REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
PRIMA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. Francesco Antonio Genovese -Presidente
Dott. Guido Mercolino -Consigliere
Dott. Francesco Terrusi -Consigliere
Dott. Alberto Pazzi -Consigliere
Dott. Eduardo Campese -Consigliere – Rel.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 14655/2021 r.g. proposto da:
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso, ope legis, dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici domicilia in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12.
– ricorrente –
contro
(omissis) (omissis) difensore di sé stesso, con domicilio eletto presso l’indirizzo di posta elettronica certificata (omissis) (omissis)
– controricorrente –
e
COMUNE DI (omissis) persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata in calce al controricorso dall’Avvocato (omissis) (omissis)
– controricorrente –
e
(omissis) (omissis) (omissis) (omissis) PROVINCIA DI (omissis)
– intimati –
cui risulta abbinato il ricorso proposto da (omissis) (omissis) difensore di sé stesso, con domicilio eletto presso l’indirizzo di posta elettronica certificata (omissis) (omissis) (omissis)
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore.
– intimato –
avverso la sentenza, n. cron. 2020/2020, della CORTE DI APPELLO DI(omissis) pubblicata il 30/11/2020;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 14/09/2023 dal Consigliere dott. Eduardo Campese;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott.ssa Luisa De Renzis, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso del Ministero dell’Interno limitatamente al suo secondo motivo;
sentito, per il controricorrente Avv. (omissis) (omissis) anche ricorrente in proprio, il medesimo avvocato;
sentito, per il controricorrente Comune di (omissis) l’Avv (omissis) (omissis);
lette le memorie ex art. 378 cod. proc. civ. depositate dalle parti.
FATTI DI CAUSA
1. (omissis) (omissis) ed (omissis) (omissis) attori popolari quali sostituti del Comune e della Provincia di (omissis)citarono in giudizio, innanzi al Tribunale di (omissis) il Ministero dell’Interno, la Prefettura di (omissis) la Presidenza del Consiglio dei Ministri (d’ora in avanti, breviter PCM), il Comune e la Provincia (ora Città Metropolitana) di (omissis) chiedendo accertarsi:
i) il carattere di struttura detentiva o di restrizione della libertà di circolazione del (omissis) (omissis) (per il prosieguo, più semplicemente,(omissis) di (omissis) (omissis);
ii) la non vincolatività e la disapplicabilità delle Linee guida per la progettazione di tali strutture;
iii) la lesione dei diritti fondamentali degli stranieri ivi trattenuti;
iv) la violazione degli stessi standards minimi di trattamento, individuati dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale, previsti per i detenuti nelle carceri.
Domandarono, per l’effetto:
i) la chiusura del (omissis) o, in subordine, la condanna di Ministero, Prefettura e PCM ad eseguire le opere individuate in sede di (omissis) onde garantire la dignità delle persone;
ii) la condanna dei medesimi convenuti a risarcire al Comune ed alla Provincia sia il danno da violazione dei diritti umani all’interno del (omissis) sia il danno subito quali enti esponenziali delle comunità ivi insediate.
1.1. Rimasta contumace la Provincia di (omissis) si costituirono:
i) il Comune di (omissis) facendo propria la domanda degli attori popolari, quale ente esponenziale con poteri di gestione del territorio e di certificazione di agibilità del (omissis) contro la cui localizzazione a (omissis) si era espresso il Consiglio comunale con delibera 149 del 15 novembre 2004;
ii) il Ministero dell’Interno, la Prefettura di (omissis)e la PCM, contestando la giurisdizione ordinaria, la legittimazione degli attori popolari e la legittimazione passiva della PCM.
Nel merito, dedussero che la struttura non detentiva, istituita con decreto interministeriale del 21 luglio 1998 ai sensi dell’art. 12 della legge n. 40/98, era affidata, con regolare gara, ad un ente privato che la gestiva in modo corretto ed assicurando la dignità degli ospiti.
Le criticità rilevate nel corso del precedente procedimento di accertamento tecnico preventivo, derivanti dal mancato rispetto delle Linee guida e dai danni arrecati dai trattenuti nel corso di numerose rivolte, ben potevano essere superate attraverso i lavori suggeriti dal c.t.u. ed in corso di esecuzione, nonché dai controlli esercitati in occasione delle visite di diversi soggetti istituzionali.
In ogni caso, le restrizioni attuate con i (omissis) attenevano non alla libertà personale ma alla libertà di circolazione degli stranieri, che andava bilanciata con l’esigenza di controllare i flussi migratori.
Conclusero, quindi, per il rigetto della domanda.
1.1.1. Nel corso del giudizio intervenne la Regione (omissis) aderendo alla prospettazione degli attori popolari, e si instaurò un procedimento cautelare, ex art. 700 cod. proc. civ., all’esito del quale fu ordinato ai convenuti di attuare una serie di migliorie della struttura relative a: numero, dimensioni e manutenzione dei servizi igienici; oscuramento delle finestre e ventilazione delle stanze alloggio; dimensioni dello spazio mensa; numero di aule per attività lavorative didattiche e ricreative; segnaletica antincendio; prevenzione dell’usura dei moduli abitativi. In caso di mancata esecuzione entro novanta giorni, tutti gli stranieri trattenuti sarebbero stati trasferiti in altri (omissis) rispondenti ai requisiti mancanti a (omissis) (omissis).
L’attuazione del provvedimento fu oggetto di ricorso ex art. 669-duodecies cod. proc. civ., concluso con ordinanza che respinse la richiesta di chiusura del (omissis) ma nominò un commissario ad acta per la verifica dello stato dei lavori ordinati.
1.2. Con sentenza del 31 luglio/10 agosto 2017, n. 4089, l’adito tribunale:
i) ritenne la giurisdizione ordinaria, la legittimazione degli attori popolari ex art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 (ma non per il danno per le condizioni di vita nel (omissis) risarcibile solo ai singoli stranieri interessati) e la legittimazione dei convenuti;
ii) escluse l’interesse a richiedere sia la chiusura che la stessa esecuzione delle opere necessarie, essendo il (omissis)ormai chiuso dal 2016 senza che fossero noti il se ed il quando dell’eventuale riapertura;
iii) ritenne che la struttura non garantisse l’assistenza né la dignità degli stranieri ivi ospitati, sottoposti a trattamento inumano e degradante ai sensi dell’art. 3 della Convenzione EDU;
iv) opinò che, sebbene privi di competenze sulla localizzazione del (omissis) Comune e Provincia di (omissis) avevano subito un danno all’immagine di enti esponenziali di comunità capaci di accoglienza, consacrata nella secolare storia di dominazioni straniere e di intrecci di culture religiose e laiche, di rapporto con (omissis) (simboleggiato dal culto (omissis) comune con la Russia e il mondo ortodosso) ed infine trasfusi nello statuto della Provincia, che richiama il principio di solidarietà, ed ancor più in quello del Comune. In siffatta situazione, non aveva rilievo l’astratta questione giuridica se il (omissis) fosse, o meno, una struttura detentiva, ma la concreta questione di fatto se la sua inadeguata gestione avesse esposto, o non, gli enti esponenziali a seri problemi di ordine pubblico e sicurezza nel territorio, alla messa in pericolo dello sviluppo turistico, al rischio di assimilazione-sineddoche con realtà di segregazione universalmente note (omissis) e altre come (omissis) in ultima analisi, alla lesione dell’immagine e del senso di identità di terra di accoglienza e di ponte tra culture e mondi diversi. In tale prospettiva, le numerose rivolte degli ospiti del (omissis) così come le proteste non violente contro le condizioni di trattenimento (solo nel 2012 ben 59 scioperi della fame), erano l’indice non di aggressività o di mera insofferenza ma di oggettiva intollerabilità della permanenza nella struttura;
v) condannò il Ministero dell’Interno e la PCM, in solido tra loro, a risarcire al Comune ed alla Provincia di (omissis) relativo danno, liquidato in € 32.766,00, oltre accessori, in considerazione del carattere territorialmente circoscritto del danno e dell’assenza di risonanza internazionale.
Li condannò, inoltre, a rifondere le spese processuali e di c.t.u. a tali soggetti, agli attori popolari ed alla Regione.
2. Avverso tale sentenza proposero tempestivo gravame il Ministero dell’Interno, la Prefettura di (omissis)e la PCM, contestando la legittimazione attiva della Provincia; il diritto della Regione (omissis) intervenuta in adesione a domanda altrui, alla rifusione delle spese processuali; la legittimazione passiva della PCM; la sussistenza di competenze dei Comuni in tema di localizzazione e gestione de (omissis) l’inidoneità della struttura a garantire l’assistenza e la dignità dei trattenuti; la correttezza del ricorso alla sineddoche (omissis) (omissis) etc.) per l’individuazione del danno all’immagine; la riconduzione delle proteste degli stranieri al trattamento subito anziché al desiderio di fuga e all’insofferenza del regime di controllo; l’assenza di prova di un danno economico, ad esempio, allo sviluppo turistico; l’incertezza e indeterminatezza della quantificazione del danno, pur a fronte della riconosciuta carenza di risonanza internazionale. Conclusero, quindi, per il rigetto delle domande accolte in primo grado.
2.1. Rimasta contumace la Provincia di (omissis) si costituirono:
i) la Regione (omissis) chiedendo la conferma della sentenza impugnata;
ii) gli attori popolari (omissis) (omissis) ed (omissis) (omissis) concludendo per il rigetto dell’avversa impugnazione e proponendo gravame incidentale con cui riproposero le domande di accertamento dell’illegalità della struttura, riaperta nel novembre 2017 col nome di (omissis) i (omissis) stabilito dalla legge n. 46/17, nonché di condanna alla sua chiusura o, in subordine, all’esecuzione delle opere necessarie per la dignità dei trattenuti;
iii) il Comune di (omissis) volgendo considerazioni e proponendo conclusioni analoghe a quelle degli attori popolari.
2.2. L’adita Corte di Appello di (omissis) quindi, con sentenza del 30 novembre 2020, 2020, in parziale riforma della decisione ivi impugnata, così provvide:
«1) dichiara cessata la materia del contendere sulla domanda di cui al punto 1) del dispositivo della sentenza impugnata;
2) dichiara il difetto di legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri e compensa interamente le spese processuali del doppio grado tra la stessa e le controparti;
3) rigetta la domanda proposta in favore della Città Metropolitana di (omissis) nulla sulle spese del doppio grado sostenute dalle controparti della Città;
4) riduce a € 20.000,00, oltre interessi legali dal deposito della sentenza, l’importo di cui al punto 3) del dispositivo della sentenza impugnata; condanna il solo Ministero dell’Interno a pagare la somma al solo Comune di (omissis);
5) conferma, nei confronti del solo Ministero dell’Interno, la statuizione di condanna al pagamento delle spese processuali sostenute dagli attori popolari (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis) contenuta al punto 5) del dispositivo della sentenza impugnata;
6) revoca la statuizione di cui al punto 6) del dispositivo della sentenza impugnata;
7) limita al solo Ministero dell’Interno la statuizione di condanna di cui al punto 8) del dispositivo della sentenza impugnata;
8) conferma, nel resto, la sentenza impugnata e compensa interamente le spese processuali di appello tra tutte le parti processuali».
2.2.1. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte, dopo aver dato atto dell’essersi formato il giudicato interno «sulla sussistenza della giurisdizione ordinaria, sulla legittimazione degli attori popolari (e sul suo difetto quanto alla domanda di risarcimento del danno per le condizioni di trattenimento nel (omissis) sulla ritualità dell’intervento della Regione» ed aver ritenuto «di competenza esclusiva del Ministero dell’Interno la materia dell’immigrazione, e, in particolare, quella del trattenimento dei soggetti da rimpatriare», sicché le domande proposte contro la PCM dovevano essere respinte:
i) con riferimento all’appello di attori popolari e Comune, condivise «il giudizio di sopravvenuta carenza di interesse ad agire È pacifico, infatti, che, al momento della decisione impugnata, il (omissis) di (omissis) (omissis) era chiuso dal 2016 e che non erano noti né il se né il quando dell’eventuale riapertura. In quel momento, quindi, difettava l’interesse attuale a richiedere sia la sua chiusura che la stessa esecuzione delle opere necessarie alla sua migliore funzionalità. Né oggi l’eventuale permanere, dopo la riapertura del novembre 2017, delle criticità rilevate in passato dai c.t.u. può affermarsi senza una nuova specifica istruttoria, che allungherebbe in modo imprevedibile i tempi del processo e finirebbe con l’eludere, in parte qua, il doppio grado di giurisdizione previsto per legge, surrogato solo in appello di fatti nuovi sopravvenuti. La domanda di chiusura della struttura e di esecuzione di opere, riproposte con gli appelli incidentali, non sono quindi esaminabili»;
ii) ritenne che, «in punto di responsabilità, il giudizio del Tribunale, di inidoneità del (omissis)a garantire l’assistenza e la dignità degli stranieri, sottoposti a trattamento inumano e degradante, non è contestato in modo specifico: gli appellanti si limitano ad affermare, in modo apodittico, la non inadeguatezza della struttura e l’assenza di carattere detentivo»;
iii) rimarcò che «La discussione tra le parti ha ampiamente riguardato la natura detentiva, o meno, dei (omissis) (o attuali(omissis) problema la cui astrattezza il Tribunale ha sottolineato, evidenziando che oggetto della causa è stabilire se la concreta gestione, come detto sicuramente inadeguata, abbia, o meno, provocato danni agli enti esponenziali. La Corte concorda col Tribunale sull’irrilevanza della classificazione giuridica [..]. La questione della natura detentiva dei Centri risulta ormai superata, essendo stata introdotta dapprima di fatto, e poi di diritto, una sorta di detenzione amministrativa poco tipizzata o tipizzabile. [..] In una siffatta situazione, che pure deriva, in ultima analisi, dalla legge e dalla normativa eurounitaria, lo Stato deve fare di tutto non solo per limitare la permanenza nei Centri allo stretto indispensabile, ma anche renderla comprensibile ed umanamente tollerabile. Ciò che, all’evidenza, non è avvenuto nel caso in esame, sicché non può che trovare risposta affermativa la questione della sussistenza del fatto colposo grave, omissivo o commissivo che sia, rilevante ai sensi delliart. 2043 c.c.»;
iv) con riferimento alla sussistenza ed alla liquidazione del danno per gli enti locali, condivise «la censura di incertezza e indeterminatezza mossa dagli appellanti alla sentenza impugnata, che in modo indistinguibile ha unificato problemi di ordine pubblico e sicurezza del territorio, pericolo per lo sviluppo turistico, rischio di assimilazione a realtà di segregazione, lesione dell’immagine e dell’identità. Tale errore di prospettiva non impedisce, tuttavia, il riesame dei singoli profili di danno alla luce delle argomentazioni delle parti, onde rivalutarli in modo autonomo»;
v) escluse che la cattiva gestione del Centro suddetto avesse determinato un danno all’immagine del Comune e della Provincia di (omissis) a ritenne derivato dalla suddetta cattiva gestione, ed esclusivamente con riguardo al Comune di (omissis) un danno da lesione dell’identità cittadina (diversa dal diritto all’immagine), – da intendersi «come senso di essere qualcosa di specifico, quel qualcosa che consente di cambiare rimanendo sé stessi» – in conseguenza della negazione della dignità delle persone straniere trattenute nel (omissis) ed il cui fondamento ben poteva individuarsi nell’insieme di tutti quei valori umanitari e solidaristici rinvenibili nello Statuto comunale di quella città cui ben poteva attribuirsi valore anche giuridico;
vi) quantificò, equitativamente, in € 20.000,00 il menzionato danno da lesione dell’identità cittadina riconosciuto al comune barese, che considerò «la parte prevalente rispetto all’importo totale di € 32.766,00» quantificato dalla sentenza impugnata, ed adeguato, «da un lato, alla lunga durata della non lieve violazione dell’identità di città accogliente, e dall’altro, alla correttezza del comportamento processuale degli organi statali e alla novità delle questioni».
3. Per la cassazione di questa sentenza hanno proposto autonomi ricorsi, notificati in pari data, il Ministero dell’Interno, affidandosi a due motivi, e (omissis) (omissis) formulando cinque motivi, illustrati anche da memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ..
Il solo Comune di (omissis) ha depositato un controricorso, illustrato anche da memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ., al fine di «resistere e contraddire al ricorso proposto dal Ministero dell’Interno [..], in adesione al ricorso proposto dall’attore popolare (omissis) (omissis).
Non hanno svolto difese, invece, in questa sede (omissis) (omissis) la Provincia di (omissis) la Regione (omissis) benché destinatari della notificazione del solo ricorso del Ministero suddetto.
3.1. La Prima Sezione civile di questa Corte, originariamente investita della decisione della controversia, con ordinanza interlocutoria del 24 febbraio/7 marzo 2023, 6855, ritenuto che «la questione prospettata nel secondo motivo del ricorso del Ministero dell’Interno (riguardante la configurabilità del cd. diritto all’identità cittadina), la sua rilevanza (tenuto conto della tipologia di diritti coinvolti e dei suoi potenziali riflessi su controversie analoghe) e la carenza di precedenti specifici, nella giurisprudenza di legittimità, sugli aspetti rimarcati nella doglianza suddetta, rendono opportuno disporre la trattazione della causa in pubblica udienza», ha rinviato la causa a nuovo ruolo, disponendone la trattazione in pubblica udienza, in occasione della quale hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ. soltanto il Comune di (omissis) ed il (omissis)
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Pregiudizialmente, i due separati ricorsi del Ministero dell’Interno e del (omissis) proposti in pari data (31 maggio 2021), vanno riuniti ex art. 335 cod. proc., civ., entrambi concernendo l’impugnazione della medesima sentenza.
2. In via preliminare, poi, è opportuno ricordare, quanto al controricorso del Comune di (omissis) decisivo al ricorso del (omissis) he, giusta Cass. n. 10329 del 2016, «In tema di giudizio di cassazione, quando con il controricorso il litisconsorte si sia limitato ad aderire alla richiesta del ricorrente principale senza formulare una propria domanda di annullamento, totale o parziale, della decisione sfavorevole, si è in presenza di una semplice costituzione in giudizio processualmente valida, anche se subordinata alla sorte dell’impugnazione principale, non essendo al riguardo necessaria la proposizione di un ricorso incidentale».
2.1. Nella specie, dunque, atteso che il menzionato ente – litisconsorte necessario del (omissis) ex artt. 9, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2020 ed 81 cod. proc. civ. – ha concluso chiedendo, specificamente, il solo rigetto della impugnazione del Ministero dell’Interno, è ragionevole concludere che si sia al cospetto di una semplice costituzione in giudizio processualmente valida del primo.
3. Vanno disattese, poi, le eccezioni di inammissibilità dei motivi del ricorso del Ministero dell’Interno sollevate dal Comune di (omissis) dal (omissis) nel ricorso suddetto, infatti, è indicata sufficientemente la sentenza impugnata, vi è l’esposizione sommaria dei fatti della causa, mediante gli essenziali riferimenti ai precedenti gradi di giudizio, e la decisione delle formulate doglianze non suppone l’esame di documenti ulteriori rispetto a quelli il cui contenuto è già riportato nella sentenza predetta.
4. I motivi di ricorso del menzionato Ministero denunciano, rispettivamente:
I) «Violazione e falsa applicazione degli 99 e 112 c.p.c.», per avere la corte territoriale manifestamente violato il principio del tantum devolutum quantum appellatum. Si assume che, innanzi ad essa, gli appellanti principali avevano chiesto la riforma del capo della sentenza che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno all’immagine e che la corte territoriale aveva solo apparentemente accolto il gravame. Si afferma che, «A ben vedere, la sentenza ha riformato in peius, o comunque oltre il perimetro di quanto richiesto, il capo di condanna nei confronti del Ministero. Infatti, la somma di € 32.722,66 era stata liquidata complessivamente in favore di Comune e Provincia di (omissis) tra i quali, pertanto, è sorto, in forza della sentenza, un rapporto di solidarietà attiva, ciò implicando che detta somma dovesse essere imputata a ciascuno per il 50%. Sicché la Corte avrebbe dovuto ridurre la sorte quantomeno nella misura della metà, ossia circa € 16.000,00»;
II) «Violazione e falsa applicazione degli 2 Cost., 9 del d.lgs. n. 267 del 2000, 2043, 2059 e 2697 c.c.; assenza e/o contraddittorietà della motivazione». Si rappresenta che la corte distrettuale, pur avendo riformato la pronuncia del tribunale nella parte in cui aveva riconosciuto il risarcimento del danno all’immagine, aveva condannato, poi, il Ministero dell’Interno al risarcimento del danno all’identità cittadina, così incorrendo in errore di diritto ed in una motivazione contraddittoria. Viene censurato “l’assunto di partenza da cui muove la decisione“, deducendosi che la sentenza sembra fondare la legittimazione all’azione popolare ed il diritto al riconoscimento del risarcimento del danno alla sfera esistenziale (id est, il danno all’identità personale) sul mero presupposto della “scarsa considerazione della dignità delle persone ospitate” nel (omissis)(oggi (omissis) di (omissis) (omissis) senza addurre alcun ulteriore elemento a sostegno della condanna in questione. Tanto, tuttavia, sarebbe (omissis) posto che la “scarsa considerazione delle persone ospitate” non implica una lesione alla sfera della comunità cittadina, dovendo ricorrere, invece, ulteriori condizioni, atteso che un conto è la lesione della personalità degli ospitati, altro è la lesione della sfera personale della collettività barese. Né è stato chiarito in cosa fossero consistiti il danno evento ed il danno conseguenza.
5. La prima di tali doglianze è infondata.
5.1. Essa, invero, mostra di non tenere in alcuna considerazione che la corte barese, dopo aver condiviso «la censura di incertezza e indeterminatezza mossa dagli appellanti alla sentenza impugnata, che in modo indistinguibile ha unificato problemi di ordine pubblico e sicurezza del territorio, pericolo per lo sviluppo turistico, rischio di assimilazione a realtà di segregazione, lesione dell’immagine e dell’identità», ha chiaramente affermato che «Tale errore di prospettiva non impedisce, tuttavia, il riesame dei singoli profili di danno alla luce delle argomentazioni delle parti, onde rivalutarli in modo autonomo».
È evidente, in altri termini, che oggetto della riforma della sentenza di primo grado è stato, peraltro parzialmente, il titolo del risarcimento riconosciuto al Comune di (omissis) certamente ricompreso nell’ambito del devoluto, se solo si tiene conto delle argomentazioni complessivamente poste dal tribunale, e chiaramente desumibili dalla sentenza oggi impugnata, a fondamento della condanna dal medesimo pronunciata – con il riesame dei singoli profili di danno rivalutati in modo affatto autonomo dalla corte predetta.
Pertanto, le considerazioni sui calcoli proporzionali svolti dal Ministero denotano come quest’ultimo, probabilmente, non abbia colto appieno la portata della motivazione che ha inteso censurare.
6. Il secondo motivo del ricorso in esame, invece, si rivela fondato nei soli limiti di cui appresso.
6.1. È doveroso rimarcare, innanzitutto, che la corte territoriale ha dato atto, espressamente, dell’essersi formato il giudicato interno «sulla sussistenza della giurisdizione ordinaria, sulla legittimazione degli attori popolari (e sul suo difetto quanto alla domanda di risarcimento del danno per le condizioni di trattenimento nel (omissis) sulla ritualità dell’intervento della Regione» (cfr. 6, § 9, della sentenza impugnata). Nessuna puntuale censura è stata svolta dal Ministero contro questa affermazione, sicché è precluso a questa Corte il poter ritornare su quelle questioni.
Basta solo ricordare, dunque, che:
i) gli originari attori (omissis) e (omissis) hanno promosso un’azione popolare, ai sensi dell’art. 9 del testo unico degli enti locali, che si caratterizza per il suo contenuto oggettivo, al fine, tra l’altro, di tutelare i diritti all’immagine, alla reputazione, all’identità storica e culturale (anche) del Comune di (omissis) l’azione popolare comunale consente a ciascun elettore di “far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al Comune“.
Si tratta, cioè, come puntualizzato dalla recente Cass., SU, n. 15601 del 2023, «di un’azione a carattere sostitutivo e non correttivo: non è utilizzabile al fine di rimuovere errori o irregolarità commessi in danno dell’interesse di cui l’ente è portatore, può essere esperita contro un soggetto terzo e non contro il Comune per far valere l’illegittimità di atti riferibili a detto ente, e risulta quindi ammissibile solo in caso di inerzia dell’ente locale e non qualora esso abbia provveduto. Diversamente opinando, il cittadino si verrebbe a sostituire all’espressa volontà di un ente elettivo rappresentativo della volontà dei cittadini, con un evidente vulnus del principio democratico. Il presupposto necessario dell’azione popolare di cui al citato art. 9 va rinvenuto soltanto nell’omissione, da parte dell’ente, dell’esercizio delle proprie azioni o nell’inerzia da vicariare. L’azione popolare ai sensi dell’art. 9 del testo unico non può essere diretta a contestare la validità degli atti del Comune per conto del quale si dichiara di agire. [..].
Proprio perché la posizione dell’elettore è quella sin qui descritta, occorre che l’azione e il ricorso siano volti alla tutela di posizioni giuridiche dell’ente locale (cui egli si sostituisce), nei confronti di possibili pregiudizi derivanti da azioni od omissioni di terzi, da fatti od atti compiuti da privati o anche da altre pubbliche amministrazioni. Non è, invece, possibile che l’elettore insorga, in luogo dell’ente (da lui considerato inadempiente), avverso atti adottati dall’ente medesimo, potendo in tali casi quest’ultimo, ove sussistano i presupposti, agire in autotutela, e non essendo l’azione ex art. 9 cit. (come già chiarito dalla giurisprudenza) di tipo “correttivo” [..]».
In definitiva, si è al cospetto di un’ipotesi di sostituzione processuale che trova spazio, in deroga all’art. 100 cod. proc. civ., nella lettura dell’art. 81 cod. proc. civ. («Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui») attraverso una chiara tipizzazione dell’ambito di specialità normativa prevista dal codice di rito.
Sul presupposto dell’inerzia del soggetto legittimato attivo in via principale, si fa valere in giudizio, in nome proprio, un diritto formalmente altrui, pur senza mai prospettarlo come direttamente proprio.
Nella specie, dunque, gli attori suddetti hanno utilizzato lo strumento dell’actio popularis in modo efficace, oltre che corretto, ancorché la titolarità della posizione giuridica sostanziale fosse indubbiamente in capo al Comune di (omissis).
Evidentemente, l’azione popolare non contrastava (né avrebbe potuto, secondo la giurisprudenza maggioritaria e la dottrina) con la volontà dell’ente locale sostituito, tanto è vero che il menzionato Comune si è costituito in giudizio aderendo alle conclusioni dei primi; come ancora sancito da n. 25854 del 2022 (cfr. in motivazione), «in quanto attinente alla corretta instaurazione del contraddittorio, la carenza di legittimazione ad causam, a differenza del difetto di titolarità attiva o passiva del rapporto controverso, è rilevabile anche d’ufficio, se risultante dagli atti di causa, in ogni stato e grado del giudizio, con il solo limite dell’intervenuta formazione del giudicato interno, indipendentemente dalle contestazioni sollevate dalle parti, le quali si configurano come mere difese (cfr. Cass., Sez. lav., 1/09/2021, n. 23721; Cass., Sez. V, 24/12/2020, n. 29505; Cass., Sez. III, 6/12/2018, n. 31574)».
In senso sostanzialmente conforme si veda anche Cass., SU, n. 7514 del 2022 (resa, peraltro, in fattispecie diversa e peculiare rispetto a quella oggi all’esame di questo Collegio, dove non vi era stata formazione di alcun giudicato interno sulla questione suddetta: la vicenda riguardava, infatti, una eccezione di carenza di legittimazione passiva formulata solo in appello da un soggetto rimasto contumace in primo grado), nella quale si legge (cfr. pag. 16-17) che «Il difetto di “legitimatio ad causam“, come più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, è rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità, essendo la Corte di Cassazione dotata di poteri officiosi in tutte le ipotesi in cui il processo non poteva essere iniziato o proseguito (in tal senso Cass. S.U. 9 febbraio 2012 n. 1912: «l’istituto della legittimazione ad agire o a contraddire in giudizio (legittimazione attiva o passiva) – invero – si ricollega al principio dettato dall’art. 81 cod. proc. civ., secondo cui nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, e comporta – trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza inutiliter data – la verifica, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (salvo che sulla questione sia intervenuto il giudicato interno) e in via preliminare al merito (con eventuale pronuncia di rigetto della domanda per difetto di una condizione dell’azione), circa la coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta (Cass. n. 11190 del 1995; Cass. n. 6160 del 2000; Cass. n. 11284 del 2010).».
6.2. Ancora in via preliminare, è opportuno evidenziare fin da ora che, diversamente da quanto invocato dal (omissis) (cfr. pag. 5, § D], della sua memoria ex art. 378 cod. proc. civ.), nessun giudicato interno si era formato in relazione a quanto affermato dalla sentenza del Tribunale di(omissis) circa la “violazione dell’identità storico culturale del Comune di (omissis)In proposito, infatti, è sufficiente considerare che, come emerge dalla decisione della corte distrettuale oggi impugnata, il Ministero dell’Interno, la Prefettura di (omissis) e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel loro gravame, avevano contestato, tra l’altro, la correttezza del ricorso alla sineddoche ( (omissis) (omissis) tc.) per l’individuazione del danno all’immagine; la riconduzione delle proteste degli stranieri al trattamento subito anziché al desiderio di fuga e all’insofferenza del regime di controllo; l’assenza di prova di un danno economico, ad esempio, allo sviluppo turistico; l’incertezza e indeterminatezza della quantificazione del danno, pur a fronte della riconosciuta carenza di risonanza internazionale.
È innegabili che le corrispondenti argomentazioni erano dirette proprio le ragioni della condanna risarcitoria pronunciata dal tribunale.
6.3. Giova premettere, poi, che, da tempo, la giurisprudenza di questa Corte ha raccolto il suggerimento della Consulta circa una lettura costituzionale del sistema della responsabilità civile da illecito (nella dicotomia 2043, 2059 civ.) collegando i precetti delle norme di garanzia ai valori costituzionali, specie quando trovano espressione nelle posizioni soggettive costituzionalmente protette (dai diritti umani inviolabili, come la salute, ai diritti civili e politici, sino ai diritti sociali).
6.3.1. Il metodo interpretativo seguito (condiviso ormai anche dai giudici del merito) è quello dell’interpretazione logico sistematica ed adeguatrice al precetto costituzionale (che rivela la tutela della posizione soggettiva) della norma civilistica di Questo metodo ermeneutico, se vale per la clausola generale dell’art. 2043 cod. civ., ad egual titolo vale per la clausola di garanzia del danno non patrimoniale.
6.4. Va rimarcato, altresì, che il diritto all’identità personale è venuto progressivamente a differenziarsi da altre figure (quali, per quanto qui di specifico interesse, il diritto all’immagine) per avere ad oggetto quello specifico bene-valore costituito dalla proiezione sociale della complessiva personalità del soggetto, alla base del quale si colloca l’interesse del medesimo ad essere rappresentato – nel contesto generale delle relazioni sociali – con la sua vera identità e, cioè, a non vedere modificato, offuscato o, comunque, alterato all’esterno il proprio patrimonio di valori intellettuali, ideologici, politici, etici, religiosi, sociali, umanitari etc., come già estrinsecatosi (o destinato comunque ad estrinsecarsi) nell’ambiente sociale e, ciò, secondo indici di previsione costituiti da circostanze obiettive ed univoche.
Già la risalente Cass. n. 3769 del 1985, invero, chiarì, significativamente, che «mentre i segni distintivi (nome, pseudonimo, ecc.) identificano, nell’attuale ordinamento, il soggetto sul piano dell’esistenza materiale e della condizione civile e legale e l’immagine evoca le mere sembianze fisiche della persona, l’identità rappresenta, invece, una formula sintetica per contraddistinguere il soggetto da un punto di vista globale nella molteplicità delle sue specifiche caratteristiche e manifestazioni (morali, sociali, politiche, intellettuali, professionali, ecc.), cioè per esprimere la concreta ed effettiva personalità individuale del soggetto quale si è venuta solidificando od appariva destinata, in base a circostanze univoche, a solidificarsi nella vita di relazione».
6.4.1. La riferibilità del diritto all’identità personale a soggetti diversi dalle persone fisiche nemmeno ha creato particolari perplessità in dottrina: già nel 1970, si era parlato di un diritto all’identità personale delle persone giuridiche, estensibile (sebbene con formula dubitativa) anche agli enti non dotati di personalità giuridica.
In seguito, anche sotto la spinta di una sempre crescente produzione giurisprudenziale, sia cautelare che di merito, in tema di identità di partiti politici ed altri soggetti non dotati di personalità giuridica (ad esempio, comitati promotori di referendum), si è definitivamente consolidata la tesi che anche enti non personificati sono titolari del diritto all’identità personale. Infatti, a fronte della definizione sopra offerta, ed ammessa in linea generale la possibilità che enti collettivi siano titolari di diritti della personalità, non sembrano esservi seri ostacoli concettuali a riconoscere la titolarità del diritto all’identità personale anche in capo a persone giuridiche ed enti non personificati.
È evidente, infatti, che, al pari delle persone fisiche, anche enti collettivi possono essere portatori di un progetto politico, di una linea ideologica, di un disegno culturale e quant’altro. Anzi, come pure opinatosi, nel caso di un ente “morale” o esponenziale, che persegue statutariamente determinate finalità, potrebbe addirittura risultare più agevole che per una persona fisica l’accertamento di quella «sostanza piuttosto pericolosa» che è la “verità personale“, il cui travisamento può mettere in moto tecniche di tutela, a seconda dei casi, inibitorie o risarcitorie.
Il definitivo avallo giurisprudenziale di tale tendenza si è avuto con la già citata sentenza della Corte di cassazione n. 3769 del 1985, sul cd. “caso Veronesi“: in quella sede, invero, il Supremo Collegio ebbe modo di precisare che il diritto all’identità personale spetta non solo alle persone fisiche ma anche a quelle giuridiche ed agli enti non personificati.
6.4.2. Non va sottaciuto, però, che il riconoscere l’esistenza di diritti “propri” degli enti pubblici e, conseguentemente, l’ammettere forme di risarcimento del danno non patrimoniale nel caso in cui i suddetti diritti vengano violati, impone, necessariamente, di tenere conto della peculiarità del soggetto tutelato e della conseguente diversità dell’oggetto di tutela, così da rendere non manifestamente irragionevole ipotizzare differenziazioni di tutele, sotto il profilo di un maggior rigore della dimostrazione della configurabilità, in concreto, della fattispecie risarcitoria di volta in volta astrattamente considerata, rispetto a quelle assicurate alla persona fisica.
In questa prospettiva, del resto, si è posta anche la corte territoriale nella decisione oggi in esame, come agevolmente può evincersi dal rilievo che la stessa, dopo aver condiviso «la censura di incertezza e indeterminatezza mossa dagli appellanti [Ministero dell’Interno, Prefettura di (omissis) Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ndr] alla sentenza impugnata, che, in modo indistinguibile, ha unificato problemi di ordine pubblico e sicurezza del territorio, pericolo per lo sviluppo turistico, rischio di assimilazione a realtà di segregazione, lesione dell’immagine e dell’identità», ed aver opinato che «Tale errore di prospettiva non impedisce, tuttavia, il riesame dei singoli profili di danno alla luce delle argomentazioni delle parti, onde rivalutarli in modo autonomo»:
i) ha escluso, espressamente, nella specie, la configurabilità di un danno all’immagine del Comune di (omissis)individuato mediante il ricorso alla sineddoche («È vero che ai luoghi in cui si perpetrano violazioni dei diritti della persona deriva, come rileva il Tribunale, “una normale identificazione, storicamente provata” con il territorio che li ospita, si che “sono davvero molti gli esempi di luoghi e città che sono rimasti saldamente legati in senso negativo alle strutture di costrizione e sofferenza di esseri umani che vi erano allocati”. In concreto, però, gli esempi fatti non risultano pertinenti: non solo, come è di intuitiva evidenza, quelli di (omissis) ma anche di (omissis) e (omissis). Premesso infatti che l’ardua comparazione con simili gravissimi precedenti potrebbe produrre un deprecabile effetto di minimizzazione reattiva della presente vicenda, è certo, sul piano fattuale, che nessuno in Italia o all’estero – cfr. il riferimento della sentenza impugnata (pag. 40) all’assenza di risonanza internazionale – ha mai paragonato il (omissis) di (omissis) (omissis) agli esempi citati. Peraltro, l’isola di (omissis) è da tempo nota come terra non già di maltrattamenti degli stranieri (invero occasionali) bensì di accoglienza, come avamposto di un (omissis), ed è stata proposta per il premio Nobel per la pace – mentre l’ex-sindaco (omissis) stata insignita nel 2016 del premio (omissis) Premio per la pace (omissis). Pertanto, non potendosi predicare un’identificazione immediata tra la città di (omissis) la pur deprecabile realtà di segregazione del suo (omissis)va escluso il danno correlato» (cfr. pag. 13 della sentenza impugnata);
ii) ha negato, parimenti, la predicabilità «di un danno allo sviluppo turistico di (omissis)invero molto forte prima dell’attuale pandemia e mai compromesso dall’esistenza in zona periferica del (omissis) di certo non incluso in percorsi turistici più o meno organizzati»;
iii) quanto ai «problemi di ordine pubblico e sicurezza derivanti dalla presenza di un Centro così mal gestito» (peraltro certamente da non sottovalutarsi «se solo si considerano le numerose proteste degli ospiti, non violente o con violenza sulle cose che fossero»), ha affermato non esservi prova, tuttavia, «di un concreto impatto di tali problemi sugli abitanti della periferia in cui sorgeva il Centro, magari indotti, ad es., a protestare chiedendo agli enti locali una tutela o un’attenzione rafforzate, o a lamentarne l’assenza. In mancanza di tale impatto, è esatto il rilievo degli appellanti, che Comune e Provincia non vedono la loro immagine lesa dal verificarsi di quei problemi di ordine pubblico e sicurezza, dagli enti locali in nessun modo attivo o omissivo provocati»;
iv) ha concentrato la sua indagine sul danno da lesione del “diritto all’identità” della città di (omissis)- «altra cosa rispetto all’immagine» e da intendersi «come senso di essere qualcosa di specifico, quel qualcosa che consente di cambiare rimanendo sé stessi» – in conseguenza della negazione della dignità delle persone straniere trattenute nel (omissis) il cui fondamento ha individuato nell’insieme di tutti quei valori umanitari e solidaristici rinvenibili nello Statuto comunale di quella città cui ben poteva attribuirsi valore anche giuridico.
6.4.3. È opportuno ricordare pure che il travisamento dell’identità può consistere tanto nell’attribuzione di caratteri e qualità inesistenti o diversi da quelli reali, quanto nell’omissione di elementi esistenti, siano essi migliorativi o peggiorativi purché sostanziali e non accessori. Perciò, un’eventuale alterazione può ritenersi illegittima, se incida sulla personalità, indipendentemente dalla lesione di onore, reputazione, immagine, o altro diritto personale. Non è rilevante, peraltro, l’identità intesa in senso soggettivo, come opinione che il soggetto abbia del proprio “io“, bensì in senso oggettivo, con riferimento alla personalità del soggetto normalmente percepita, o percepibile, nella realtà sociale, generale o particolare.
6.4.4. L’art. 2 della Costituzione, del resto, garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e, tra questi, vi è il diritto dell’identità, che non spetta solo alle persone fisiche, ma anche alle persone giuridiche ed alle associazioni non riconosciute (cfr. n. 23401 del 2015).
6.4.5. Non desta sorprese, quindi, il fatto che, successivamente alla suddetta pronuncia del 1986, è stato più volte enunciato da questa Corte che, anche nei confronti delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi, è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, ex 2059 cod. civ., comprensivo di qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione dei diritti immateriali della personalità, compatibile con l’assenza di fisicità e costituzionalmente protetti, quali sono il diritto al nome, all’identità storica, culturale e politica, e all’immagine dell’ente (cfr., ex aliis, Cass. n. 12929 del 2007; Cass. n. 18082 del 2013; Cass. n. 22396 del 2013; Cass. n. 23401 del 2015; Cass. n. 20643 del 2016; Cass. n. 19551 del 2023; Cass. n. 20345 del 2023).
6.5. Un siffatto pregiudizio non patrimoniale – come precisato dalla citata 12929 del 2007 (ed in senso conforme dalla più recente Cass. n. 19551 del 2023) è, dunque, da apprezzare come diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente che si esprime, per l’appunto, nella sua immagine e/o nella sua identità, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, così, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma Alteris verbis, la risarcibilità di un siffatto danno non patrimoniale è riconosciuta allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione e, fra tali diritti, rientra quello relativo all’identità personale, allorquando si verifichi la sua lesione.
In tali casi, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi e se dimostrato, è risarcibile il danno non patrimoniale costituito – come danno cd. conseguenza – dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi (cfr. Cass. n. 12929 del 2007; Cass. n. 4542 del 2012; Cass. n. 19551 del 2023).
6.5.1. A tanto deve aggiungersi che, abbandonata la originaria tesi, secondo cui la condotta lesiva era di per sé dimostrativa del pregiudizio – di natura non patrimoniale – risarcibile, questa Corte da tempo è ormai approdata, in seguito ad un complesso e travagliato percorso ermeneutico, attraverso la sussunzione della categoria dell’illecito produttivo del danno non patrimoniale ex 2059 cod. civ. nell’ambito dello schema strutturale della norma generale sull’illecito extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ., all’applicazione del criterio causale, fondato sulla relazione ««condotta materiale – evento-lesivo – conseguenza dannosa»» (artt. 1223 e 2056 cod. civ.), a qualsiasi violazione di un interesse giuridicamente suscettibile di protezione, con la conseguenza che le esigenze di prova della esistenza e dell’ammontare del danno “patrimoniale” e “non patrimoniale” si atteggiano in modo identico, a nulla rilevando, ai fini dell’accertamento delle conseguenze pregiudizievoli, la natura non economica dell’interesse che è stato leso.
Il danno non patrimoniale, costituendo anch’esso pur sempre un danno-conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, mai potendo considerarsi in re ipsa (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass., SU, n. 26972 del 2008; Cass. n. 20987 del 2007; Cass. n. 10527 del 2011; Cass. n. 13614 del 2011; Cass. n. 7471 del 2012; Cass. n. 19551 del 2023).
6.6. Orbene, nel caso di specie, come si è già anticipato, la corte distrettuale, una volta definitivamente sancita la cattiva gestione del (omissis)suddetto («In punto di responsabilità, il giudizio del Tribunale, di inidoneità del a garantire l’assistenza e la dignità degli stranieri, sottoposti a trattamento inumano e degradante, non è contestato in modo specifico: gli appellanti si limitano ad affermare, in modo apodittico, la non inadeguatezza della struttura e l’assenza di carattere detentivo»), nessuna puntuale censura, peraltro, è stata oggi formulata dal Ministero ricorrente contro questa specifica affermazione – ha ritenuto concretamente configurabile, nella specie, un danno non già all’immagine del Comune (e della Provincia) di (omissis) ma da lesione dell’identità cittadina (diversa, appunto, dall’appena menzionato diritto all’immagine) solo di detto comune – da intendersi «come senso di essere qualcosa di specifico, quel qualcosa che consente di cambiare rimanendo sé stessi» – in conseguenza della negazione della dignità delle persone straniere trattenute nel (omissis) ed il cui fondamento ha individuato nell’insieme di tutti quei valori, umanitari e solidaristici, rinvenibili nello Statuto comunale di quella città cui ben poteva attribuirsi valore anche giuridico.
6.6.1. Quella corte, in altri termini, per effetto, intuibilmente, del combinato disposto degli 2059 cod. civ. e 114 Cost., ha considerato risarcibile il danno non patrimoniale subito dal Comune di (omissis) il quale avrebbe avuto piena legittimazione e titolo ad esigerne il risarcimento, così da rendere possibile, ai sensi dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000, la corrispondente azione originariamente intrapresa, in sua vece, dal (omissis) e dal (omissis) in conseguenza della negazione della dignità delle persone straniere trattenute nel (omissis) in ragione delle condizioni estremamente degradate in cui esse erano ivi trattenute, ravvisandone il corrispondente fondamento nell’insieme dei valori, umanitari e solidaristici, rinvenibili nello Statuto comunale di quella città cui ha attribuito valore anche giuridico: in sostanza, in qualità di ente territoriale esponenziale, il Comune predetto aveva subìto la lesione del diritto alla sua identità storica, culturale, politica e sociale, costituzionalmente protetta (art. 114 Cost.).
6.7. In proposito, osserva, innanzitutto, il Collegio che, come sancito, in motivazione, da , SU, n. 12868 del 2005, nell’attuale quadro costituzionale, lo statuto comunale «si configura, come la dottrina è generalmente orientata a ritenere, come atto formalmente amministrativo, ma sostanzialmente come atto normativo atipico, con caratteristiche specifiche, di rango paraprimario o subprimario, posto in posizione di primazia rispetto alle fonti secondarie dei regolamenti e al di sotto delle leggi di principio, in quanto diretto a fissare le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente ed a porre i criteri generali per il suo funzionamento, da svilupparsi in sede regolamentare [..]. Ne risulta così accentuata l’immanenza della potestà statutaria al principio di autonomia sancito dall’art. 5 Cost. e la configurazione dello statuto come espressione della esistenza stessa e della identità dell’ordinamento giuridico locale». Il rapporto tra fonte legislativa e statutaria, dunque, è ricomposto tramite il ricorso al criterio della gerarchia, limitatamente però ai principi, ed a quello della competenza in rapporto a tutte le altre disposizioni di legge.
6.7.1. Quella stessa pronuncia, peraltro, stabilì che «La conoscenza dello statuto del Comune, atto a contenuto normativo di rango paraprimario o subprimario, appartiene, in considerazione anche della forma di pubblicità cui tale fonte è soggetta, alla scienza ufficiale del giudice, il quale è pertanto tenuto – in applicazione del principio iura novit curia, discendente dall’art. 113 proc. civ. – a disporne l’acquisizione, anche d’ufficio, ed a farne applicazione ai fatti sottoposti al suo esame, pur prescindendo dalle prospettazioni delle parti».
6.7.2. È opportuno rimarcare, allora, che il vigente Statuto della “Città di (omissis) (approvato con deliberazione di Consiglio comunale 226 del 21 dicembre 2000, ed aggiornato con successive deliberazioni del medesimo Consiglio, l’ultima delle quali 63 del 22 ottobre 2015), nel dettare, al Titolo 1, i Principi generali, definisce, all’art. 1, (omissis) come “comunità aperta“, prevedendo, tra l’altro, che:
“1. La città di (omissis) capoluogo della Regione (omissis) una comunità aperta a uomini e donne, anche di diversa cittadinanza e apolidi.
2. (omissis) luogo tradizionale di incontri e di scambi ha la vocazione di legare civiltà, religioni e culture diverse, in particolare quelle del Levante e quelle Europee“. Il successivo art. 3, inoltre, elenca i Principi fondamentali, tra i quali è utile ricordare, per quanto di specifico interesse in questa sede, almeno quelli di cui ai punti 2 (il Comune “Sostiene e promuove l’affermazione dei diritti umani, la cultura della pace, della cooperazione internazionale e dell’integrazione etnico- culturale, ispirandosi ai principi dell’unità e dell’integrazione dell’Unione Europea“) e 8 (il Comune “Tutela e valorizza le diverse realtà etniche, linguistiche, culturali, religiose e politiche presenti nella città, rifacendosi ai valori della solidarietà e dell’accoglienza, in conformità alle tradizioni storiche della città e alla sua vocazione di città aperta“).
6.7.3. È innegabile, peraltro, che, come condivisibilmente opinato dalla corte territoriale, queste affermazioni di valori «non possono avere una portata solo retorica o di richiamo a trascorsi storici più o meno illustri e [..] In generale, i richiami storici e teleologici contenuti in un testo normativo sono privi di immediato valore precettivo ma, se specifici, costituiscono un criterio sia di interpretazione di atti e condotte che di individuazione dell’identità di un ente»
6.8. Tanto premesso, ed in chiave generale di sistemazione teorica, una tipologia di danno come quello configurato, nella sentenza oggi impugnata, dalla corte distrettuale, si rivela essere, chiaramente, il frutto dell’emergere della coscienza partecipativa del singolo alle vicende della comunità in cui vive e deve considerarsi come un portato irreversibile del progresso giuridico e civile.
Esso viene essenzialmente ad identificarsi con il nocumento subito da una comunità sostanziale (ravvisabile nell’endiadi popolazione-territorio) in conseguenza di fatti illeciti particolarmente gravi e di grande impatto sociale allorquando gli stessi (oltre che intaccare, eventualmente, gli elementi – funzione, buon nome, patrimonio – della personalità giuridica dell’ente) incidano direttamente sulla posizione della comunità stessa, in ragione del pregiudizio arrecato a tutti quei valori cui, storicamente e tradizionalmente, essa si ispira.
6.8.1. L’emersione del diritto all’identità cittadina, dunque, si rivela essere conseguenza diretta dell’evoluzione generale dell’ordinamento e dell’affermarsi del sempre più diffuso solidarismo, dove il sistema dei media nella comunicazione crea realtà e valori nuovi, suscettibili di essere profondamente incisi da fatti che, in un diverso contesto economico e sociale, avrebbero potuto essere certamente meno dannosi per la comunità.
6.8.2. Pure in quest’ottica, tuttavia, è doveroso rimarcare, proprio nella prospettiva, già segnalata, secondo cui il riconoscere l’esistenza di diritti “propri” degli enti pubblici e, conseguentemente, l’ammettere forme di risarcimento del danno non patrimoniale nel caso in cui i suddetti diritti vengano violati, impone di tenere necessariamente tenere conto della peculiarità del soggetto tutelato e della conseguente diversità dell’oggetto di tutela, così da rendere non manifestamente irragionevole ipotizzare differenziazioni di tutele, sotto il profilo di un maggior rigore della dimostrazione della fattispecie risarcitoria di volta in volta considerata, rispetto a quelle assicurate alla persona fisica.
Tanto anche al fine di scongiurare il potenziale proliferare di analoghi contenziosi risarcitori vertenti su pretese violazione di ulteriori valori rinvenibili nelle diversità caratterizzanti ciascuno statuto di ogni comune o di altro ente collettivo che la sola lesione di valori coincidenti con quelli enunciati in siffatti statuti (per quanto di specifico interesse, quelli, già riportati, descritti negli artt. 1 e 3 dello Statuto della Città di (omissis) non può essere, sic et simpliciter, sufficiente a giustificare pretesi risarcimenti, occorrendo, a tal fine, anche altro: vale a dire la dimostrazione – da intendersi disciplinata dalle regole di cui all’art. 2697 cod. civ. – di come una simile violazione, se (come nella specie) effettivamente e definitivamente accertata, abbia realmente inciso, poi, sull’intera comunità cittadina.
In altri termini, quali concrete ripercussioni essa abbia prodotto effettivamente sul sentimento e sull’agire di quest’ultima ispirati a tutti quei valori, umanitari e solidaristici, oltre che costituzionalmente protetti, costituenti, appunto, patrimonio della comunità stessa, riconducibili alla sua identità storica, culturale, politica e sociale, come espressamente sanciti nel suo Statuto.
Solo una volta raggiunta tale dimostrazione, dunque, la liquidazione di un siffatto danno in favore del Comune (appunto quale ente collettivo rappresentativo di quella comunità) così concretamente accertato nell’an, ben potrà essere anche equitativa, indicandosi le circostanze di fatto a tal fine considerate e l’iter logico che ha condotto a quel determinato risultato, in modo da pervenire ad una determinazione del quantum congruente rispetto al caso oggetto di cognizione, ossia non arbitraria.
6.9. Nell’odierna vicenda, invece, l’errore giuridico perché, praticamente, incidente proprio sulla completezza di quella relazione ««condotta materiale – evento- lesivo – conseguenza dannosa»» (artt. 1223 e 2056 civ.) ormai necessariamente da ricercarsi in qualsiasi violazione (artt. 2043 e 2059 cod. civ.) di un interesse giuridicamente suscettibile di protezione, a nulla rilevando, ai fini dell’accertamento delle conseguenze pregiudizievoli, la natura non economica dell’interesse che è stato leso ascrivibile dalla corte distrettuale è stato quello, sostanzialmente, di essersi arrestata all’accertata mera lesione di valori coincidenti con quelli proclamati dalla Statuto della città di (omissis)in ciò individuando – con un chiaro salto logico – anche la ritenuta lesione dell’identità della città di (omissis) senza, tuttavia, indagare e spiegare come la prima di tali dette lesioni abbia concretamente inciso (al fine di realizzare la seconda) sul sentimento dell’intera comunità cittadina così da giustificare il riconoscimento del corrispondente danno sebbene come equitativamente quantificato.
E ciò, tra l’altro, proprio tenendo conto di quanto si è già sopra riferito al § 6.4.3., dove si sono ricordate le varie possibili fenomenologie che può conoscere il cd. travisamento dell’identità personale dell’ente-comunità.
6.9.1. In questi soli limiti, dunque, il motivo in esame può essere accolto, derivandone la cassazione, in parte qua, della sentenza impugnata ed il rinvio alla Corte di appello di (omissis) in diversa composizione, per il nuovo corrispondente esame.
7. Venendo, a questo punto, all’esame dei motivi del ricorso dell’Avv. (omissis), gli stessi denunciano, rispettivamente:
I) «In relazione 360, comma 1, n. 4, c.p.c.: violazione dell’art. 112 c.p.c.». Si rappresenta che, nell’atto di appello incidentale, gli attori popolari impugnarono la declaratoria di inammissibilità della domanda di chiusura del(omissis) di (omissis) chiedendo, preliminarmente, a norma dell’art. 342, comma 1, n. 1, cod. proc. civ., la modifica, nei sensi ivi riportati, della parziale ricostruzione del fatto operata dal primo giudice. La corte barese, tuttavia, aveva omesso di pronunciare sulla corrispondente domanda;
II) «In relazione 360, comma 1, n. 4, c.p.c.: violazione delliart. 112 c.p.c.». Si assume che, con altro motivo di appello incidentale, gli attori popolari avevano dedotto che il Tribunale di (omissis) veva omesso di pronunciare sulle seguenti domande da loro ritualmente introdotte:
«A) Accertare e dichiarare che il Centro di Identificazione e di Espulsione sito nel territorio della città di (omissis) sul sedime adiacente a quello della Scuola Allievi della Guardia di Finanza [..], è una struttura di detenzione di esseri umani;
B) Accertare e dichiarare che nel Centro di Identificazione e di Espulsione sito nel territorio della città di(omissis) manca un Presidio del Servizio Sanitario Nazionale a tutela dell’integrità fisica e psichica delle persone ivi ristrette;
C) Accertare e dichiarare che le Linee Guida per la progettazione dei “Centri di Identificazione e di Espulsione”, redatte, in data aprile 2009, dal Comitato Tecnico Consultivo del Capo Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, costituiscono mera proposta mai recepita dai competenti organi deliberanti della pubblica amministrazione statale;
D) Accertare e dichiarare, per effetto di tanto, che le Linee Grida di cui al superiore capo C) sono giuridicamente inesistenti e/o inefficaci;
E) Accertare e dichiarare che la reclusione delle persone nel (omissis) di (omissis) secondo le rilevate caratteristiche di tipo carcerario, integrano condotta materiale lesiva dei diritti universali dell’uomo;
F) Accertare e dichiarare che il trattamento delle persone ristrette nel (omissis) di (omissis) viola, oltre che le carte fondamentali dei diritti dell’uomo, anche gli standards minimi di vivibilità per i detenuti stabiliti dalla normativa interna e comunitaria e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sì come richiamata dal Ministero della Giustizia della Repubblica Italiana con la circolare GDAP – 0308424- 2009 del 25.08.2009 in conformità alla Raccomandazione Rec(2006)2 rivolta dal Comitato dei Ministri agli Stati membri; [..];
G) in subordine, senza recesso e salvo gravame, condannare la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente p.t., il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., e la Prefettura di (omissis) Ufficio Territoriale del Governo, in persona del Prefetto p.t., anche in solido tra loro: alla esecuzione di tutte le opere edilizie necessarie indicate dal CTU nella pregressa fase di istruzione preventiva; alla realizzazione dei necessari presidi socio- sanitari del SSN, con preposizione di personale dipendente qualificato; alla eliminazione di ogni forma di detenzione carceraria dei migranti». La corte distrettuale, benché espressamente richiestane, non aveva pronunciato su queste domande;
III) «In relazione 360, comma 1, n. 4, c.p.c.: violazione degli artt. 153 e 190 stesso testo tenuto conto dell’art. 161, comma 1, c.p.c.», per avere la corte barese fondato la decisione processuale di cessazione della materia del contendere su alcune domande degli attori popolari utilizzando documenti spillati dal Ministero dell’Interno alla memoria di replica in primo grado del 28 aprile 2016, mai autorizzati dal primo giudice dopo lo spirare dei termini perentori di cui all’art. 153 cod. proc. civ.;
IV) «In relazione all’art. 360, comma 1, 3, c.p.c.: violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 100 stesso testo. Violazione dell’art. 183, comma 6, nn. 2-3, c.p.c. in relazione agli artt. 153 e 190 stesso testo», per avere la corte di merito dichiarato cessata la materia del contendere sulla domanda di chiusura del (omissis)di (omissis) dando per accertato un fatto privo di ogni prova ritualmente acquisita al processo;
V) «In relazione all’art. 360, comma 1, 3, c.p.c.: violazione degli artt. 24 e 113 della Carta Costituzionale in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU ed all’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea». Si contesta alla corte distrettuale di aver dichiarato la predetta cessazione della materia del contendere in assenza dei presupposti legali per siffatta pronuncia processuale, sicché, in parte qua, la sentenza impugnata si era tradotta, di fatto, in un sostanziale diniego di giustizia.
8. La prima di tali doglianze è inammissibile.
8.1. Invero, il principio contenuto nell’art. 100 proc. civ., secondo il quale per proporre una domanda o per resistere ad essa è necessario avervi interesse, si applica anche al giudizio di impugnazione, in cui l’interesse ad impugnare una data sentenza o un capo di essa va desunto dall’utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e non può consistere nella sola correzione della motivazione della sentenza impugnata ovvero di una sua parte (cfr. Cass. n. 28307 del 2020; Cass. n. 3991 del 2020; Cass. n. 2670 del 2020; Cass. n. 1236 del 2012; Cass., SU, n. 12637 del 2008).
Non è pertanto sufficiente l’esistenza di un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata e che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte (cfr. Cass. n. 28307 del 2020; Cass., SU, n. 12637 del 2008; Cass. n. 13373 del 2008).
8.1.1. Deve ritenersi, dunque, normalmente escluso l’interesse della parte vittoriosa ad impugnare la sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della motivazione ove non sussista la possibilità, per la parte che l’ha fatta, di conseguire un risultato utile e giuridicamente apprezzabile.
8.1.2. Va considerato, invece, sussistente l’interesse all’impugnazione qualora la pronuncia contenga una statuizione contraria all’interesse della parte medesima nel senso che, quale premessa necessaria della decisione, sia suscettibile di formare il giudicato (cfr. n. 11180 del 1996).
8.2. Come più volte affermato da questa Corte, il giudicato si forma, oltre che sull’affermazione o negazione del bene della vita controverso, sugli accertamenti logicamente preliminari e indispensabili ai fini del decisum, mentre non comprende le enunciazioni puramente incidentali e, in genere, le considerazioni estranee alla controversia, che, in quanto eccedenti la necessità logico giuridica della decisione, devono considerarsi un obiter dictum, come tale non vincolanti (cfr. n. 28307 del 2020; Cass. n. 3793 del 2019; Cass. n. 1815 del 2012).
8.3. Alla stregua dei riportati princìpi, che il Collegio condivide ed intende ribadire, ne consegue, allora, la inammissibilità della censura in esame perché concernente la mera ricostruzione fattuale di vicende processuali, evidentemente insuscettibili, come tali, di passare in giudicato.
Né è dato sapere, alla luce delle scarne informazioni ricavabili, sul punto, dal motivo di ricorso di cui si discute, se il tribunale ebbe a dichiarare «inammissibile la domanda relativa alla chiusura del (omissis) di (omissis) per intervenuta carenza di interesse ad agire» proprio ed esclusivamente in forza della documentazione (peraltro sicuramente formatasi successivamente alla scadenza dei termini di cui all’art. 183, comma 6, cod. proc. civ.) che si assume essere stata allegata dal Ministero dell’Interno alla propria memoria di replica ex art. 190 cod. proc. civ., e non anche di altra. Non vi è prova, quindi, dell’utilità giuridica, e non di mero fatto, in parte qua, della impugnazione del (omissis) (omissis).
9. Il secondo motivo del ricorso di quest’ultimo è, invece, infondato.
9.1. Si è già riferito, infatti (cfr. 2.2.1. dei “Fatti di causa“), che la corte territoriale:
i) ritenne pacifico – con accertamento di natura evidentemente fattuale qui non ulteriormente sindacabile se non sotto il profilo motivazionale e nei ristretti limiti in cui il vigente art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., tuttora lo consentirebbe. Nessuna censura in tal senso, tuttavia, è stata puntualmente formulata dal (omissis) che «al momento della decisione impugnata, il (omissis) di (omissis) era chiuso dal 2016 e che non erano noti né il se né il quando dell’eventuale riapertura»;
ii) opinò, pertanto, che, in quel momento, «difettava l’interesse attuale a richiedere sia la sua chiusura che la stessa esecuzione delle opere necessarie alla sua migliore funzionalità. Né oggi l’eventuale permanere, dopo la riapertura del novembre 2017, delle criticità rilevate in passato dai c.t.u. può affermarsi senza una nuova specifica istruttoria, che allungherebbe in modo imprevedibile i tempi del processo e finirebbe con l’eludere, in parte qua, il doppio grado di giurisdizione previsto per legge, surrogato solo in appello di fatti nuovi sopravvenuti. La domanda di chiusura della struttura e di esecuzione di opere, riproposte con gli appelli incidentali, non sono quindi esaminabili»;
iii) aggiunse che, «in punto di responsabilità, il giudizio del Tribunale, di inidoneità del (omissis) a garantire l’assistenza e la dignità degli stranieri, sottoposti a trattamento inumano e degradante, non è contestato in modo specifico: gli appellanti si limitano ad affermare, in modo apodittico, la non inadeguatezza della struttura e l’assenza di carattere detentivo»;
iv) rimarcò, infine, che «La discussione tra le parti ha ampiamente riguardato la natura detentiva, o meno, dei (omissis) (o attuali(omissis) problema la cui astrattezza il Tribunale ha sottolineato, evidenziando che oggetto della causa è stabilire se la concreta gestione, come detto sicuramente inadeguata, abbia, o meno, provocato danni agli enti La Corte concorda col Tribunale sull’irrilevanza della classificazione giuridica [..]. La questione della natura detentiva dei Centri risulta ormai superata, essendo stata introdotta dapprima di fatto, e poi di diritto, una sorta di detenzione amministrativa poco tipizzata o tipizzabile. [..]. In una siffatta situazione, che pure deriva, in ultima analisi, dalla legge e dalla normativa eurounitaria, lo Stato deve fare di tutto non solo per limitare la permanenza nei Centri allo stretto indispensabile, ma anche renderla comprensibile ed umanamente tollerabile. Ciò che, all’evidenza, non è avvenuto nel caso in esame, sicché non può che trovare risposta affermativa la questione della sussistenza del fatto colposo grave, omissivo o commissivo che sia, rilevante ai sensi delliart. 2043 c.c.».
9.2. È, dunque, affatto ragionevole ritenere che, così complessivamente argomentando, la corte distrettuale abbia inteso pronunciarsi, magari anche solo implicitamente, sulle domande del cui preteso mancato esame oggi si duole il (omissis) dovendosi qui ricordare che, per costante giurisprudenza di legittimità:
i) ricorre il vizio di omessa pronuncia qualora sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, il che si verifica quando il giudice non decide su alcuni dei capi della domanda, che siano autonomamente apprezzabili (cfr., ex multis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 5730 del 2020; Cass. n. 22177 del 2019; Cass. n. 6876 del 1992), ovvero sulle eccezioni proposte, ovvero quando pronuncia solo nei confronti di alcune parti (cfr. Cass. n. 5730 del 2020; Cass. n. 8266 del 1997; Cass. n. 4377 del 1976). Il richiamo alle argomentazioni, ragioni o motivi esposti per ottenere un provvedimento giurisdizionale è estraneo, invece, al vizio in oggetto poiché il vizio di “omessa pronuncia” si concreta nel difetto del momento decisorio, mentre il mancato o insufficiente esame delle argomentazioni delle parti, eventualmente svolte nei motivi di appello, può integrare un vizio di natura diversa relativo all’attività svolta dal giudice per supportare l’adozione del provvedimento, senza che possa ritenersi mancante il momento decisorio (cfr. Cass. n. 5730 del 2020; Cass. n. 22177 del 2019; Cass. n. 3388 del 2005);
ii) non ricorre il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto (cfr., in termini, Cass. n. 15255 del 2019. In senso sostanzialmente conforme, si vedano anche, ex aliis, Cass. n. 20718 del 2018; Cass. n. 2153 del 2020; Cass. n. 2151 del 2021).
10. Il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso del (omissis) scrutinabili congiuntamente perché chiaramente connessi, si rivelano insuscettibili di accoglimento nel loro complesso.
10.1. Si è già detto, invero, respingendosi il suo primo motivo, che non è dato sapere, alla luce delle scarne informazioni ricavabili, sul punto, anche dai motivi di ricorso di cui si discute, se il tribunale ebbe a dichiarare «inammissibile la domanda relativa alla chiusura del (omissis) di (omissis) per intervenuta carenza di interesse ad agire» proprio ed esclusivamente in forza della documentazione (peraltro sicuramente formatasi successivamente alla scadenza dei termini di cui all’art. 183, comma 6, cod. proc. civ.) che si assume essere stata allegata dal Ministero dell’Interno alla propria memoria di replica ex art. 190 cod. proc. civ., e non anche di altra.
10.2. La corte territoriale, inoltre, ha stabilito – con accertamento di natura evidentemente fattuale qui non ulteriormente sindacabile se non sotto il profilo motivazionale e nei ristretti limiti in cui il vigente 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., tuttora lo consentirebbe.
Nessuna censura in tal senso, tuttavia, è stata puntualmente formulata dal (omissis) che, «al momento della decisione impugnata, il (omissis) i (omissis) era chiuso dal 2016 e che non erano noti né il se né il quando dell’eventuale riapertura», sicché, «difettava l’interesse attuale a richiedere sia la sua chiusura che la stessa esecuzione delle opere necessarie alla sua migliore funzionalità».
L’odierno assunto del ricorrente suddetto per cui dalla documentazione allegata dal Ministero dell’Interno alla propria memoria di replica ex art. 190 cod. proc. civ. sarebbe stata desumibile soltanto l’avvenuta risoluzione della convenzione con l’ente gestore, non anche la chiusura del menzionato (omissis)non è decisiva, ad avviso di questo Collegio, posto che, come si è già evidenziato, non è dato sapere, stando alle informazioni ricavabili, sul punto, anche dai motivi di ricorso di cui si discute, se la corte distrettuale utilizzò soltanto quella documentazione per giungere alla pronuncia di inammissibilità della domanda relativa alla chiusura del(omissis) di (omissis) («per intervenuta carenza di interesse ad agire»), oppure anche altre risultanze istruttorie acquisite agli atti.
10.3. La stessa corte, peraltro, ha aggiunto che «l’eventuale permanere, dopo la riapertura del novembre 2017, delle criticità rilevate in passato dai c.t.u.» non avrebbe potuto affermarsi «senza una nuova specifica istruttoria, che allungherebbe in modo imprevedibile i tempi del processo e finirebbe con l’eludere, in parte qua, il doppio grado di giurisdizione previsto per legge, surrogato solo in appello di fatti nuovi sopravvenuti».
10.3.1. Tale ratio decidendi, evidentemente autonoma rispetto alla prima affermazione della corte territoriale circa l’accertata chiusura, al momento della decisione di primo grado, del (omissis) i (omissis) (omissis) senza che fossero noti il se e/o il quando dell’eventuale sua riapertura, è stata oggetto della censura di cui al quinto motivo di ricorso del (omissis).
10.3.2. La relativa doglianza, tuttavia, si rivela inammissibile alla stregua del principio secondo cui, ove la corrispondente motivazione della sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata sul punto, l’omessa o infruttuosa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata oppure contestata infruttuosamente, non potrebbe produrre in alcun caso l’annullamento, in parte qua, della sentenza (cfr., ex multis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 4355 del 2023; Cass. n. 4738 del 2022; Cass. n. 22697 del 2021; Cass., SU, n. 10012 del 2021; Cass. n. 3194 del 2021; Cass. n. 15075 del 2018; Cass. n. 18641 del 2017; Cass. n. 15350 del 2017).
11. In conclusione, dunque, il ricorso del Ministero dell’Interno deve essere accolto, nei soli limiti di cui si è detto, esclusivamente quanto al suo secondo motivo, respingendosene il primo, mentre va rigettato, nel suo complesso, il ricorso dell’Avv. (omissis) (omissis) a sentenza impugnata, pertanto, deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata alla Corte di appello di (omissis) in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e per la regolazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
11.1. Deve darsi atto, infine, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata sul relativo ricorso, sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del (omissis) di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il suo ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre «spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento».
PER QUESTI MOTIVI
La Corte, riuniti i ricorsi ex art. 335 cod. proc. civ., accoglie il secondo motivo di quello del Ministero dell’Interno, nei limiti di cui in motivazione, respinto il primo.
Rigetta il ricorso dell’Avv. (omissis) (omissis).
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di (omissis) in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame della questione devoluta e per la regolazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del (omissis) dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il suo ricorso, giusta il comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 14 settembre 2023.
Il Consigliere estensore Il Presidente
Dott. Eduardo Campese Dott. Francesco Antonio Genovese
Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2023.