convenzionali, non anche quanto all’interpretazione di quelle norme interne.

Deve, per completezza, rilevarsi che, nonostante questo inequivocabile monito, il riferimento all’efficacia vincolante delle sole sentenze della Corte EDU espressive di “orientamenti consolidati” è riemerso anche nella più recente giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte Cost., sentenza n. 25 del 2019).

5.4.2. Riepilogando l’attuale assetto dei rapporti tra norme penali interne, diritto dell’Unione Europea e norme della Convenzione EDU, può in sintesi dirsi che:

– il diritto dell’Unione Europea (nell’interpretazione – sempre vincolante – fornitane dalla Corte di Giustizia UE: la norma Europea può essere autonomamente interpretata dai giudici interni solo in difetto di una interpretazione della CGUE), escludendo eventuali nuove incriminazioni, trova diretta applicazione nel diritto interno, previa disapplicazione, se del caso, della norma interna difforme da parte del giudice, e con efficacia limitata alla decisione assunta in concreto, e comunque il giudice, a prescindere dai casi di disapplicazione della norma interna difforme, ha comunque l’obbligo di interpretazione conforme della norma interna a quella Europea;

– le norme della Convenzione EDU e dei Protocolli addizionali (nell’interpretazione sempre vincolante – fornitane dalla Corte EDU: la norma convenzionale può essere autonomamente interpretata dai giudici interni solo in difetto di una interpretazione della Corte EDU), ove risulti impossibile un’interpretazione conforme della norma interna, non trovano diretta applicazione nel diritto interno, ma possono unicamente legittimare il giudice a sollevare un incidente di legittimità costituzionale della norma interna in contrasto con quella convenzionale, in relazione al combinato disposto dell’art. 117 Cost. e della norma convenzionale che di volta in volta si assuma violata;

– ai sensi dell’art. 52 CDFUE, p. 3, infine, andrà in via mediata riconosciuta l’efficacia diretta delle disposizioni della Convenzione EDU (così come interpretate dalla Corte EDU) corrispondenti a disposizioni della CDFUE, quando si versi nell’ambito di applicazione del diritto UE.

Come incisivamente ricordato, di recente, dalla dottrina, il giudice nazionale, una volta accertato che una data norma Europea è potenzialmente rilevante per la decisione di un caso concreto, dovrà in primo luogo chiedersi se essa sia direttamente applicabile e possa comportare la disapplicazione delle norme interne contrastanti; in secondo luogo, esclusa la diretta applicazione della norma in questione, dovrà verificare se sia esperibile un’interpretazione delle norme interne in modo da evitare un risultato applicativo in contrasto con la norma Europea (c.d. obbligo di interpretazione conforme al diritto Europeo); infine, nel caso in cui nemmeno tale interpretazione conforme sia praticabile, e la norma interna da applicare risulti irrimediabilmente incompatibile con la norma Europea, dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, e – se del caso – art. 11 Cost.

Come è evidente, “l’interpretazione conforme è operazione sussidiaria rispetto alla diretta applicazione della norma Europea, ma ha per converso la precedenza logica rispetto alla formulazione di una questione di legittimità costituzionale, la cui stessa ammissibilità è condizionata al previo (e infruttuoso) esperimento di un tentativo di interpretazione conforme della norma interna impugnata”.

5.5. Ai sensi dell’art. 51 c.p., comma 1, prima parte, “l’esercizio di un diritto… esclude la punibilità”.

La ratio dell’istituto viene generalmente identificata nel principio di non contraddizione: se l’ordinamento riconosce ad un soggetto la possibilità di esercitare un diritto, non può al tempo stesso sanzionarne l’esercizio (qui iure suo utitur neminem laedit).

Il diritto “scriminante” può essere attribuito da una qualsiasi fonte dotata di efficacia normativa (assoluta, ovvero anche soltanto inter partes) che attribuisca il potere di agire; il suo esercizio scrimina soltanto quando il diritto è esercitato dal suo titolare (ovvero, ove si tratti di diritti non personali, dal rappresentante del titolare), e nei limiti entro i quali esso può ritenersi legittimo, “essendo necessario che l’attività posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto in questione” (Sez. U, n. 32009 del 27/06/2006, n.m. sul punto).

L’esercizio scriminante del diritto incontra, infatti, limiti che vanno desunti dalla sua stessa fonte, oltre che dall’intero ordinamento: quando tali limiti sono superati, sono configurabili ipotesi di abuso del diritto, ed il comportamento dell’agente esula dall’ambito consentito dall’art. 51 c.p..

Le fonti dell’UE (come premesso, ontologicamente distinte dalla Convenzione EDU) potrebbero prevedere, con efficacia immediatamente vincolante per il giudice interno, nuove cause di giustificazione, attribuendo diritti il cui esercizio potrebbe scriminare l’agente ex art. 51 c.p.: questo caso è stato discusso, in giurisprudenza di merito, da Pret. Lodi 17 maggio 1984, che ha ritenuto non punibile lo straniero comunitario, accusato di esercizio abusivo della professione veterinaria ex art. 348 c.p. – cui era abilitato unicamente nello Stato di appartenenza – in applicazione (all’epoca) dell’art. 52 Trattato CE, comma 2 e art. 57 Trattato CE, che riconoscono il diritto di stabilimento.

Peraltro, l’ordinamento statale non si apre incondizionatamente alla normazione sovranazionale, giacchè in ogni caso vige il limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale interno e dei diritti inalienabili della persona umana (ad es., il diritto alla salute, tutelato dall’art. 32 Cost.), con conseguente sindacabilità, sotto tale profilo, della legge di esecuzione del Trattato (Corte Cost., n. 232/89).

5.6. Sulla base delle considerazioni che precedono, ritiene il collegio che la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., sub specie di esercizio del diritto di cronaca, sia compatibile con il delitto di ricettazione.

5.6.1. Deve premettersi che, nel caso in esame, non si pone il problema di valutare l’introduzione nell’ordinamento interno di una causa di giustificazione di origine sovranazionale, quanto quello di valutare i limiti intrinseci ed estrinseci della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca, già prevista dall’ordinamento, alla luce dell’interpretazione che la Corte EDU dà della garanzia di cui all’art. 10 Conv. EDU.

5.6.2. Ciò premesso, per quanto riguarda i primi limiti, ad avviso del collegio, l’art. 10 Conv. EDU, come univocamente interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU a partire dalla citata sentenza emessa dalla Grande Chambre il 21 gennaio 1999 nel caso Fr. et R. c. Francia, impone oggi d’interpretare l’art. 51 c.p., comma 1, prima parte, nel senso che la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca può essere configurata non soltanto in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, ma anche in relazione ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima.

5.6.2.1. Risulta, invero, senz’altro esperibile un’interpretazione delle norme interne, ed in particolare dell’art. 51 c.p., comma 1, prima parte, che eviti un risultato applicativo (nel caso di specie, l’inapplicabilità della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca a reati diversi da quelli commessi attraverso la pubblicazione dell’articolo) in contrasto con l’art. 10 Conv. EDU, come interpretato dalla Corte EDU, in ossequio al menzionato obbligo di interpretazione conforme delle norme interne al diritto Europeo.

5.6.2.2. Tale interpretazione non si pone neppure astrattamente in contrasto con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione, ed anzi appare maggiormente in sintonia con la garanzia di cui all’art. 21 Cost. (libertà di manifestazione del pensiero); in proposito, può, infatti, ritenersi tradizionalmente consolidato l’orientamento della Corte costituzionale (sentenze n. 94 del 1977, n. 225 del 1974, n. 105 del 1972), risalente ma mai messo in discussione, secondo il quale non può dubitarsi che sussista, e sia implicitamente tutelato dall’art. 21 Cost., un interesse generale della collettività all’informazione, di tal che i grandi mezzi di diffusione del “pensiero” (nella sua più lata accezione, comprensiva delle “notizie”) sono a buon diritto suscettibili di essere considerati nel nostro ordinamento, come in genere nelle democrazie contemporanee, quali servizi oggettivamente pubblici o comunque di pubblico interesse.

5.6.3. Residua, peraltro, la valutazione della violazione o meno degli eventuali limiti estrinseci.

5.6.3.1. L’art. 10, p. 2, della Convenzione EDU legittima l’imposizione di limiti alla libertà di stampa soltanto se finalizzati a tutelare la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale, la pubblica sicurezza, a prevenire la commissione di reati, a proteggere la salute e la morale pubblica, la reputazione o i diritti dei terzi, ad impedire la divulgazione di informazioni riservate, a garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

Tenuto conto delle peculiarità del caso concreto, e dell’interpretazione che la Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 10 dicembre 2007, caso Stoll c. Svizzera, ha fornito del riferimento convenzionale alla divulgazione di notizie riservate o confidenziali, le uniche possibili ragioni giustificative della compressione del diritto di cronaca potrebbero risiedere nella tutela della reputazione dei titolari di (OMISSIS), peraltro in ipotesi offuscata non da comportamenti pur sempre giuridicamente leciti (come nel caso Fr. et R.), bensì dall’accertamento del fatto che essi avessero a loro volta commissionato intercettazioni illecite per controllare l’operato dei propri dipendenti, in violazione delle più elementari garanzie sindacali.

5.6.3.2. In particolare, ferme restando:

– la consapevolezza che gli odierni ricorrenti avevano della provenienza illecita delle notizie pubblicate;

– la corrispondenza al vero delle notizie pubblicate, ai fini della configurabilità in concreto della causa di giustificazione de qua occorrerà valutare:

– se la pubblicazione degli articoli in contestazione apportasse un contributo ad un dibattito pubblico su un tema di interesse generale (quello della tutela dei diritti dei lavoratori in relazione ai controlli occulti) oppure avesse unicamente lo scopo di arrecare pregiudizio a (OMISSIS), concorrente commerciale di ESSELUNGA e quindi del C.;

– se, essendosi gli odierni ricorrenti procurati le notizie d’interesse pubblico divulgate attraverso la commissione di una ricettazione, nelle particolari circostanze del caso concreto l’interesse d’informare la collettività prevalesse sui “doveri e responsabilità” che gravano sui giornalisti;

– se, ai predetti fini, possa assumere rilievo la procurata intromissione di un terzo (il defunto C.).

5.6.4. Trattasi di valutazioni di natura squisitamente fattuale, di necessità rimesse al sindacato del giudice del merito, ma alle quali non ha compiutamente provveduto la Corte di appello, e non può provvedere ex novo il giudice della legittimità.

5.7. La predetta statuizione assorbe – allo stato – la doglianza formulata in via gradata (la valorizzazione della specifica finalità della condotta dei due giornalisti avrebbe dovuto comunque indurre la Corte d’appello a qualificare il fatto accertato ex art. 648 c.p., comma 2, oppure almeno ad una riduzione della pena irroganda).

6. Il sesto motivo è fondato.

6.1. Deve premettersi che le doglianze proposte nell’interesse dei ricorrenti con i due ricorsi presentati contro la sentenza impugnata (che ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di entrambi gli imputati in ordine al reato di calunnia di cui al capo C), perchè estinto per prescrizione, con conferma delle relative statuizioni civili) riguardano, a parere del collegio, le sole statuizioni civili, e non anche la statuizione valida agli effetti penali, ovvero la declaratoria di estinzione per prescrizione del predetto reato.

6.1.1. A ciò inducono, a parere del collegio, pur in presenza di un coacervo di argomentazioni di portata – quanto all’oggetto di doglianza – non sempre univoca, i seguenti elementi, gli unici che risulta possibile individuare con certezza:

– le intitolazioni del V motivo sia del ricorso N. che del ricorso congiunto B./ N., che richiamano, nei medesimi termini, unicamente la “ritenuta responsabilità degli imputati per il delitto di calunnia” e poi la “ritenuta sussistenza del delitto di calunnia in capo al ricorrente sotto il profilo materiale e soggettivo”: tale decisione, ovvero l’affermazione di responsabilità dell’imputato/la ritenuta sussistenza del delitto di calunnia, è stata, invero, assunta dalla Corte di appello ai soli effetti civili, poichè la Corte di appello, agli effetti penali, si è limitata ad affermare l’impossibilità di addivenire ad un più favorevole proscioglimento degli imputati per ragioni di merito;

– le preliminari richieste articolate nell’incipit del V motivo sia del ricorso N. che del ricorso congiunto B.)/ N. (“la sentenza impugnata deve essere riformata anche nella parte in cui ha ritenuto il ricorrente/i ricorrenti responsabile/i del delitto di calunnia, dichiarato estinto per intervenuta prescrizione, con conseguente conferma dei capi civili, deliberati dal GUP”), per la medesima ragione, ovvero perchè l’affermazione di responsabilità dell’imputato è stata pronunciata dalla Corte di appello ai soli effetti civili;

– l’insistito riferimento, nel corpo delle argomentazioni proposte a sostegno del V motivo sia del ricorso N. che del ricorso congiunto B.)/ N., alla disciplina dettata dall’art. 578 c.p.p. (f. 34 s. e 37 s. del ricorso N. e f. 35 del ricorso congiunto), di per sè irrilevante agli effetti penali.

6.1.2. Tali indiscutibili indicazioni consentono di ritenere non decisivi alcuni fugaci riferimenti all’art. 129 c.p.p., pure esistenti all’interno del V motivo di entrambi i ricorsi de quibus, ma estremamente generici quanto all’eventuale petitum, a confronto della specificità con la quale i predetti motivi contestano, in più punti – come in precedenza illustrato -, l’intervenuta affermazione di responsabilità, tale potendo essere considerata, formalmente, lo si ripete, soltanto quella intervenuta agli effetti civili.

6.2. Ciò premesso, i ricorrenti lamentano violazione dell’art. 578 c.p.p. nonchè plurimi vizi di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità degli imputati, agli effetti civili, in ordine al delitto di calunnia di cui al capo C): la Corte di appello si sarebbe, in concreto, limitata a brevi rilievi riepilogativi delle argomentazioni del primo giudice, evidenziando agli effetti penali le ragioni del mancato proscioglimento con formula ampia, senza esaminare compiutamente i plurimi motivi di gravame, cui doveva comunque essere data compiuta risposta per legittimare la concorrente affermazione di responsabilità agli effetti civili; in particolare, mancherebbe del tutto la disamina riguardante in necessario dolo di calunnia, in riferimento alla necessaria consapevolezza che i due giornalisti dovevano avere della contestata falsità, essendosi la Corte di appello limitata a valorizzare il mero dato oggettivo – ma inerente soltanto alla materialità del reato, non anche all’elemento psicologico – della sussistenza della contestata falsità.

6.3. Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273 ss.) hanno esaminato il problema dell’ambito del sindacato, in sede di legittimità, sui vizi della motivazione, in presenza di cause di estinzione del reato, del quale avevano già avuto modo di occuparsi in passato (avevano, infatti, già affermato che, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità i vizi di motivazione della sentenza impugnata, in quanto l’inevitabile rinvio della causa al giudice di merito dopo la pronunzia di annullamento risulterebbe comunque incompatibile con l’obbligo della immediata declaratoria di proscioglimento per intervenuta estinzione del reato: Sez. U, n. 1653 del 21/10/1992, dep. 1993, Marino ed altri, Rv. 192471).

In linea con l’orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza intervenuta successivamente sulla questione, il principio è stato ribadito (sostanzialmente nei medesimi termini, come è confermato dalle quasi speculari massime estratte dalle due citate decisioni delle Sezioni Unite) anche dalla sentenza Tettamanti, a parere della quale la Corte di cassazione, ove rilevi la sussistenza di una causa di estinzione del reato, non può rilevare eventuali vizi di legittimità della motivazione della decisione impugnata, poichè nel corso del successivo giudizio di rinvio il giudice sarebbe comunque obbligato a rilevare immediatamente la sussistenza della predetta cause di estinzione del reato, ed alla conseguente declaratoria.

Esso opera anche in presenza di mere cause di nullità di ordine generale, assolute ed insanabili, identica essendo la ratio, fondata sull’incompatibilità del rinvio per nuovo giudizio di merito con li principio dell’immediata applicabilità della causa estintiva.

A conclusioni diverse deve giungersi soltanto nel caso in cui l’operatività della causa di estinzione del reato presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito, nel qual caso assumerebbe rilievo pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla necessaria rinnovazione del relativo giudizio.

La stessa sentenza Tettamanti ha infine, chiarito che, “all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l’impugnazione del P.M. proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2” (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Rv. 244273 – 01).

Il principio è stato successivamente ribadito, più o meno nei medesimi termini, da:

– Sez. VI, n. 23594 del 19/03/2013, Rv. 256625 (secondo la quale “Nel giudizio di cassazione, relativo a sentenza che ha dichiarato la prescrizione del reato, non sono rilevabili nè nullità di ordine generale, nè vizi di motivazione della decisione impugnata, anche se questa abbia pronunciato condanna agli effetti civili, qualora il ricorso non contenga alcun riferimento ai capi concernenti gli interessi civili”);

– Sez. 2, n. 38049 del 18/07/2014, Rv. 260586 – 01 (massimata nei medesimi termini della citata decisione delle Sezioni Unite);

– Sez. 4, n. 20568 del 11/04/2018, Rv. 273259 – 01 (per la quale, in particolare, “all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo il caso in cui il giudice, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, sia chiamato a valutare, ai sensi dell’art. 578 c.p.p. il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, senza limitarsi al criterio di economia processuale ex art. 129 c.p.p.”), e n. 53354 del 21/11/2018, Rv. 274497 – 01 (per la quale, in particolare, “all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l’impugnazione del pubblico ministero proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2”), e merita senz’altro di essere condiviso ed ulteriormente ribadito.

6.4. Ciò premesso, nel caso in esame la Corte di appello, nonostante il fatto che la conferma delle statuizioni civili disposte dal Tribunale comportasse una affermazione di responsabilità “piena” agli effetti civili, ha limitato la propria disamina delle doglianze formulate dagli appellanti sul punto alla considerazione che gli elementi acquisiti e già valorizzati dal primo giudice, riportati a f. 11 ss. della sentenza impugnata, dimostrano che l’articolo pubblicato sul quotidiano LIBERO in data (OMISSIS) “contiene un evidente documento “falso” (falsità “ideologica”)”, la pubblicazione delle cui risultanze senza adeguata verifica di veridicità avrebbe esposto la parte civile F.D. ad una accusa calunniosa.

6.4.1. Peraltro i due giornalisti non avevano in concreto contestato la materialità del fatto contestato (che pure aveva costituito l’unico profilo esaminato dalla Corte di appello), ma avevano protestato con forza la propria inconsapevolezza (argomentata attraverso plurimi riferimenti fattuali che appare inutile riportare) circa la falsità del predetto documento, e tale circostanza avrebbe potuto in astratto assumere rilievo ai fini del diverso punto della decisione riguardante la configurazione del dolo di calunnia, pure necessaria onde legittimare le statuizioni pronunciate agli effetti civili.

Ciononostante, le relative doglianze sono rimaste senza risposta.

7. I rilievi che precedono assorbono ogni diversa doglianza o prospettazione dei coimputati e delle parti civili.

8. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata:

– limitatamente al delitto di ricettazione, con riferimento alla valutazione circa la sussistenza della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca;

– limitatamente alle statuizioni civili relative al delitto di calunnia, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, che si atterrà al principio di diritto enunciato nel p. 5.6.2. di queste Considerazioni di diritto, provvedendo alle valutazioni fattuali indicate nei p.p. seguenti, e colmerà il deficit motivazionale evidenziato nel p. 6.4.1. di esse.

8.1. Il rinvio va disposto al giudice penale, riguardando (nell’ambito del simultaneus processus) anche un capo penale della sentenza impugnata (quello riguardante l’affermazione di responsabilità in ordine al reato di ricettazione).

8.1.1. In proposito, questa Corte (Sez. 5, n. 10097 del 15/01/2015, Rv. 262633 – 01), con orientamento che il collegio condivide e ribadisce, ha già chiarito che, nel caso di annullamento di una sentenza sia agli effetti penali sia agli effetti civili, il rinvio deve essere disposto unitariamente davanti al giudice penale, posto che il rinvio al giudice civile, di cui alla seconda parte dell’art. 622 c.p.p., è limitato alla sola ipotesi di accoglimento del ricorso della parte civile proposto ai soli effetti civili e di contestuale mancata presentazione o rigetto di ricorsi rilevanti agli effetti penali.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al delitto di ricettazione, con riferimento alla valutazione circa la sussistenza della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca, nonché limitatamente alle statuizioni civili relative al delitto di calunnia, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per nuovo giudizio.

Rigetta nel resto i ricorsi.

Così deciso in Roma, nella pubblica udienza, il 7 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2019.