Falsificare le firme dei clienti Bancoposta legittima il licenziamento (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Sentenza 1 ottobre 2021, n. 26710).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22285-2019 proposto da:

(OMISSIS) SALVATORE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE (OMISSIS) 140, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato MASSIMILIANO (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE (OMISSIS) 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati GAETANA (OMISSIS), GAETANO (OMISSIS);

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 219/2019 della CORTE D’APPELLO di CALTANISSETTA, depositata il 08/05/2019 R.G.N. 66/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/05/2021 dal Consigliere Dott.ssa MATILDE LORITO.

RILEVATO CHE

La Corte d’appello di Caltanissetta confermava la pronuncia del giudice di prima istanza con la quale era stata respinta la domanda proposta da Salvatore (OMISSIS) nei confronti di Poste Italiane s.p.a., volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare senza preavviso intimatogli il 9/1/2015 ai sensi dell’art. 54 comma 6 lett. c), e), k) e dell’art. 80 c.c.n.l. 14/4/2011, per violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri d’ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi, di gravità tale da non consentirne la prosecuzione;

la Corte distrettuale perveniva a tale convincimento all’esito di un’ampia ricognizione del quadro probatorio acquisito, alla cui stregua era emersa l’evidenza del compimento, da parte del dipendente, di gravi irregolarità rilevate nel contesto di attività di vigilanza dal servizio ispettivo, che aveva riscontrato l’apposizione da parte del ricorrente – specialista finanziario – di firme contraffatte di due clienti (dipendenti della società Poste Italiane), nel corso di una serie di operazioni concernenti la revoca della richiesta di finanziamento del quinto dello stipendio e la sottoscrizione di quote di Fondi di Investimento Banco Posta;

il giudice del gravame rimarcava, per quanto qui interessa, che la condotta falsificante posta in essere dal ricorrente, pur scriminata sul piano penalistico, restava trasgressiva dei doveri di correttezza inerenti alla obbligazione lavorativa, tradiva un atteggiamento spregiudicato, posto in essere in deliberata violazione delle regole che governano e strutturano il rapporto di lavoro subordinato, in consapevole rottura del rapporto di fiducia intercorrente sia con la parte datoriale che con la clientela;

anche l’episodio concernente la reazione abnorme manifestata in pubblico dal (OMISSIS), rispetto ad una disposizione impartita dal direttore in tema di pagamento delle pensioni – richiamata nel verbale ispettivo acquisito agli atti ma oggetto di contestazione ritenuta dal primo giudice non tempestiva – concorreva a conferire, a livello indiziario, un ulteriore contributo alla attendibilità delle testimonianze raccolte, attestanti la propensione del dipendente al mancato rispetto delle regole e direttive dettate dai superiori gerarchici;

avverso tale decisione Salvatore (OMISSIS) interpone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi;

resiste con controricorso la società intimata;

entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.

CONSIDERATO CHE

1. con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c., 1455, 2106, 2119 c.c. nonché degli artt. 52, 53, 54, 55 c.c.n.l. 14/4/2011 per il personale non dirigente in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.;

ci si duole che il giudice di seconda istanza abbia fondato il proprio convincimento anche sulle dichiarazioni assunte in sede ispettiva, definendole prove atipiche, idonee a conferire ulteriore attendibilità a sostegno delle testimonianze rese dai soggetti le cui firme erano state oggetto di contraffazione; si prospetta l’erroneità della statuizione sul rilievo che “al fine di assumere valore di prove atipiche, i documenti in questione devono pur sempre essere riferibili ai fatti che formano specifico oggetto della contestazione”;

nello specifico, gli episodi relativi a presunti alterchi del ricorrente (ipotizzati con la prima contestazione poi ritenuta tardivamente formulata dal primo giudice), non avevano alcuna attinenza con i fatti relativi alle contestazioni aventi ad oggetto irregolarità nella apposizione di firma, tanto in evidente violazione dei dettami di cui all’art. 116 c.p.c.;

2. il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 53 e 54 c.c.n.l. 14/4/2011 per il personale non dirigente in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.;

si lamenta che la Corte distrettuale, nel confermare l’irrogazione della massima sanzione espulsiva, abbia vulnerato il principio di gradualità e proporzionalità consacrato dalla disposizione contrattual-collettiva di cui all’art. 53 che impone l’elaborazione di un giudizio modulato sulla intenzionalità del comportamento o del grado di negligenza, sul concorso nella mancanza, di più lavoratori, ed sul comportamento complessivo assunto dal dipendente, con particolare riguardo ai precedenti disciplinari subiti nell’ambito del biennio;

si imputa al giudice del gravame di non aver rimarcato la insussistenza di alcun danno in capo alla società e la mancanza di alcun riflesso all’esterno, delle condotte ascritte;

tanto in violazione anche dello specifico dettato contrattuale rubricato al comma sesto dell’art. 54 c.c.n.l. di settore, secondo cui il licenziamento senza preavviso può essere irrogato per violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi;

3. con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 53 e 54 c.c.n.l. 14/4/2011 per il personale non dirigente in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.;

si deduce che erroneamente il giudice del reclamo abbia espresso il giudizio in tema di irredimibile violazione del patto fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, trascurando di considerare che il ricorrente non era incorso in alcuna recidiva, secondo le previsioni delle pattuizioni collettive, essendo stata annullata la precedente sanzione conservativa della multa, e che i fatti addebitati non erano stati posti in essere in concorso con altri;

in tal senso il giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto alle mancanze poste in essere dal ricorrente palesava la propria infondatezza, integrando una violazione di legge che ridondava in termini di non corretta valutazione dei fatti;

4. il quarto motivo attiene alla violazione e falsa applicazione degli artt. 1455, 2106, 2119 c.c. nonché degli artt. 53 e 54 c.c.n.l. 14/4/2011 per il personale non dirigente in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.;

ci si duole che i giudici di seconda istanza abbiano omesso di operare una doverosa valutazione, secondo il paradigma normativo delineato dalle disposizioni pattizie e dai precetti codicistici richiamati, di ogni aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto, nell’ambito del giudizio in tema di gravità della condotta ascritta al lavoratore;

nello specifico sarebbe stata obliterata la necessaria valutazione delle ottime prestazioni in tema di rendimento, conseguite dal ricorrente, che aveva dato lustro alla filiale, in sede regionale, nel campo vendita di prodotti di investimento, consentendone la classificazione fra le prime dieci;

5. appare opportuno esaminare con priorità, e congiuntamente, stante la connessione che li connota, i motivi dal secondo al quarto, con sostituzione del profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c. (cd. ragione più liquida), in considerazione del fatto che si impone un approccio ispirato ad una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dagli artt. 24 e 111 Cost. (vedi Cass. Sez. U, n. 9936 del 8/05/2014; Cass. n. 12002 del 28/05/2014, Cass. n. 11458 dell’11/5/2018, Cass. n. 363 del 9/1/2019);

6. va, inoltre, considerato che le critiche, le quali investono l’interpretazione delle norme collettive di settore rubricate, mirano a sollecitare un esame, da parte di questa Corte, del contenuto del c.c.n.I., in assenza del deposito in forma integrale della copia degli stessi così come della indicazione specifica, nel corpo del motivo in scrutinio, della sede processuale in cui detti testi siano rinvenibili (vedi Cass. 4/3/2019 n. 6255, Cass. 4/3/2015 n. 4350; Cass. S.U. 2013 n. 25083, Cass. S.U. 2010 n. 20075), così non sottraendosi ad un giudizio di improcedibilità;

7. le summenzionate critiche, si palesano altresì infondate;

deve osservarsi in via di premessa che, secondo l’orientamento privo di contrasti espresso in sede dì legittimità, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale o norma elastica, che richiede dì essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice dì merito e incensurabile in cassazione se privo di incongruenze;

pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare norme elastiche come quelle relativa alla sussistenza della giusta causa di licenziamento non sfugge alla verifica in sede di legittimità, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento (cfr., ex plurimis, Cass. 13/8/2008 n. 21575, Cass. 2/3/2011 n. 5095, Cass. 26/4/2012 n. 6498, Cass. 26/3/2018 n. 7426);

correlato a tale principio è quello secondo cui la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare deve essere in ogni caso elaborata attraverso un accertamento in concreto da parte del giudice del merito della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo;

va anche rammentato che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, alla sola condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr., ex plurimis, Cass. 6/8/2020 n. 16784, Cass.12/2/2016 n. 2830 Cass., Cass. 4/3/2013 n. 5280);

nello specifico la Corte distrettuale si è attenuta ai suenunciati principi giurisprudenziali, procedendo ad una ricognizione approfondita delle acquisizioni probatorie;

qualificando in termini di gravità la condotta del lavoratore il quale aveva arrecato un evidente vulnus ai principi di correttezza e buona fede poste a presidio della nascita e dell’adempimento delle obbligazioni che scandiscono il rapporto di lavoro, mediante la contraffazione in due occasioni, delle sottoscrizioni apposte da clienti, dipendenti della società Poste Italiane, a moduli relativi alla definizione di operazioni finanziarie;

operando, dunque, una corretta sussunzione dei fatti descritti (vedi pag. 5 della pronuncia impugnata) nell’ambito della categoria dell’inadempimento grave, rubricato all’art. 2119 c.c. per la violazione del complesso di regole in cui si sostanzia la civiltà del lavoro in un determinato contesto storico-sociale ovverosia degli standards normativi che rispetto a detti principi si trovano in rapporto essenziale ed integrativo;

s’impone, allora, l’evidenza del fatto che, pretendendo di rimettere in discussione la riconducibilità delle descritte mancanze alla violazione dei canoni di buona fede, correttezza e ordinaria diligenza, parte ricorrente ambisce in realtà ad un ulteriore riesame dei medesimi fatti accertati in sede di merito, non consentita in sede di legittimità;

altrettanto è a dirsi in ordine alle censure di difetto di proporzionalità tra fatto e sanzione, essendo consolidato il principio secondo cui tale giudizio è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. n. 8293 del 2012), i quali, anche se considerati nella loro espressione precedente alla riformulazione della disposizione cit. da parte dell’art. 54, d.l. n. 83/2012 (conv. con 1. n. 134/2012), non consentono che si denunci la non corrispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte, né che si proponga per suo tramite un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati istruttori acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento (cfr. Cass. 28/3/2017 n. 7916 in motivazione);

in tale prospettiva è da reputarsi inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con cui si deduca una violazione di disposizioni di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, atteso che in tal modo si consentirebbe la surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, grado di merito (vedi per tutte Cass. S.U. 27/12/2019 n.34476);

va peraltro considerato che le statuizioni oggetto di critica appaiono conformi a diritto anche sul versante della coerenza con gli approdi ai quali è pervenuta la giurisprudenza di legittimità in tema di esegesi delle disposizioni contrattual-collettive di riferimento;

in particolare, quanto alla definizione dell’elemento soggettivo sotteso alla clausola pattizia di cui all’art. 54, comma 6, lett. c), del c.c.n.l. in data 11 luglio 2007 per i dipendenti delle Poste italiane, l’approccio ermeneutico è stato definito nel senso che tale disposizione richiede solamente il dolo generico e la mera potenzialità dannosa della condotta contestata (vedi Cass. 4/12/2017 n.28962), il dolo richiesto rimandando a una nozione più generale, coincidente con la rappresentazione e volizione del fatto costituente l’addebito disciplinare, nel senso che l’evento sia preveduto e voluto quale conseguenza della propria azione, e non con una nozione restrittiva di dolo, in sostanza coincidente con quella di dolo intenzionale, intendendosi per tale il legame psicologico che raggiunge l’intensità massima, nel senso che la rappresentazione del verificarsi del fatto costituente l’addebito disciplinare, costituisce io scopo finalistico in vista dei quali il soggetto si determina alla condotta (cfr. Cass. / 30/11/2015 n.24367);

deve considerarsi al riguardo che, anche a seguito della trasformazione in società per azioni dell’ente pubblico postale, l’impegno di capitale pubblico nella società e lo stesso fine pubblico perseguito (tali da sottomettere l’attività svolta ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost.), non sono senza riflesso quanto ai doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, i quali devono assicurare affidabilità, nei confronti del datore di lavoro e dell’utenza (vedi Cass. 19/1/2015 n.776);

e tale è la prospettiva che ha indirizzato la Corte distrettuale nel proprio incedere argomentativo, consentendole di connotare come di rilevante intensità l’elemento soggettivo sotteso alla contestata mancanza, in quanto portatore di una prognosi infausta sul futuro corretto adempimento delle obbligazioni lavorative;

sulla scia di tali principi è stato affermato, proprio con riferimento all’art. 54 del c.c.n.l. Poste, che la nozione di pregiudizio alla società o a terzi, ossia eventualmente agli utenti del servizio postale, non comprende soltanto il danno patrimoniale ma anche l’imminente pericolo per l’interesse dei soggetti coinvolti (cfr. Cass. 5/8/2015, n. 16464);

rispetto a tali considerazioni il ricorrente, ad onta dei richiami normativi indicati, ha sviluppato censure di merito, attinenti anche alla intensità del pregiudizio arrecato, e dirette ad una ‘rivalutazione del fatto’ non compatibili con la nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, cod. civ. proc.: il fatto, nel suo complesso, è stato infatti valutato dal giudice di merito con una motivazione che certamente non eccede i limiti costituzionali essendo congrua, puntuale e correlata a specifici elementi (cfr. Cass., S.U. nn. 8052 e 8053 del 7/4/2014);

in definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, i surrichiamati motivi vanno respinti, con assorbimento del primo;

infatti, la reiezione dei motivi descritti (dal secondo al quarto) rende consolidata la motivazione enunciata dalla sentenza impugnata in relazione alla relativa ratio decidendi, con la conseguenza che inutile diventa lo scrutinio del primo motivo, perché, se anche esso fosse fondato, non potrebbe giustificarsi la cassazione della sentenza in relazione alle ulteriori statuizioni impugnate, che rimarrebbero ferme sulla base degli argomenti riconosciuti esatti (vedi Cass. 21/6/2017 n.15350);

la regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata;

trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 ricorrono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 13 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 1° ottobre 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.