Il pubblico dipendente che si rende responsabile di truffa, non è tenuto a risarcire il danno patito dalla Pubblica Amministrazione (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 11 dicembre 2020, n. 35447).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAGO Geppino – Presidente –

Dott. PELLEGRINO Andrea – Consigliere –

Dott. SGADARI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CIANFROCCA Pierluigi – Rel. Consigliere –

Dott. MESSINI D’AGOSTINI Piero – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti nell’interesse di:

Ventre Silvana, nata a xxxxxxxxx il xx.xx.19xx;

e di:

Volpinari Cavicchi Tamara, nata a xxxxxxxx il xx.xx.19xx;

contro la sentenza della Corte di Appello di Bologna del 16.11.2018;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Pierluigi Cianfrocca;

udito il PM, nella persona del sostituto procuratore generale Dott. Alfredo Pompeo Viola, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi;

uditi gli Avv.ti Nicola Mazzacuva e Mario Marcuz, nell’interesse, rispettivamente, di Silvana Ventre e di Tamara Cavicchi Volpinari, che hanno concluso per l’accoglimento dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 18.7.2016, il Tribunale di Bologna aveva riconosciuto Silvana Ventre e Tamara Volpinari Cavicchi responsabili dei fatti di reato loro rispettivamente ascritti (ovvero degli episodi di allontanamento ingiustificato dal posto di lavoro descritti al capo B per la prima ed al capo E per la seconda) ed aveva pertanto condannato la Ventre alla pena di anni 1 di reclusione ed Euro 1.000 di multa e la Volpinari Cavicchi alla pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione ed Euro 1.300 di multa oltre al pagamento delle spese processuali, pene per entrambe condizionalmente sospese; aveva inoltre condannato le imputate al risarcimento dei danni patiti dalla costituita parte civile rimettendone la liquidazione nella sede competente e nel contempo disponendo il pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 4.000 per la Ventre e di Euro 6.000 per la Volpinari Cavicchi; aveva infine liquidato le spese di costituzione e di assistenza;

2. la Corte di Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha assolto la Ventre per insussistenza del fatto in relazione agli episodi del 6.3.2003, del 4.3.2013, del 20.3.2013 e del 29.5.2013 e la Volpinari Cavicchi, per la stessa ragione, per gli episodi del 28.2.2013, dell’8.5.2013, del 22.5.2013 del 5.6.203 e del 21.6.2013; ha pertanto rideterminato la pena in anni 1 di reclusione ed Euro 800 di multa per la Ventre ed in anni 1 e mesi 3 di reclusione ed Euro 1.100 di multa per la Volpinari Cavicchi e ridotto la provvisionale nella misura di Euro 3.700 per la prima ed Euro 5.500 per la seconda; ha confermato, nel resto, la sentenza impugnata con condanna alla rifusione delle spese sostenute dalla costituta parte civile nel grado;

3. ricorrono per cassazione i difensori di entrambe le imputate lamentando:

3.1 l’Avv. Nicola Mazzacuva per la Ventre: 3.1.1 inosservanza degli artt. 124, 177, 182 comma 2, 191, 235, 247 comma ibis, 348 e 354 comma 2 cod. proc. pen., 8 della legge 18.3.2008 n. 48; mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione sulla asserita violazione di tali norme procedurali: rileva che la Corte di Appello, replicando lo stesso errore in cui era caduto il Tribunale, ha ritenuto i fogli mensili di presenza alla stregua di una prova documentale piuttosto che di una prova informatica; sottolinea, a tal proposito, che certamente i fogli mensili di presenza rappresentano dati frutto della elaborazione di un sistema informatico dei dati acquisiti su “imput” del “badge” di ciascun dipendente e pertanto perfettamente rientranti nella nozione di “sistema informatico” adottato dalla Convenzione del Consiglio di Europa di Budapest del 2001 sulla criminalità informatica; sottolinea il carattere non già meramente programmatico ma cogente delle disposizioni dettate in materia di acquisizione di dati informatici in quanto funzionali a garantire la conformità dei dati estratti ed acquisiti rispetto a quelli effettivamente elaborati dal sistema; rileva, pertanto, l’erroneità delle considerazioni svolte dalla Corte territoriale in punto di attendibilità dei dati in questione;

3.1.2 inosservanza degli artt. 60, 99, 124, 192, 230, 233, 234bis, 327bis, 366, 501 comma 2, 598, 604 comma 5, 530, 533 e 546 cod. proc. pen. e difetto di motivazione su specifiche censure articolate in appello con riferimento al tema dell'”handover”; mancato accesso dei consulenti della difesa al sistema informatico “Sfera”; necessità di improntare le indagini a criteri scientifici rigorosi; contraddittorietà e illogicità della motivazione in quanto fondata su “conoscenze notorie”: riporta due passi della sentenza impugnata (relativi all’aggancio della cella telefonica non necessariamente più vicina ma, nel contempo, altrettanto necessariamente non troppo lontana) segnalandone la contraddittorietà in quanto fondati sulla supposta esistenza di conoscenze diffuse e sul fatto notorio che non possono ritenersi invece riguardare l’effettivo funzionamento del c.d. “handover” dovendo comunque darsi per pacifico che un telefono non aggancia sempre la “cella” più vicina ma quella che consente la migliore trasmissione del segnale; segnala la considerazione della Corte di Appello sull’estensione dell’area di operatività di una cella quale indicata dai consulenti sottolineando come i giudici del gravame avessero omesso la considerazione di un dato pure indicato nelle relazioni; ribadisce, quindi, la mancanza di ogni rigore scientifico nelle valutazioni della Corte contrastanti con dati acquisiti dalla letteratura del settore; mancando di esaminare il dato dell'”handover”, rileva che la sentenza si fonda in realtà su mere congetture e ragionamenti ipotetici;

3.1.3 inosservanza degli artt. 124, 189, 192, 234 e ssgg., 598, 604 comma 5, 530, 533 e 546 cod. proc. pen. nonché vizio di motivazione nella parte in cui non viene considerato lo “scarto temporale” tra l’orologio della Prefettura e quello del gestore telefonico; segnala la contraddittorietà della motivazione che, per un verso, ha considerato irrilevante lo scarto temporale tra l’orologio della Prefettura e quello dell’operatore telefonico e, dall’altro, lo ha invece considerato rilevante per ritenere insussistenti alcune delle contestazioni; segnala che i consulenti avevano quantificato questo scarto in 4 minuti, ovvero in termini in assoluto non certo irrilevanti; osserva che la Corte è pervenuta alla conferma della penale responsabilità dell’imputata sulla base di considerazioni contrastanti con qualsivoglia parametro di realtà empirica risultando, ad esempio, che in alcuni episodi gli agganci delle celle telefoniche finirebbero per disegnare degli spostamenti troppo veloci e repentini incompatibili con il traffico cittadino e le limitazioni imposte nel centro storico di Bologna; segnala che la Corte non ha chiarito nemmeno con quale mezzo la ricorrente si muovesse; espone alcuni esempi di spostamenti che, stando alle celle impegnate, sarebbero del tutto inverosimili per i tempi; richiama l’episodio del 21.2.2013 spiegando che non era stato considerato lo scarto temporale di 4 minuti tra i due sistemi di rilevamento orario e che avrebbe imposto anche in tal caso, come in altri, l’applicazione del principio del “favor rei”; denunzia l’irrazionalità della decisione in cui, talvolta, la Corte è pervenuta alla assoluzione proprio sulla possibilità di un c.d. “handover” tra celle del centro storico e celle immediatamente confinanti non pervenendo tuttavia alle medesime conclusioni quanto all’episodio del 13.3.2013, con una motivazione illogica e contrastante con le premesse; svolge analoghe considerazioni quanto all’episodio n. 11 dove la responsabilità dell’imputata è stata affermata sulla scorta di una chiamata di 2 minuti prima della timbratura e di una seconda chiamata di 8 di minuti dopo la cessazione dell’orario di ufficio; sottolinea, dunque, come la ricostruzione offerta dalla Corte mostra la mancanza di una probabilità statistica come anche di una probabilità logica profilandosi l’esistenza di un dubbio non irragionevole che avrebbe dovuto indirizzare verso la assoluzione della ricorrente tenuto conto che, dal punto di vista logico, la prova della colpevolezza non può dirsi nel caso di specie fondata sull’ausilio di leggi scientifiche alla luce delle peculiarità del caso concreto, come richiesto dalla giurisprudenza della Corte che, per altro verso, esclude la portata probatoria piena della c.d. “geolocalizzazione”;

3.1.4 inosservanza degli artt. 42, 43 e 640 cod. pen., 124, 192, 194 e ssgg., 530, 533, 539 e 546 cod. proc. pen., 17 comma 30ter del DL 78/2009 convertito in I. 25 marzo 2010 n. 97; difetto di valutazione delle risultanze del procedimento disciplinare, contraddittorietà ed illogicità tra gli esiti della decisione e le prove testimoniali acquisite: rileva che la decisione assunta dalla Corte di Appello non ha affrontato il profilo del “danno ingiusto” alla luce della pacifica archiviazione del procedimento disciplinare che non può essere sminuito sulla sola considerazione, di natura formale, della indifferenza procedurale tra i due ambiti; richiama ancora gli esiti del procedimento disciplinare sottolineando come nessuna prova sia stata offerta circa la diminuzione o alterazione del servizio cui la ricorrente era preposta tenuto conto che costei era impegnata in una attività a diretto contatto con il pubblico e non considerando la testimonianza della propria collega; quanto alle statuizioni civilistiche, censura la sentenza impugnata per essersi discostata dalla giurisprudenza della S.C. che confina l’azione per il risarcimento dei danni alla immagine ai soli delitti contemplati nel capo I, titolo II, del libro II del codice penale.

3.2 l’Avv. Mario Marcuz per la Volpinari Cavicchi:

3.2.1 violazione di legge con riferimento all’art. 429 cod. proc. pen.: richiama l’eccezione già sollevata con l’atto di appello segnalando la erroneità della decisione della Corte territoriale dal momento che, nel capo di imputazione, era stata indicata, genericamente, la “utenza” sulla localizzazione della quale si era ascritto all’imputata di non essere presente sul posto di lavoro; contesta, inoltre, la correttezza della argomentazione della Corte secondo cui tale circostanza non aveva impedito alla ricorrente di difendersi attribuendo la utilizzazione dell’utenza ad altri in tal modo, tuttavia, invertendo l’ordine delle cose avendo la Volpinari Cavicchi articolato le sue difese sulla base della utenza che le era stata attribuita dagli inquirenti; né, aggiunge, il capo di imputazione aveva preso in considerazione il telefono di servizio assegnato alla ricorrente e di cui non vi è traccia nel capo di imputazione;

3.2.2 violazione di legge con riferimento all’art. 521 cod. proc. pen.: richiama la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha ipotizzato che il cartellino della ricorrente fosse stato timbrato da altri; segnala che, in tal modo, si è creata una differenza sostanziale tra l’imputazione ed il fatto come accertato che richiama il delitto concorsuale strutturalmente diverso da quello ipotizzato;

3.2.3 inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o di decadenza, in relazione agli artt. 247 comma ibis e 354 cod. proc. pen. come modificati dalla legge n. 48 del 2008: richiama il disposto di cui all’art. 247 comma ibis cod. proc. pen. segnalando come nel corso delle indagini tali disposizioni non sono state rispettate con conseguente inutilizzabilità della prova in tal modo acquisita dovendosi necessariamente qualificare come il prodotto di un sistema informatico e non già come mera prova documentale, come emerge in maniera chiara dalle stesse deposizioni degli ufficiali di PG che avevano proceduto ad eseguire i relativi accertamenti e ad acquisire i dati delle presenze mensili; sottolinea come la interpretazione fornita dalla Corte d’Appello finisca in sostanza per svuotare di contenuto precettivo la norma di nuovo conio dimenticando il carattere “volatile” del dato informatico suscettibile di modificazioni durante la procedura di estrazione delle informazioni dal sistema; segnala, tra i fattori di inattendibilità dei dati estratti dal sistema, la errata taratura oraria dei dispositivi marcatempo cui la Corte, con motivazione inesistente, non ha attribuito alcuna valenza; aggiunge che, come riferito dai testi, non poteva nemmeno essere esclusa la possibilità di una manomissione dei dati considerato l’apprezzabile numero di persone autorizzate ad operare sul sistema una delle quali può di certo ritenersi l’autore dell’anonimo che aveva dato origine alle indagini;

3.2.4 mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 190 cod. proc. pen.: segnala che la Corte di Appello ha giudicato irrilevante la circostanza secondo cui la ricorrente svolgesse la propria attività al di fuori dell’ufficio sostenendo che in questi casi era sempre puntualmente autorizzata per iscritto, circostanza tuttavia smentita dalle parole del viceprefetto Margiacchi e dalle dichiarazioni di altri testi sulle modalità di svolgimento della attività fuori sede e sui tempi di permanenza fuori dall’ufficio per esigenze legate all’incarico ricoperto; sottolinea, ancora, come la affermazione della inverosimiglianza ovvero della franca falsità della testimonianza di Luca Ghini sia stata smentita dalla sentenza dei GIP di Bologna che lo ha assolto dalla imputazione di falsa testimonianza per le dichiarazioni rese nel corso del processo; sottolinea la contraddittorietà della motivazione laddove, per un verso, la Corte di Appello ha esposto il criterio prudenziale seguito dagli investigatori nell’escludere le celle che agganciavano il centro storico di Bologna e, per altro verso, negarne la affidabilità al fine di ritenere la falsità della deposizione del Ghini; segnala i vistosi errori da cui risulta caratterizzata la indagine, fondata sulla geolocalizzazione delle imputate a partire dalla estensione della copertura di una antenna BTS che può arrivare a 35 km di raggio, mentre la ipotesi investigativa, fondata sull’aggancio della cella più vicina, finisce per condurre a risultati paradossali e materialmente impossibili che la Corte ha ritenuto di superare ricorrendo a considerazioni sganciate da criteri dotati di rigore scientifico; richiama il fenomeno dell'”handover” funzionale e di confinamento la cui stessa operatività inficia l’intera metodologia utilizzata dagli investigatori che non hanno fatto ricorso ad appostamenti, video o foto che avrebbero fornito risultati certamente più affidabili; contesta la considerazione secondo cui la notizia dell’anonimo doveva essere di dominio pubblico e, da ultimo, ribadisce il principio della necessità di pervenire alla affermazione di colpevolezza soltanto ove sia superato ogni ragionevole dubbio sulla percorribilità di ipotesi alternative;

3.2.5 violazione dell’art. 62bis cod. pen.: rileva il carattere sommario della motivazione con cui la Corte di Appello ha negato alla ricorrente le attenuanti generiche sollecitate con l’atto di appello non considerandone il curriculum pluridecennale intonso con riguardo ai delicati incarichi pubblici da lei svolti ed il limitato lasso temporale in cui si sarebbero sviluppate le condotte illecite contestate;

3.2.6 violazione di legge con riferimento agli artt. 538, 539 cod. proc. pen. e 2043 cod. civ.: segnala che la sentenza non tiene conto, quanto alla condanna al risarcimento del danno all’immagine, di quanto previsto dall’art. 17, comma 30, del DL 78 del 2008 convertito con I. 102 del 2009; rileva inoltre la eccessività della provvisionale;

3.2.7 il danno all’immagine: ribadisce che la condanna al risarcimento del danno all’immagine è stata pronunciata in relazione ad una ipotesi di reato estranea al novero di quelle contemplate dal richiamato art. 17 comma 30ter, del DL n. 78 del 2009 e dell’art. 7 della legge 27 marzo 2001 n. 97.

CONSIDERATO IN DIRITTO

I ricorsi sono fondati con esclusivo riferimento alla censura relativa alle statuizioni civili formulate, con argomentazioni analoghe, nell’interesse di entrambe le ricorrenti.

1. I motivi di natura processuale.

1.1 Con il primo motivo del ricorso la difesa della Volpinari Cavicchi ha censurato la risposta fornita dalla Corte di Appello al motivo di gravame con il quale aveva reiterato la eccezione di genericità del capo di imputazione già proposta di fronte al Tribunale.

Il profilo di genericità della imputazione su cui ha insistito la difesa della ricorrente consisterebbe nella mancata indicazione della specifica utenza telefonica che la Volpinari Cavicchi avrebbe utilizzato impegnando “celle” telefoniche lontane dal luogo di lavoro e, nella prospettiva della pubblica accusa, incompatibili con la sua presenza negli uffici della Prefettura di Bologna come invece attestato dai dati relativi alle presenze mensili acquisiti dagli uffici della Pubblica Amministrazione.

Va segnalato, in primo luogo, che dalla lettura della sentenza di primo grado non risulta che la questione fosse stata sollevata tempestivamente di fronte al Tribunale essendo certamente tardiva l’eccezione una volta proposta soltanto con l’atto di appello (cfr., Cass. Pen., 3, 27.2.2019 n. 19.649, S., secondo cui la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto di citazione a giudizio per indeterminatezza e genericità dell’imputazione ha natura relativa e, in quanto tale, è non rilevabile d’ufficio e deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine previsto dall’art. 491 cod. proc. pen.; conf., tra le altre, Cass. Pen, 6, 24.10.2013 n. 50.098 C.; Cass. Pen., 5, 25.3.2010 n. 20.793, Di Bella).

In ogni caso, la risposta della Corte di Appello è assolutamente corretta in diritto avendo i giudici di merito sottolineato come la descrizione dei singoli episodi di assenza ingiustificata dal posto di lavoro era particolarmente dettagliata e minuziosa, comunque tale aver messo la ricorrente nelle migliori condizioni per articolare le proprie difese avendo perfettamente compreso quale fosse l’utenza cellulare utilizzata per monitorarne gli spostamenti e di cui, proprio per questa ragione, aveva attribuito l’utilizzo al figlio Luca Ghini, indicato nella lista testimoniale depositata dalla difesa e chiamato a deporre proprio su tale circostanza.

D’altra parte è assolutamente consolidato, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio secondo cui l’imputazione deve contenere l’individuazione dei tratti essenziali del fatto di reato attribuito, dotati di adeguata specificità, in modo da consentire all’imputato di difendersi, mentre e non è necessaria un’indicazione assolutamente dettagliata dell’imputazione (cfr., Cass. Pen., 5, 18.10.2013 n. 6.335, Morante; cfr., più recentemente, Cass. Pen., 5, 2.3.2020 n. 16.993, Latini).

D’altra parte, a fronte della articolata e specifica descrizione delle condotte ascritte alla ricorrente, la indicazione della utenza, ovvero del numero di telefono utilizzato per monitorarne gli spostamenti, finisce per avere riguardo non tanto alla descrizione del fatto ma al profilo della “prova” della assenza dal lavoro.

1.2 Altrettanto manifestamente infondata è l’eccezione riproposta in questa sede dalla difesa della Volpinari Cavicchi concernente la pretesa nullità della sentenza per difetto di correlazione tra il fatto contestato e quello ritenuto dal giudice che avrebbe condannato la ricorrente anche per episodi nei quali si era ipotizzato che costei avesse avuto uno o più complici che avevano “strisciato” il suo badge attestandone falsamente la presenza sul posto di lavoro mentre il capo di imputazione non fa mai riferimento ad un concorso di persone nel reato, con conseguente essenziale difformità del fatto.

È sufficiente infatti ribadire quanto più volte da sempre e costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza quando, contestato a taluno un reato commesso “uti singulus”, se ne affermi la responsabilità in concorso con altri (cfr., Cass. Pen., 2, 24.4.2019 n. 22.173, Michetti; Cass. Pen., 5.5.2011 n. 21.358, Cella; Cass. Pen., 4, 4.5.2010 n. 31.676 Troia; Cass. Pen., 6, 6.5.2005 n. 24.438, Musiu; Cass. Pen., 29.1.1998 n. 2.794, Presti).

1.3 Entrambi i ricorsi si sono soffermati ed hanno insistito sulla inutilizzabilità dei dati relativi alle presenze mensili in quanto estrapolati dal sistema informatico della Prefettura di Bologna (che li immagazzina ed elabora sulla base degli “imput” forniti dal “badge”) senza il rispetto dei “protocolli informatici” di cui all’art. 247 comma ibis cod. proc. pen. funzionali a garantirne la conformità.

Anche in tal caso la risposta fornita dalla Corte di Appello è corretta: i giudici hanno infatti ritenuto la infondatezza della eccezione sottolineando (cfr., pag. 20 della sentenza impugnata) che “le norme richiamate disciplinano – … in maniera … programmatica e di stimolo alla professionalità della polizia giudiziaria operante, senza indicazione di precise tecniche di accesso al sistema e di estrapolazione dei dati in esso contenuti … – la attività di perquisizione di sistemi informatici e di sequestro dei dati in esso contenuti” mente “nel caso di specie … non ha avuto luogo alcuna attività di perquisizione e sequestro da parte della polizia giudiziaria perché i dati delle presenze in ufficio delle imputate (…) sono stati forniti dalla stessa Prefettura di Bologna”.

Il comma ibis dell’art. 247 cod. proc. pen., inserito dall’art. 8, comma 2, della legge 18 marzo 2008 n. 48, stabilisce che “quando vi è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico, ancorché protetto da misure di sicurezza, ne è disposta la perquisizione, adottando le misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne la alterazione”.

Correttamente, pertanto, la Corte di Appello ha evidenziato che nel caso di specie non era stata eseguita nessuna perquisizione e nessun sequestro dei dati informatici in quanto, come è pacifico, erano stati estratti dal sistema informatico della Prefettura dal personale della amministrazione e consegnati agli investigatori.

Per altro verso, poi, non par dubbio che il carattere programmatico della norma comporta, quale conseguenza in punto di diritto, che l’estrazione di dati archiviati in un supporto informatico (nella specie: floppy disk) non costituisce accertamento tecnico irripetibile anche dopo l’entrata in vigore della legge 18 marzo 2008, n. 48, che ha introdotto unicamente l’obbligo per la polizia giudiziaria di rispettare determinati protocolli di comportamento, senza prevedere alcuna sanzione processuale in caso di mancata loro adozione, potendone derivare, invece, eventualmente, effetti sull’attendibilità della prova rappresentata dall’accertamento eseguito (cfr., Cass. Pen., 5, 16.11.2015 n. 11.905, Branchi; Cass. Pen., 2, 1.7.2015 n. 29.061, P.C. in proc. Posanzini secondo cui l’estrazione di dati archiviati in un computer non costituisce accertamento tecnico irripetibile anche dopo l’entrata in vigore della legge 18 marzo 2008, n. 48, che ha introdotto unicamente l’obbligo di adottare modalità acquisitive idonee a garantire la conformità dei dati informatici acquisiti a quelli originali; ne deriva che la mancata adozione di tali modalità non comporta l’inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti, ma la necessità di valutare, in concreto, la sussistenza di eventuali alterazioni dei dati originali e la corrispondenza ad essi di quelli estratti; conf., ancora, Cass. Pen., 5, 3.3.2017 n. 22.695, La Rosa).

2. Gli altri motivi.

2.1 I fatti sono stati ricostruiti nei due giudizi di merito all’esito di una conforme valutazione delle medesime emergenze istruttorie.

Ed è noto che, in tal caso, la sentenza appellata e quella di appello si integrano vicendevolmente formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico – giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione tanto che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure (cfr., Cass. Pen., 2, 19.3.2013 n. 30.838; Cass. Pen., 2, 13.2.2014 n. 19.619, Bruno).

D’altra parte, è pacifico e consolidato il principio secondo cui in sede di legittimità non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa è disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata; per la validità della decisione non è necessario, infatti, che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa ovvero di ciascun rilievo difensivo che sia stato articolato, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio denunziato, che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione delle censure difensive implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa.

In definitiva, qualora il provvedimento indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione (cfr., in tal senso, Cass. Pen., 2, 19.5.2004 n. 29.434, Candiano; conf., Cass. Pen., 2, 26.5.2009 n. 33.577, Bevilacqua, secondo cui non è censurabile in sede di legittimità la sentenza che, pur non prendendo espressamente in esame una deduzione prospettata con l’atto di impugnazione, evidenzi una ricostruzione dei fatti che implicitamente, ma in maniera adeguata e logica, ne comporti il rigetto; e, ancora, Cass. Pen., 5, 14.11.2013 n. 607, Maravalli; Cass. Pen., 2, 10.12.2013 n. 1.405, Cento e, più recentemente, Cass. Pen., 2, 10.7.2019 n. 35.817, Sirica).

2.2 L’indagine era nata da un esposto anonimo che condusse ad una inchiesta interna le cui risultanze, che avevano peraltro portato alla archiviazione del relativo procedimento disciplinare, erano state trasmesse alla Procura della Repubblica.

Era stata dunque avviata una attività investigativa partendo, per l’appunto, dalla acquisizione delle risultanze del sistema di rilevazione delle presenze che era incentrato sul meccanismo di timbratura automatizzato con la possibilità, per il dipendente, di “autocertificare” ed anche “correggere” gli eventuali errori nella rilevazione degli orari di ingresso registrati dal sistema che, in tal caso, evidenziava la correzione o la autocertificazione (in caso di mancato funzionamento del “badge”) con la indicazione di un asterisco da parte del personale addetto.

Il sistema di rilevazione delle presenza presentava diversi livelli di sicurezza risultando perciò, come ritenuto nella sentenza di primo grado ed in quella di appello, “improbabile” il loro superamento mentre la apparecchiatura marcatempo non poteva in astratto escludersi che potesse essere stata manipolata ma soltanto ad opera di chi avesse una competenza informatica ed un software adeguato.

Era stato accertato che i dipendenti che uscivano dall’ufficio per ragioni di servizio erano espressamente autorizzati a farlo dal dirigente come avveniva, in particolare, per quanto riguarda la Volpinari Cavicchi in relazione alle sue mansioni legate alla attività della commissione di vigilanza sui luoghi di pubblico spettacolo.

Dalle due sentenze di merito risulta, inoltre, che i dipendenti avevano la possibilità di accedere al sistema di rilevazione delle presenze e di prendere visione della propria situazione come rilevata ed attestata dal sistema potendo sollecitare eventuali correzioni ed aggiustamenti (cfr,. pag. 3 della sentenza impugnata).

Si era inoltre accertato che la Ventre operava allo sportello che era aperto dalle 9.00 alle 11.30 occupandosi però della ricezione del pubblico soltanto in assenza della collega Lupi.

Partendo dai dati relativi alle presenze rilevate dal sistema della Prefettura, gli investigatori, individuate le utenze cellulari in uso alle imputate, con l’aiuto del sistema “Sfera”, avevano proceduto ad acquisire i tabulati dalle società telefoniche ed a selezionare i contatti “sospetti”, ovvero quelli che avevano impegnato celle telefoniche situate al di fuori del centro storico, che erano state escluse, ovvero celle ritenute, per la loro posizione e copertura, “incompatibili” con la loro presenza in Prefettura.

Già il Tribunale aveva ritenuto la falsità della deposizione resa dal figlio della Volpinari Cavicchi, il quale aveva riferito di essere in realtà l’utilizzatore della utenza telefonica su cui si erano concentrati gli investigatori, disponendo la trasmissione degli atti al PM per il reato di cui all’art. 372 cod. pen. dal quale, peraltro, il giovane era stato assolto con sentenza del GIP di Bologna prodotta nel corso del giudizio di appello.

Aveva dato atto delle obiezioni tecniche dei consulenti della difesa in merito al fenomeno dell'”Handover” e, tuttavia, ritenuto di poterle superare sul rilievo dell’elevato numero degli episodi contestati (che faceva ritenere assolutamente improbabile il ripetersi sistematico dell’aggancio a celle lontane dal luogo in cui le due imputate si trovavano in quel momento) e della considerazione secondo cui, quando le ricorrenti erano certamente al lavoro, le celle impegnate erano pressoché esclusivamente quelle (in numero di tre) più prossime alla Prefettura (cfr., pag. 6).

2.3 Con gli atti di appello le difese, oltre alla inutilizzabilità sul piano processuale della documentazione relativa alle presenze mensili acquisita dal sistema informatico della Prefettura, di cui si è già detto, ne aveva contestato la sostanziale affidabilità, alla luce della origine “torbida” della indagine (poiché, come accennato, nata da un esposto anonimo cui erano allegate le copie dei fogli di presenza delle due imputate, circostanza emblematica di come l’autore dell’anonimo fosse proprio tra coloro, non pochissimi, autorizzati ad accedere al sistema).

Era stata inoltre ribadita la inaffidabilità della ricostruzione fondata sulla localizzazione delle imputate tramite le celle di volta in volta “agganciate”, che non avrebbe tenuto conto del fenomeno dell'”handover” (c.d. “di salvataggio” e “di confinamento”) e della loro estensione territoriale, carenze che minerebbero alla base l’intero impianto della indagine; era stato sottolineato il carattere paradossale della ricostruzione della PG che supporrebbe spostamenti fulminei non essendo stato inoltre considerato lo “scarto temporale” tra l’ora indicata dal sistema della Prefettura e quello dei tabulati telefonici.

Le difese avevano ancora evidenziato come il Tribunale non avesse considerato l’esito dei procedimenti disciplinari e le deposizioni testimoniali sulla correttezza professionale delle ricorrenti.

2.4 Ritiene il collegio che la sentenza impugnata abbia affrontato le doglianze difensive (sostanzialmente replicate nei due ricorsi) giudicandole infondate con motivazione complessivamente congrua, esaustiva, correttamente ancorata ai dati fattuali di cui ha dato puntualmente conto ed avendo riguardo, in punto di diritto, ai principi costantemente ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte.

I giudici del gravame di merito hanno infatti argomentato circa la sostanziale attendibilità delle risultanze dei fogli di presenza (cfr., pagg. 21-23 della sentenza impugnata) sottolineando:

a) che i dati erano stati forniti dalla Prefettura e non c’era nessun interesse da parte di nessuno a falsarli;

b) che il sistema aveva tre livelli di protezione e non vi erano elementi per ipotizzare che qualcuno vi si fosse inserito abusivamente avendo le stesse difese prospettato questa eventualità in maniera “teorica”, ovvero senza alcun riferimento a casi specifici che potessero confermarla;

c) che ciascun dipendente poteva accedere al sistema e verificare la correttezza dei dati ivi registrati; d) che non si erano mai registrate situazioni di assenza di persone certamente presenti in ufficio a fronte di numerosi casi in cui era stata al contrario rilevata la presenza di persone invece assenti.

Hanno inoltre evidenziato il numero degli episodi in questione che erano 30 per la Ventre e 46 per la Volpinari in cui l’incidenza delle “autocertificazioni” (evidenziate con l’asterisco) era assai scarsa per la prima e sostanzialmente inesistente per la seconda dando conto di questo dato in maniera specifica ed analitica (cfr., pagg. 33-34).

È stato affrontata anche la questione dell’anonimo” con l’esame specifico dei rilievi che avevano posto l’accento sulla difformità tra l’elenco delle presenze ad esso allegato e quello invece allegato alla missiva del legale della Ventre, e si era segnalato che, a ben guardare, la difformità era limitata soltanto allo specchietto riassuntivo delle ferie ed al residuo permessi, del tutto irrilevante ai fini del processo.

Con riguardo, poi, alla identificazione delle utenze cellulari nella disponibilità delle ricorrenti (cfr., pagg. 23-27 della sentenza), la Corte di Appello ha in particolare affrontato la deposizione del figlio della Volpinari Cavicchi ribadendone la falsità sul rilievo secondo cui durante l’orario di lavoro il telefono impegnava sempre le celle della Prefettura “colloquiando” costantemente con la Ventre; ha ribadito la inverosimiglianza delle dichiarazioni del Ghini prendendo in specifica considerazione la sentenza di assoluzione dal delitto di falsa testimonianza e vagliando, al di là della formale non opponibilità della decisione, gli elementi utilizzati dal GIP a sostegno della decisione assolutoria e confutati in maniera analitica (cfr., pagg. 25-26 della sentenza).

Diversamente da quanto opinato dalla difesa, la Corte territoriale non ha nemmeno mancato di considerare la esistenza di un telefono di servizio a disposizione della ricorrente che, tuttavia, proprio alla luce delle risultanze dei tabulati, era emerso non venisse sostanzialmente mai utilizzato (risultando due chiamate e due sms in un bimestre) aggiungendo che, seppure i telefoni della Volpinari colloquiavano talvolta tra loro, questo elemento non era tale da dimostrare che le utenze in questione non fossero comunque nella sua disponibilità.

Quanto al mancato accesso dei consulenti della difesa al sistema “Sfera”, indipendentemente da ogni altra considerazione, si deve prendere atto che si tratta di un rilievo che non era stato avanzato con l’atto di appello e che risulta, perciò, in questa sede precluso. Il collegio deve inoltre evidenziare la complessiva esaustività, completezza e, soprattutto, coerenza logica della motivazione con riguardo all’elemento indubbiamente centrale dell’impianto accusatorio e su cui, per contro, le difese avevano concentrato la loro attenzione.

La Corte di Appello ha ribadito che gli investigatori avevano escluso tutte le celle del centro storico considerando solo le chiamate che agganciavano celle esterne ai viali della Circonvallazione cittadina; ha sottolineato, inoltre, che il centro storico è caratterizzato dalla presenza di numerose celle tra loro vicine il cui numero e “affollamento” rendeva del tutto improbabile che il “salto” da una all’altra finisse per consentire l’aggancio di celle operanti nella periferia cittadina prima che l’utenza fosse “intercettata” da una di quelle del centro storico; da questo punto di vista, inoltre, ha sottolineato il carattere sempre “teorico” delle considerazioni svolte dalle difese tecniche delle imputate, a partire da quella concernente la estensione delle celle sino a 35 km ma che suppone la esistenza di uno spazio interamente libero da ogni altra cella pronta a “catturare” anticipatamente il segnale.

In ogni caso, e con puntuale riferimento ad un dato fattuale che la difesa non ha potuto contrastare (e che, in questa sede, non è stato oggetto di alcun rilievo in termini di travisamento), la Corte di Appello ha spiegato che la maggior parte delle volte le imputate, pur risultando in Prefettura, agganciavano celle “esistenti assai più lontano dai viali di circonvallazione, in quanto collocate nell’estrema periferia, quand’anche non in altri Comuni” (cfr., ivi, pag. 29) ovvero in luoghi prossimi alle loro abitazioni e che i tabulati mostravano un andamento “ad uscire” dal centro storico.

Ha considerato lo “scarto temporale” tra l’orologio della Prefettura e quello del gestore di telefonia segnalando trattarsi di una differenza di pochi minuti da ritenersi ininfluenti e, in ogni caso, considerati in “favor rei” laddove invece incidenti.

Ed ancora, con argomentazioni lineari e certamente non illogiche, ha esaminato il rilievo concernente la (dalle difese) ritenuta assurdità dei risultati cui si perverrebbe, seguendo la ricostruzione della pubblica accusa, sui tempi di spostamento tra una cella e l’altra; ha sottolineato (senza che, nemmeno in tal caso, nel ricorso sia dedotto un profilo di travisamento) la erroneità dei dati indicati nella consulenza tecnica della difesa procedendo ad una ricostruzione alternativa del “passaggio” da una cella all’altra che non necessariamente implica una velocità di spostamento così assurda come invece denunziato dalle difese alla luce dei rilievi dei rispettivi consulenti.

Non ha mancato, ancora, di considerare la rilevanza della intervenuta archiviazione dei procedimenti disciplinari facendo presente che si era trattato di procedimenti che si erano risolti con un mero colloquio con le ricorrenti non seguito da alcun atto di indagine (cfr., ancora, ivi, pag 31) aggiungendo, poi, altrettanto correttamente, che l’ottimo stato di servizio delle due poteva semmai rilevare sulla determinazione del trattamento sanzionatorio.

2.4 In definitiva, quindi, la Corte di Appello ha replicato alle doglianze difensive disattendendole con motivazione che, come già anticipato, risulta certamente congrua, esaustiva e puntualmente ancorata alle risultanze fattuali di cui ha dato conto in maniera analitica.

Non è inutile allora ribadire che il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve essere mirato a verificare che quest’ultima:

a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata;

b) non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica;

c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute;

d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (cfr., Cass. Pen., 2, 4.7.2017 n. 36.119, Agati; Cass. Pen., 1, 10.10.2011 n. 41.738, Pnnt in proc. Longo; Cass. Pen., 6, 15.3.2006 n. 10.951, Casula).

Non sono perciò deducibili, in sede di legittimità, censure relative alla motivazione diverse da quelle che abbiano ad oggetto la sua mancanza, la sua manifesta illogicità, la sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; sono dunque inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (cfr., in tal senso, Cass. Pen., 6, 17.3.2015 n. 13.809, 0.).

Né, per altro verso, è consentito il ricorso per cassazione che, “sub specie” della violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., finisce in realtà per fondarsi su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici, tassativamente previsti dall’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., riguardanti la motivazione della sentenza di merito in ordine alla ricostruzione del fatto (cfr., Cass. Pen., 6, 8.3.2016 n. 13.442, De Angelis; conf., Cass. Pen., 3, 30.9.2013 n. 43.963, PC, Basile).

La Corte di Appello di Bologna ha inoltre sottolineato che la ricostruzione operata dalla PG non si fonda su un dato indiziario ma su prove “dirette” quali sono, per l’appunto, quelle derivanti dal confronto tra i dati delle presenze in ufficio e quelli desunti dai tabulati telefonici in merito alle celle agganciate dalle utenze in uso alle ricorrenti. La differenza tra “prova” e “indizio”, come è noto, è costituita proprio dal fatto che mentre la prima, in quanto si ricollega direttamente al fatto storico oggetto di accertamento, è idonea – come nel caso di specie – ad attribuire di per sé carattere di certezza a quanto rappresentato, l’indizio, isolatamente considerato, fornisce una traccia per l’appunto “indicativa” di un percorso logico argomentativo, suscettibile di avere anche diversi possibili approdi, e, come tale, non può mai essere qualificato in termini di assoluta certezza con riferimento al fatto da provare (cfr., Cass. Pen., 5, 21.2.2014 n. 16.397, PG in proc. Maggi, in cui la Corte ha anche precisato che la differenza tra indizio e prova non è data dalla tipologia del mezzo impiegato, poiché, ad esempio, la testimonianza, avendo riguardo al suo concreto contenuto, può introdurre sia una prova piena sia un indizio).

Da ultimo, la Corte di Appello ha fatto presente, anche in tal caso correttamente, che non poteva certamente escludersi la esistenza di un “profitto ingiusto” in capo alle imputate per aver fruito della retribuzione anche per le ore di lavoro che non era stato in realtà svolto; ha richiamato, sul punto, la nota del 27.1.2015 del Ministero dell’Interno su cui le difese non hanno articolato alcun rilievo.

3. Il motivo sulle attenuanti generiche.

La difesa della Volpinari Cavicchi stigmatizza il carattere a suo avviso sommario della motivazione con cui la Corte di Appello ha negato alla ricorrente le attenuanti generiche sollecitate con l’atto di appello non essendone stato considerato il curriculum pluridecennale con riguardo ai delicati incarichi pubblici da lei svolti ed il limitato lasso temporale in cui si sarebbero sviluppate le condotte illecite contestate.

La Corte di Appello ha escluso la meritevolezza delle attenuanti generiche in considerazione del carattere sistematico delle condotte illecite poste in essere dalla ricorrente e la mancanza di ogni manifestazione di rincrescimento per il suo operato.

In tal modo ha dunque correttamente valorizzato la personalità dell’imputato ed in tal modo ha evaso in termini adeguati ed esaustivi la censura sollevata con l’atto di appello essendo appena il caso di ricordare che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non deve necessariamente prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo sufficiente che egli faccia riferimento a quelli da lui ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo in tal modo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (cfr., Cass. Pen., 5, 13.4.2017 n. 43.952, Pettinelli; Cass. Pen., 2, 20.1.2016 n. 3.896, De Cotiis; Cass. Pen., 3, 19.3.2014 n. 28.535, Lule; Cass. Pen., 2, 19.1.2011 n. 3.609, Sermone).

Non è d’altro canto inutile ribadire che “le attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola e discrezionale “concessione” del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni non contemplate specificamente, non comprese cioè tra le circostanze da valutare ai sensi dell’art. 133 cod. pen., che presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare, considerazione ai fini della quantificazione della pena” (cfr., Cass. Pen., 2, 14.3.2017 n. 14.307, Musumeci; Cass. Pen., 2, 5.6.2014 n. 30.228, Vernucci); in definitiva, quindi, “la concessione delle attenuanti generiche deve essere fondata sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato; ne consegue che, quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante è soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio” (cfr., Cass. Pen., 3, 17.11.2015 n. 9.836).

4. I motivi sulle statuizioni civili.

Entrambe le difese censurano la decisione della Corte di Appello che, respingendo le osservazioni articolate con gli atti di impugnazione della sentenza di primo grado, aveva confermato la condanna delle ricorrenti al risarcimento all’immagine disposta dal Tribunale (cfr., pagg. 28-32 della sentenza di primo grado).

In particolare, rilevano l’erroneità della decisione in quanto il risarcimento del danno all’immagine era intervenuta in relazione ad una ipotesi di reato estranea al novero di quelle espressamente contemplate dal combinato disposto di cui agli artt. 17 comma 30ter, del DL n. 78 del 2009 e dell’art. 7 della legge 27 marzo 2001 n. 97.

5. Il motivo è fondato.

Il collegio, pur consapevole della diversità di orientamenti ravvisabili nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., in senso diverso da quello qui seguito, Cass. Pen., 2, 7.2.2017 n. 29.480. Cannmarata; Cass. Pen., 2, 20.6.2018 n. 41.012, C.), ritiene di dover condividere quello affermato da Cass. Pen., 2, 12.3.2014 n. 14.605, Del Toso.

In quella occasione, la Corte aveva richiamato il disposto di cui all’art. 7, comma 1, della legge n. 97 del 2001 secondo cui “la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato.

Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271″.

Il danno all’immagine della PA compare con l’art. 17, comma 30ter, del DL n. 78 del 2009, convertito in legge n. 102 del 2009 e modificato con l’art. 1 del DL n. 103 del 2009 convertito in legge n. 141 del 2009 in cui si prevede che “le procure della Corte dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge.

Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 (della legge) 27 marzo 2001, n. 97.

A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale.

Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta”.

La sentenza “Del Toso” ha dato conto dei rilievi di legittimità costituzionale che erano stati sollevati con riguardo, per l’appunto, alla limitazione della tutela risarcitoria del danno all’immagine della PA soltanto in presenza di talune (e non di tutte) le condotte illecite pur potenzialmente in grado di determinarlo; senza ripercorrere la analisi contenuta nella decisione sopra richiamata, è sufficiente ricordare che, con la sentenza n. 355 del 2010, la Corte Costituzionale aveva puntualizzato che “… il legislatore non abbia inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione, e segnatamente di quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell’immagine dell’amministrazione imputabile a un dipendente di questa” e non già “… che il legislatore abbia voluto prevedere una responsabilità nei confronti dell’amministrazione diversamente modulata a seconda dell’autorità giudiziaria competente a pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria” sicché “… la norma deve essere univocamente interpretata, invece, nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non è configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria …”.

I giudici delle leggi, fatta questa premessa, avevano ritenuto che “… la scelta di non estendere l’azione risarcitoria anche in presenza di condotte non costituenti reato, ovvero costituenti un reato diverso da quelli espressamente previsti, può essere considerata non manifestamente irragionevole” osservando che “… il legislatore ha ritenuto … nell’esercizio della predetta discrezionalità, che soltanto in presenza di condotte illecite, che integrino gli estremi di specifiche fattispecie delittuose, volte a tutelare, tra l’altro, proprio il buon andamento, l’imparzialità e lo stesso prestigio dell’amministrazione, possa essere proposta l’azione di risarcimento del danno per lesione dell’immagine dell’ente pubblico.

Con l’art. 1, comma 62 della legge 190 del 2012 fu novellato l’art. 1 della legge n. 20 del 1994 con la introduzione del comma 1sexies secondo cui “nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”.

Ebbene, proprio il riferimento alla “commissione di reati contro la stessa pubblica amministrazione”, contenuto nell’appena riportato comma 1sexies dell’art. 1 della legge 20 del 1994 è stato invocato da quelle decisioni (cfr., ad esempio, la già citata Cass. Pen., 2, 7.2.2017 n. 29.480, Camnnarata) per sostenere che il danno all’immagine patito dalla PA sia risarcibile ove legato “… a qualsiasi reato, anche contravvenzionale, contro la P.A., e non ai soli delitti di cui ai capi I del titolo II del libro II del codice penale” (cfr., pag. 9 della sentenza “Cammarata”).

E, tuttavia, come osservato nella sentenza “Del Toso”, si tratta di un appiglio normativo inadeguato in considerazione del fatto che l’immutato combinato disposto degli artt. 17 della legge 141 del 2009 e 7 della legge 97 del 2001, in forza di una scelta ritenuta legittima in quanto rientrante nella discrezionalità del legislatore, delimita espressamente la iniziativa delle Procure della Corte dei Conti per l’azione risarcitoria relativa al danno all’immagine della PG ai soli delitti ivi indicati.

Né si può ritenere che, con l’inserimento, avvenuto nel 2012, del comma 1sexies nell’art. 1 della legge 1 della legge n. 20 del 1994 il legislatore avesse inteso modificare l’assetto normativo precedentemente delineato dalle disposizioni sopra richiamate ovvero, in alternativa, che si fosse realizzata una abrogazione “implicita” per incompatibilità.

A tal proposito, si è correttamente osservato che “… mentre il combinato disposto degli artt. 17 L. 141/2009 e 7 L. 97/2001 disciplina l’an ed il quomodo dell’azione, l’art. 1/1 sexies della L. 20/1994, si è limitato a regolamentare, con una norma indubbiamente innovativa, il quantum dovuto, in maniera presuntiva (salvo prova contraria) alla P.A. per il danno all’immagine («il doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente»)” sicché “… si tratta di due normative che non configgono affatto in quanto agiscono su piani completamente diversi e, sono, quindi, perfettamente compatibili”; in definitiva, “… la locuzione “un reato contro la stessa pubblica amministrazione” (art. 1/1 sexies L. 20/1994), interpretato alla stregua dell’immutato combinato disposto degli artt. 17 L. 141/2009 e 7 I. 97/2001, va letto ed inteso come riferito «ai delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale”, come d’altra parte, si evince anche dalla circostanza che lo stesso art. 1/1 sexies L. 20/1994, nello stabilire i criteri per la determinazione del danno all’immagine, («il doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità») prevede, come presupposto dell’azione, che il dipendente abbia «illecitamente percepito» una somma di denaro o altra utilità, ossia il prezzo dell’illecito mercimonio della propria funzione che, normalmente, è previsto come uno degli elementi tipici proprio dei “delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II de/libro secondo del codice penale” e non certo di tutti gli altri innumerevoli delitti per i quali la P.A. può lamentare un danno all’immagine causatole dal proprio dipendente” (cfr., dalla motivazione della sentenza “Del Toso”).

Altro riferimento normativo su cui ha argomentato la tesi “estensiva” è l’art. 129 disp. att. cod. proc. pen. richiamato dall’art. 7 della legge 97 del 2001 (che, nel limitare la iniziativa del PG ai soli reati compresi nel capo I del titolo II del libro II del codice penale faceva espressamente “… salvo quanto disposto dall’art. 129 disp. att. cod. proc. pen.”) cui, come si è visto, rinvia l’art. 17 della legge 102 del 2009. L’art. 129 disp. att. cod. proc. pen. stabilisce, al terzo comma, che quando il Pubblico Ministero “… esercita l’azione penale per un reato che ha cagionato un danno per l’erario, informa il Procuratore Generale presso la Corte de Conti, dando notizia della imputazione”.

Secondo taluno, quindi, l’azione risarcitoria per il danno all’immagine sarebbe consentita sia nel caso di sentenza passata in giudicato per uno dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, sia per uno qualsiasi dei reati che abbia cagionato un danno all’erario e per i quali il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale e per i quali l’art. 17 della legge 141 del 2009 (così come modificato dalla legge 102 del 2009) dispone in merito alla sospensione del termine di prescrizione; con la previsione, in definitiva, di un “doppio binario” uno dei quali riservato al danno all’immagine conseguente ad uno dei reati di cui al capo I del titolo II del libro II del codice penale, per il quale l’azione non potrebbe essere esercitata prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e, l’altro, per tutti gli altri reati, in cui l’iniziativa risarcitoria sarebbe invece rimessa in sostanza alla discrezionalità dei Procuratori presso la Corte dei Conti.

E, tuttavia, si è condivisibilmente osservato come sia difficile immaginare per quale ragione il legislatore avesse fatto ricorso ad un meccanismo così contorto per modificare l’assetto normativo vagliato e ritenuto legittimo dalla Corte Costituzionale e sul quale, in realtà, il riferimento all’art. 129 disp. att. cod. proc. pen. non incide in alcun modo trattandosi di una disposizione che si limita solo a prevedere l’obbligo per il Pubblico Ministero di informare il Procuratore Generale presso la Corte dei Conti che è stata iniziata un’azione penale contro il pubblico dipendente che abbia cagionato un danno erariale.

Fermo restando che l’azione risarcitoria relativa al (solo) danno all’immagine è vincolata entro i limiti oggettivi di cui al combinato disposto degli artt. 17 della legge 141 del 2009 e 7 della legge 97 del 2001.

Su questa ricostruzione non ha inciso, a parere del collegio, la intervenuta abrogazione dell’art. 7 della legge 97 del 2001 ad opera dell’art. 4, comma 1, lett. g), dell’all. III al Decreto Legislativo 26 agosto 2016 n. 174 “Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’art. 20 della legge 7 agosto 2015 n. 124”.

Come si è visto, infatti, la risarcibilità del danno all’immagine patito dalla P.A. per un fatto di reato di un proprio dipendente è stata introdotta dall’art. 17 della legge 102 del 2009, tuttora vigente, che rinvia alla disposizione oggi abrogata per precisare che “le Procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 (della legge) 27 marzo 2001, n. 97”.

Il nuovo quadro normativo è stato sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale che, con sentenza n. 191 del 2019, nel dichiarare inammissibile la questione sottoposta alla sua attenzione ha tuttavia colto la necessità di ricostruire l’evoluzione della disciplina facendo presente che, nel disciplinare la risarcibilità del danno all’immagine da reato patito dalla P.A., l’art. 17 della legge del 2009 aveva fatto riferimento ai “casi” ed ai “modi” di cui all’art. 7 della legge del 2001; ha fatto presente che, con l’entrata in vigore del Codice di Giustizia Contabile, è stato abrogato il primo periodo dell’art. 17 comma 30ter della legge del 2009 ma è rimasto invariato il secondo periodo contenente per l’appunto la limitazione dell’azione risarcitoria per danno all’immagine ai “casi” ed ai “modi” di cui all’abrogato art. 7 della legge del 2001.

Nell’invitare il giudice “a quo” a rivalutare la rilevanza della questione proposta, il giudice delle leggi ha evidenziato una serie di elementi incidenti sulla corretta interpretazione delle disposizioni normative interessate e che erano stati a suo avviso trascurati dal giudice remittente. In particolare, e per quel che qui interessa, la Corte Costituzionale ha spiegato che l’ordinanza di remissione aveva preso le mosse dall’assunto secondo cui “… l’intervenuta abrogazione dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001, ad opera dell’art. 4, lettera g), dell’Allegato 3 al cod. giust. contabile, comporterebbe l’impossibilità di prendere ulteriormente a riferimento la disposizione abrogata per l’individuazione dei casi in cui le procure contabili possono esercitare l’azione risarcitoria” con la conseguenza per cui “… il perimetro dei reati che consentono l’azione risarcitoria andrebbe rinvenuto, secondo il rimettente, nello stesso cod. giust. contabile, ed in particolare nel censurato art. 51, comma 7” che, sempre nella prospettiva del remittente, “… consentirebbe dunque il risarcimento del danno all’immagine della PA in conseguenza di un delitto commesso dal pubblico impiegato «a danno» della stessa, che sia stato accertato con sentenza penale definitiva”.

I giudici delle leggi, a fronte di questa prospettazione, hanno tuttavia osservato “… che il giudice a quo non ha vagliato la possibilità che il dato normativo di riferimento legittimi un’interpretazione secondo cui, nonostante l’abrogazione dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001, che si riferisce ai soli delitti dei pubblici ufficiali contro la PA, non rimanga privo di effetto il rinvio ad esso operato da parte dell’art. 17, comma 30-ter, del DL n. 78 del 2009, e non si è chiesto se si tratta di rinvio fisso o mobile” per cui “… l’ordinanza trascura di approfondire la natura del rinvio, per stabilire se è tuttora operante o se, essendo venuto meno, la norma di riferimento è oggi interamente costituita dal censurato art. 51, comma 7”.

6. Ritiene il collegio che nel caso di specie si sia in presenza proprio di un rinvio “recettizio” o “fisso”, consistente nella integrazione della disposizione del 2009 con quella del 2001 che entra così a far parte del contenuto precettivo della disposizione in cui questa viene “incorporata” risultando perciò, la disposizione “incorporante”, insensibile alle vicende modificative o abrogative che riguardino la norma richiamata.

In sostanza, il rinvio “recettizio” recepisce per intero il contenuto di un altro articolo, vale a dire la stessa disposizione normativa (si tratta in sintesi, di una tecnica di stesura della norma, ispirata al principio di “economia redazionale”); il secondo, invece, fa riferimento alla norma in sé, cioè al principio contenuto nella formula verbale dell’articolo e ne segue, inevitabilmente la eventuale evoluzione, di talché, mutato il contenuto della norma di riferimento, muta inevitabilmente il significato della norma di rinvio. Nel caso di specie, il rinvio operato dal tuttora vigente art. 17 comma 30ter della legge del 2009 a quella del 2001 è assolutamente specifico in quanto, nel consentire la risarcibilità del danno all’immagine, ha previsto che ciò sia possibile “… nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 (della legge) 27 marzo 2001, n. 97” ovvero richiamando proprio “quei casi” e “quei limiti” allora individuati dal legislatore e che continuano a far parte integrante della disposizione di legge il cui contenuto era stato in tal modo delineato e oggettivamente determinato. Il diritto penale non ignora situazioni e vicende normative di questo tipo: così, ad esempio, il caso esaminato da Cass. Pen., 3, 13.1.2010 n. 5.837, Bertini, secondo cui l’omessa sottoposizione dei lavoratori notturni agli accertamenti di salute periodici previsti per legge continua ad integrare il reato di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 532 del 1999 nonostante l’intervenuta abrogazione, ad opera dell’art. 304 del D.Lgs. n. 81 del 2008, della disposizione sanzionatoria dell’art. 89, comma secondo, lett. a), del D.Lgs. n. 626 del 1994, avendo natura meramente recettizia il rinvio effettuato a tale ultima norma dall’art. 12 del D.Lgs. n. 532 del 1999 ovvero quello esaminato da Cass. Pen., 6, 17.5.1994 n. 6.889, Russo, in cui la Corte affermò che il rinvio che l’art. 80 comma primo lett. b) d.P.R. n. 309/90 opera all’art. 112 n. 4 cod. pen. deve intendersi riferito al testo dell’art. 112 cod. pen. vigente all’epoca in cui è entrato in vigore l’art. 18 legge 26 giugno 1990 n. 162, contenente la norma riportata nell’art. 80 cit., essendo l’art. 18 formulato in maniera tale da dar luogo al recepimento della disposizione richiamata così come all’epoca vigente.

Mancano, infatti, per la specificità e puntualità del rinvio, elementi che possano indurre a considerarlo un rinvio “formale”.

7. In definitiva, quindi, dovendosi ritenere tuttora vigente la limitazione all’azione risarcitoria per il danno all’immagine ai soli reati previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale.

Nel caso di specie si è invece in presenza di un reato “comune”, sicché la sentenza della Corte di Appello di Bologna va annullata con riguardo alle statuizioni civili, che vanno eliminate.

8. È conseguentemente assorbito è il motivo articolato sul riconoscimento della provvisionale in favore della costituita parte civile pur dovendosi ribadire che il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna la parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile per Cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare ingiudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento (cfr. Cass, Pen. 6, 14.10.2014, n. 50746, PC e G.; Cass. Pen. 2, 6.11.2014, n. 49016, Patricola; Cass. Pen. 3, 27.01.2015, n. 18663, D.G.; Cass. Pen., 5, 25.05.2015, n. 32899, Mapelli; Cass. Pen. 23.06.2010, n. 34791, Mazzamurro).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alle statuizioni civili, che elimina; rigetta nel resto i ricorsi.

Cos’ deciso in Roma, il 21 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria l’11 dicembre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.