E’ violenza privata quando, con violenza, si sposta il braccio della vittima che si accingeva ad inserire la carta bancomat nell’apparecchio di un distributore automatico di carburanti (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 4 marzo 2021, n. 8904).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Presidente

Dott. SCARLINI Enrico Vittorio S. – Consigliere

Dott. DE MARZO Giuseppe – Rel. Consigliere

Dott. SESSA Renata – Consigliere

Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) Vito nato a (OMISSIS) il 02/02/19xx;

avverso la sentenza del 15/01/2020 della CORTE APPELLO di PALERMO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Giuseppe DE MARZO;

lette le conclusioni del Procuratore Generale, Dott. Tomaso EPIDENDIO, il quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

lette le conclusioni del difensore.

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 15/01/2020 la Corte d’appello di Palermo, in riforma della decisione assolutoria di primo grado, ha condannato Vito (OMISSIS) alla pena di quattro mesi di reclusione, avendolo ritenuto responsabile del reato di violenza privata, per avere, con violenza consistita nello spostare il braccio di Tonio (OMISSIS), che si accingeva ad inserire la carta bancomat nell’apparecchio di un distributore automatico di carburanti, e nell’interporsi tra la colonnina e il (OMISSIS), costretto quest’ultimo a sospendere l’operazione di rifornimento che stava per compiere.

2. Nell’interesse dell'(OMISSIS) è stato proposto ricorso per cassazione affidato ai seguenti motivi.

2.1. Con il primo motivo si lamenta violazione di legge, per avere la Corte territoriale omesso di pronunciarsi sulla richiesta di declaratoria di inammissibilità dell’appello del Procuratore della Repubblica, fondato sul rilievo che l’atto di impugnazione era stato presentato da un funzionario privo di delega e, in ogni caso, senza indicazione della delega conferita.

2.2. Con il secondo motivo si lamentano vizi motivazionali, per avere la Corte territoriale omesso di considerare che l’area di servizio ha natura privatistica, con la conseguenza che, pur volendo ritenere veritiero il racconto della persona offesa, l'(OMISSIS) «non ha compiuto alcun atto illecito, perché era a casa sua e poteva fare quello che riteneva più opportuno».

Secondo il ricorrente, ricorrerebbero gli estremi dell’esercizio del diritto e non sarebbe ravvisabile alcuna violenza o minaccia.

2.3. Con il terzo motivo si lamentano vizi motivazionali in relazione all’invocata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.

2.4. Con il quarto motivo si lamentano vizi motivazionali, in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Considerato in diritto

1. Il primo motivo è infondato.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di impugnazioni, allorché sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, un error in procedendo, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., il sindacato del giudice di legittimità è pieno e senza limiti, potendo estendersi anche al fatto, del quale, esaminando direttamente gli atti processuali, può essere offerta una interpretazione diversa da quella del giudice di merito, prescindendo dalla motivazione adottata in proposito da quest’ultimo (Sez. 3, Sentenza n. 24979 del 22/12/2017 – dep. 05/06/2018, Rv. 27352501).

Coerente con tale ricostruzione del quadro normativo, è l’ulteriore rilievo, di recente ribadito da questa Corte nella sua più autorevole articolazione (Sez. U., n. 29451 del 16/07/2020, Filardo), secondo il quale non è consentito il motivo di ricorso che deduca vizi di motivazione con riferimento a questioni di diritto.

Invero, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 4, n. 4173 del 22/02/1994, Marzola, Rv. 197993; Sez. 2, n. 3706 del 21/01/2009, Haggag, Rv. 242634; Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010, Maugeri, Rv. 247123; Sez. 3, n. 6174 del 23/10/2014, dep. 2015, Monai, Rv. 264273; Sez. 1, n. 16372 del 20/03/2015, De Gennaro, Rv. 263326; Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, Altoè, Rv. 268404), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. 4, n. 6243 del 07/03/1988, Tummarello, Rv. 178442), il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è soltanto quello attinente alle questioni di fatto, non anche a quelle di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano state comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la avessero sorretta; d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale erroneità degli argomenti posti a fondamento giustificativo della soluzione comunque corretta di una siffatta questione.

Ciò posto, la doglianza è infondata.

Nel caso di specie, l’esame diretto degli atti rivela che l’appello è stato depositato presso la cancelleria del Tribunale in data 19/12/2016, dopo essere stato depositato nella segreteria della procura della Repubblica da parte del sostituto, dott. Franco Belvisi.

Ora, secondo l’orientamento largamente maggioritario presso questa Corte e condiviso dal Collegio, l’inammissibilità dell’impugnazione per l’inosservanza delle formalità prescritte dall’art. 582 cod. proc. pen. sussiste solamente se vi sia concreta incertezza sulla legittima provenienza dell’atto dal soggetto titolare del relativo diritto e non anche quando l’identità della persona che materialmente la presenta risulti desumibile dal complessivo esame del documento, con la conseguenza che la stessa può essere dichiarata soltanto se la violazione, che è addebitabile al pubblico ufficiale ricevente, assume caratteristiche tali da far escludere anche la possibilità della presunzione della legittima provenienza dell’atto, né, in proposito, alcun onere di controllo può essere ascritto a colui che lo presenta sull’operato della persona addetta a riceverlo, (Sez. 2, n. 40254 del 12/06/2014, Rv. 26044301, proprio in un caso nel quale la Corte ha escluso l’inammissibilità dell’appello del P.M., in relazione al quale l’ufficio ricevente non aveva provveduto né ad identificare il presentatore dell’atto, né ad attestare l’esistenza di una delega in favore di quest’ultimo; v., nello stesso senso, Sez. 6, n. 57871 del 18/09/2018, Rv. 27494401; Sez. 2, n. 43895 del 03/07/2019, Rv. 27773801; Sez. 4, n. 42867 del 26/09/2019, Rv. 27763003).

Nel caso di specie, come detto, la provenienza dell’impugnazione non è dubbia, dal momento che l’atto risulta sottoscritto dal sostituto procuratore e depositato inizialmente presso la segreteria dell’ufficio.

L’atto è peraltro imputabile all’ufficio, con la conseguenza che non è necessario individuare alcuna delega esterna rispetto all’ordinaria attribuzione dei compiti d’ufficio al dipendente incaricato di depositare l’atto presso la cancelleria del giudice individuato ai sensi dell’art. 582, comma 1, cod. proc. pen.

2. Il secondo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza e assenza di specificità.

Premesso che solo in termini generici e ipotetici viene contestata la ricostruzione del fatto operata dal giudice di merito, la prima articolazione della doglianza muove dal presupposto, del tutto erroneo, che il gestore di un impianto (il cui titolo dominicale è asserito, ma comunque non correlato ad alcun dato acquisito nel processo che ne dimostri l’obiettivo fondamento) potrebbe nell’impianto stesso rendersi responsabile di atti violenti limitativi della sfera di determinazione degli utenti.

Sotto il primo profilo, si rileva, infatti, che il gestore di un impianto non è necessariamente il titolare dell’autorizzazione all’installazione e all’esercizio dell’impianto stesso, come dimostra l’art. 1, comma 6, del d.lgs. 11 febbraio 1998, n. 32.

D’altra parte, l’art. 28, comma 7, del dl. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con I. 15 luglio 2011, n. 111 esclude che possano essere posti specifici vincoli all’utilizzo di apparecchiature per la modalità di rifornimento senza servizio con pagamento anticipato, durante le ore in cui è contestualmente assicurata la possibilità di rifornimento assistito dal personale, a condizione che venga effettivamente mantenuta e garantita la presenza del titolare della licenza di esercizio dell’impianto rilasciata dall’ufficio tecnico di finanza o di suoi dipendenti o collaboratori; ancora, nel rispetto delle norme di circolazione stradale, presso gli impianti stradali di distribuzione carburanti, ovunque siano ubicati, non possono essere posti vincoli o limitazioni all’utilizzo continuativo, anche senza assistenza, delle apparecchiature per la modalità di rifornimento senza servizio con pagamento anticipato.

Siffatte indicazioni confermano che l’esercizio dell’attività imprenditoriale della quale si tratta non si presta ad essere apprezzata nei singolari termini proprietari pretesi dal ricorrente.

Ma soprattutto – e si tratta del secondo profilo – non sono individuabili – e, infatti, il ricorrente nulla indica al riguardo – prerogative dominicali esercitabili con la violenza, nei confronti di chi non sta compiendo alcun illecito, avvalendosi del servizio messo a disposizione della collettività, per effetto dell’autorizzazione amministrativa, a monte, e del contratto tra titolare dell’autorizzazione e gestore, a valle.

Alla stregua della ricostruzione della vicenda operata dai giudici di merito – in cui l’imputato, prima, ha spinto via la mano della persona offesa e poi, interponendosi tra quest’ultima e la colonnina, l’ha costretta a tollerare l’abusivo superamento della fila e gli ha impedito di rifornirsi del carburante quando era giunto il suo turno – ricorrono senz’altro gli elementi costitutivi della fattispecie, giacché il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione (Sez. 5, n. 48369 del 13/04/2017, Rv. 27126701).

Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, la violenza non abbia rappresentato l’evento del reato, ma appunto il mezzo per coartare la libera determinazione della persona offesa rispetto ad una diversa attività.

In definitiva, il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è configurabile il delitto di violenza privata allorquando gli atti di violenza non siano diretti a costringere la vittima ad un pati, ma siano essi stessi produttivi dell’effetto lesivo, senza alcuna fase intermedia di coartazione della libertà di determinazione della persona offesa (Sez. 5, Sentenza n. 10132 del 05/02/2018, Rv. 27279601), va letto alla luce del suo sviluppo storico.

La sentenza appena citata, come pure la precedente Sez. 5, Sentenza n. 47575 del 07/10/2016, Rv. 2684050, richiamano, infatti, le indicazioni di Sez. U, n. 2437 del 18/12/2008 – dep. 21/01/2009, Rv. 24175201, che, ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, hanno rilevato:

a) che il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione ed azione, ben potendo trattarsi di violenza fisica, propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima, o di violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione;

b) che la violenza è un connotato essenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi di “qualcosa” di diverso dal “fatto” in cui si esprime la violenza (nella specie, si trattava di un intervento terapeutico non sorretto dal necessario consenso del paziente).

Ma, nel caso, di specie, l’evento ulteriore rispetto alla violenza è rappresentato proprio dalla costrizione a non rifornirsi del carburante quando era giunto il proprio turno.

D’altra parte, la costrizione può ben essere temporanea (v., ad es., di recente, Sez. 5, n. 43563 del 21/06/2019, Rv. 2771260), senza che ciò escluda la sussistenza del reato.

3. Il terzo motivo è inammissibile, per difetto di specificità.

Premesso che il ricorrente neppure indica quando avrebbe rivolto siffatta richiesta alla Corte territoriale, si osserva che la doglianza si risolve in una trattazione di carattere generale dell’istituto e in un richiamo all’assenza di preclusioni di legge all’applicazione dello stesso (il ricorrente, in sintesi, osserva che «appaiono astrattamente rinvenibili i requisiti di cui all’art. 131-bis c.p.»), mentre del tutto incongrua è l’affermazione della particolare tenuità in relazione all’insussistenza di danni alle cose, quasi che la presenza o l’assenza di siffatto evento possa assumere carattere decisivo.

4. Inammissibile è anche il quarto motivo, dal momento che, secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in tema di attenuanti generiche, poiché la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza.

Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace e altro, Rv. 245241; Sez. 1, n. 3529 del 22/09/1993, Stelitano, Rv. 195339).

Nella specie, la Corte territoriale, diversamente da quanto lamentato dal ricorrente, spiega per quale ragione ha negato le circostanze attenuanti generiche, sottolineando l’assenza di elementi suscettibili di positiva valutazione.

E, rispetto a tale indicazione, il ricorso resta completamente silente.

5. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.