Il rapporto di affinità tra autore e vittima del reato decade se è deceduto il coniuge da cui deriva l’affinità e non vi sia prole (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 10 giugno 2021, n. 23060).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SETTEMBRE Antonio – Consigliere –

Dott. MOROSINI Elisabetta Maria – Rel. Consigliere –

Dott. FRANCOLINI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) LOREDANA nata a (OMISSIS) il 10/04/19xx;

avverso la sentenza del 24/02/2020 della CORTE di APPELLO di PALERMO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

sentita la relazione svolta dal consigliere Dott.ssa Elisabetta Maria Morosini;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa Kate Tassone, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

lette le conclusioni del difensore della parte civile, avv. Giovanna Maria (OMISSIS), che ha chiesto la conferma della sentenza impugnata oltre alla refusione delle spese legali, come da nota spese che ha allegato;

lette le conclusioni del difensore dell’imputato, avv. Accursio (OMISSIS), che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Palermo ha confermato, anche agli effetti civili, la condanna di (OMISSIS) Loredana per il reato di furto aggravato ai sensi dell’art. 61 nn. 5, 7 e 11, cod. pen., commesso in un arco di tempo compreso tra il mese di luglio e quello di novembre 2013, ai danni di (OMISSIS) Maria Teresa, moglie di (OMISSIS) Salvatore, padre dell’imputata, deceduto il 4 maggio 2013.

I giudici di merito hanno accertato che, approfittando della lontananza della (OMISSIS) (anziana, malata e bisognosa di cure), l’imputata – la quale occupava una unità abitativa autonoma ricavata all’interno del medesimo stabile che ospitava anche l’abitazione della persona offesa – si è impossessata di numerosi gioielli e della fede nuziale di proprietà esclusiva della (OMISSIS), nonché di un aspirapolvere, della fede nuziale del marito, di un quadro in corallo e di un revolver calibro 38 e 22 cartucce, che la (OMISSIS) aveva in «usufrutto» per volontà testamentaria del marito.

2. Avverso la sentenza ricorre l’imputata, tramite il difensore, articolando quattro motivi.

2.1. Con il primo denuncia inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 649 cod. pen..

L’imputata e la persona offesa sono affini in linea retta (dato che l’imputata è figlia del coniuge della persona offesa), dunque avrebbe dovuto trovare applicazione la causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 649 cod. pen..

La norma citata non richiederebbe il presupposto della coabitazione, cui, invece, fa erroneo riferimento la Corte di appello, né troverebbe spazio una esclusione della rilevanza del rapporto di affinità in caso di morte del coniuge, in assenza di prole, posto che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 11254 del 1982), occorrerebbe avere riguardo alla disciplina generale dettata dall’art. 78 cod. civ. e non a quella contenuta nell’art. 307, comma quarto, cod. pen..

2.2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 131-bis cod. pen..

I giudici di merito hanno escluso la particolare tenuità del fatto in ragione della rilevante entità del danno cagionato alla persona offesa; mentre in realtà il danno dovrebbe ritenersi lieve dato il valore dei beni sottratti: due fedi nuziali, un quadro artigianale in corallo, un revolver e un aspirapolvere.

2.3. Con il terzo lamenta inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 624 cod. pen.

La Corte di appello avrebbe ritenuto la penale responsabilità dell’imputata in «palese contraddizione con tutti gli oggettivi elementi emersi dall’istruttoria dibattimentale».

In particolare:

– la persona offesa riferisce del furto di gioielli non meglio indicati, il cui possesso non è supportato da alcun documento;

– l’aspirapolvere non è stato sottratto perché si trovava nel sottoscala condominiale di libero accesso;

– le due fedi nuziali sono state trovate presso l’imputata sol perché la stessa «doveva provvedere a farle allargare»;

– il quadro in corallo era stato donato all’imputata dal proprio padre;

– il revolver è stato consegnato dall’imputata al Commissariato di Pubblica sicurezza perché, essendo incustodito, era fonte di pericolo.

La Corte di appello non offrirebbe alcuna motivazione né fornirebbe prova della sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

2.4. Con il quarto motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 62-bis cod. pen..

La Corte di appello avrebbe negato, senza ragione alcuna, le circostanze attenuanti generiche, che, invece, spetterebbero all’imputata in ragione dello stato di incensuratezza e di una condotta di vita irreprensibile.

3. Nessuna delle parti ha avanzato richiesta di discussione orale, dunque il processo segue il cd. “rito scritto” ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020.

Il Procuratore generale, i difensori di parte civile e dell’imputata hanno trasmesso, tramite posta elettronica certificata, le rispettive, articolate conclusioni in epigrafe trascritte (il difensore di parte civile ha inoltrato anche una memoria).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Il primo motivo è infondato.

2.1. L’imputata (OMISSIS) Loredana è figlia di (OMISSIS) Domenico, marito della persona offesa (OMISSIS) Maria Teresa.

Gli episodi di furto oggetto del presente processo si collocano tra il mese di luglio e il mese di novembre 2013 (cfr. pag. 4 sentenza di primo grado), dopo la morte di (OMISSIS) Domenico avvenuta il 4 maggio 2013.

L’art. 649 cod. pen. sancisce, per quanto qui interessa, la non punibilità dell’autore di un furto commesso in danno di uno dei congiunti specificamente indicati dalla norma, tra i quali è ricompreso l’affine in linea retta.

Va chiarito che per tale categoria di soggetti (a differenza di altri) non è richiesto il requisito della coabitazione, cui fa erroneo riferimento la Corte di appello (ma non il Tribunale).

L’art. 78 cod. civ. prevede che: «l’affinità è il vincolo tra un coniuge ed i parenti dell’altro coniuge» e che «nella linea e nel grado in cui taluno è parente d’uno dei coniugi, egli è affine dell’altro coniuge».

Ergo, nel caso in cui uno dei coniugi abbia un figlio concepito con altra persona, ai fini dell’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 649, comma 1, n. 2, seconda ipotesi, il figlio del coniuge è affine in linea retta dell’altro coniuge (Sez. 2, n. 24643 del 21/03/2012, Errini, Rv. 252831).

2.2. I giudici di merito, nel formulare il giudizio di responsabilità a carico dell’imputata, hanno escluso che potesse tornare applicabile la previsione di cui all’art. 649 cod. pen. in ragione della ritenuta irrilevanza, agli effetti penali, del rapporto di affinità, quando, come nella specie, al momento del fatto non sia più esistente in vita il coniuge da cui l’affinità deriva e dal matrimonio non siano nati figli.

Ciò, sulla base del disposto dell’art. 307, comma quarto, cod. pen., che limita, appunto, nel senso suindicato la rilevanza del rapporto di affinità «agli effetti penali».

2.3. La ricorrente contesta tale interpretazione ritenendo che l’art. 307, comma quarto, cod. pen. abbia un ambito di operatività non estensibile ai rapporti familiari indicati dall’art. 649 cod. pen., che invece troverebbero la loro disciplina nell’art. 78, comma terzo, cod. civ., in forza del quale l’affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva: il rapporto di affinità cessa solo quando il matrimonio è dichiarato nullo.

Pertanto, secondo la tesi prospettata in ricorso, l’imputata è “affine in linea retta” della persona offesa, in quanto è figlia del marito di questa, il decesso del padre non fa venir meno il rapporto di affinità in virtù dell’art. 78, comma terzo, cod. civ., dunque si ricade nell’alveo applicativo della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 649 cod. pen..

2.4. Il collegio ritiene corretta la decisione del Tribunale che si pone in linea con gli arresti più recenti della giurisprudenza di legittimità e con le opinioni di autorevole dottrina.

2.5. Riguardo allo stato della giurisprudenza, anzitutto, va registrata una articolata pronuncia della Corte di cassazione (Sez. 2, n. 19668 del 08/04/2010, Adanns, Rv. 247119) che ha affermato il principio secondo cui il rapporto di affinità tra autore e vittima del reato che fonda la causa di non punibilità ovvero la procedibilità a querela di cui all’art. 649 cod. pen. non opera allorché sia morto il coniuge da cui l’affinità stessa deriva e non vi sia prole.

La decisione è stata seguita da Sez. 2, n. 39844 del 27/06/2012, Borrasi (non massimata sul punto) e Sez. 6 n. 5382 del 08/02/2012, Seminara (non massimata); essa trova un precedente conforme nella sentenza Sez. 3, n. 49 del 16/01/1967, Corsi, Rv. 104326.

Con questi interventi si è ritenuto che nel sistema penale debba trovare applicazione non già l’art. 78, comma terzo, cod. civ., bensì l’art. 307, quarto comma, ultima parte, cod. pen. che, in deroga alla disposizione civilistica, detta una disciplina valevole per ogni applicazione della legge penale.

In posizione dissonante – sul tema analogo della applicabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 577, comma secondo, ultima parte, cod. pen. (omicidio contro un «affine in linea retta») – si è collocata, invece, Sez. 5, n. 11254 del 19/10/1982, Caracciolo, che ha stabilito il principio così massimato: «l’omicidio commesso in persona del “patrigno” è aggravato ai sensi dell’ultima parte dell’art. 577 cod. pen., anche nel caso che la madre dell’uccisore non fosse più viva, poiché la norma generica dell’art. 307, ult. parte, cod. pen., riferibile ai prossimi congiunti, non è applicabile quando in singole disposizioni del codice o d’altre leggi si fa richiamo espresso a determinati vincoli di parentela senza riprodurre la limitazione fissata nel citato art. 307» (Rv. 156328).

In realtà la lettura di quest’ultima sentenza lascia emergere come la massima tragga spunto da un obiter dictum – articolato ma irrilevante nel caso concreto – considerato che la decisione si chiude con questa considerazione: «Nella fattispecie sussiste una situazione di fatto che non avrebbe mai potuto consentire di applicare il disposto dell’art. 307 […], poiché il coniuge dell’imputato è addirittura ancora vivo e v’è anche prole [..]».

2.6. Questo collegio condivide la prima (e decisamente prevalente) opzione interpretativa, nella consapevolezza che, in merito all’art. 649 cod. pen., si perviene a un risultato sfavorevole all’imputato poiché si circoscrive il novero dei soggetti beneficiari della causa di non punibilità in rassegna; l’opposto accade, invece, per l’art. 577, comma secondo, cod. pen. ove la delimitazione è favorevole dato che esclude la configurabilità di una circostanza aggravante per coloro che rimangono affini per il diritto civile ma non lo sono più per il diritto penale a seguito della morte senza prole del consanguineo.

La conclusione riposa sugli argomenti di seguito illustrati.

2.6.1. Occorre muovere dal disposto dell’art. 307 cod. pen..

La norma punisce la condotta di assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata.

Al terzo comma, la citata disposizione esclude la punibilità di chi commette il fatto in favore di un «prossimo congiunto»; al quarto comma stabilisce che: «Agli effetti della legge penale, s’intendono per i prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, [ora anche la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso], i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole».

L’esordio del quarto comma, rende palese che qui la norma perde la limitata visuale dei commi precedenti per elevarsi ad una dimensione generale che fornisce la definizione di prossimo congiunto «agli effetti della legge penale» cioè quante volte sia dato di rinvenire, anche in altre disposizioni penali, la valorizzazione del concreto ambito soggettivo della categoria “generale”, nella quale sono ricompresi gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli e le sorelle, gli affini nello stesso grado, zii e nipoti.

«Nei casi di parentela naturale, è ovvio il rilievo attribuito dalla norma ai vincoli di sangue; ma anche nel caso degli affini, i vincoli di sangue finiscono per ricevere indiscutibile considerazione nella previsione normativa, perché ai sensi dell’art. 307 c.p., u.c., l’affinità cessa di avere rilevanza (e l’affine non può annoverarsi tra i prossimi congiunti) allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole; cioè quando anteriormente al reato, sia venuto a mancare il consanguineo che veicola il rapporto di affinità del colpevole con l’altro soggetto considerato nella fattispecie tipica; e quando manchi, inoltre, tra gli affini, alla stregua della seconda ipotesi, il legame di sangue dipendente dalla generazione del fratello o della sorella unilaterale» (così Sez. 2, n. 19668 del 08/04/2010, Adams, in motivazione).

In questi termini l’art. 307 cod. pen. si riferisce al rapporto di affinità nella nozione comune attinta dalla concreta esperienza storica dei rapporti sociali e familiari, mentre non richiama le regole del diritto civile, dalle quali, anzi, si discosta, laddove fa cessare il rapporto di affinità alla morte del coniuge.

La previsione non contempla eccezioni.

Mentre l’art. 78, comma terzo, cod. civ., nell’affermare la regola opposta, lascia spazio a una clausola di riserva: «L’affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati».

Questi «effetti determinati» si rinvengono, all’interno del codice, civile nella disciplina sugli alimenti: a mente dell’art. 434, n. 2, cod. civ. l’obbligazione alimentare del suocero e della suocera e quella del genero e della nuora cessano quando il coniuge, da cui deriva l’affinità, e i figli nati dalla sua unione con l’altro coniuge e i loro discendenti sono morti; tuttavia nulla osta a che l’eccezione contemplata dall’art. 78 cod. civ. possa estendersi anche a quegli «effetti penali» di cui si occupa l’art. 307, quarto comma, cod. pen., di talché la disciplina penalistica trova riconoscimento in quella civilistica, introdotta successivamente (nel 1942).

2.6.2. La condizione di affine riceve specifica considerazione in due gruppi di norme (così Sez. 2, n. 19668 del 08/04/2010, Adams, in motivazione): quelle che usano la formula riassuntiva «prossimi congiunti»; quelle in cui i rapporti di parentela sono indicati in modo analitico.

Rientrano nel primo gruppo, ad esempio, senza pretesa di esaustività:

– all’interno del codice penale, oltre all’art. 307, comma terzo, gli articoli 323, comma primo, 384, comma primo, 418, comma terzo;

– nelle leggi speciali, l’art. 1, comma 4 bis del d.l. n. 8 del 1991;

– nel codice di procedura penale, gli artt. 96, comma 3 e 199, comma 1.

Del secondo gruppo fanno parte gli artt. 564, 577, 600 sexies e 649 cod. pen..

Per il primo gruppo di norme il problema non sorge, posto che l’impiego della endiadi «prossimi congiunti» rimanda, in modo automatico e diretto, alla definizione dell’art. 307, comma quarto, cod. pen, mentre, per il secondo gruppo, occorre domandarsi se la qualità di “affine” rilevi nei limiti della norma penale generale (art. 304, comma quarto, cod. pen.) ovvero se valgono i principi civilistici (art. 78, comma terzo, cod. civ).

Va osservato che in queste norme la nozione di «affine» non si accompagna mai all’esplicito riferimento alla limitazione prevista dall’art. 307, comma quarto, cod. pen.; d’altro canto non viene mai richiamata neppure la disposizione civile. Quindi il silenzio non è significativo.

In realtà l’«omissione», quando riscontrabile, «pare piuttosto dipendere da specifiche esigenze tecniche di formulazione del dettato normativo, in particolare dall’impossibilità di usare l’espressione riassuntiva “prossimi congiunti”, perché in tutte le disposizioni “analitiche”, la rilevanza dei singoli rapporti di parentela è sempre differenziata, o è addirittura esclusa per taluno di essi (vedi, ad es., l’art.600 sexies cod. pen. che non considera i discendenti), con l’ovvia impossibilità del ricorso a formule onnicomprensive» (così Sez. 2, n. 19668 del 08/04/2010, Adams, in motivazione).

Infine sarebbe irragionevole assegnare una diversa considerazione del rapporto di affinità nei due gruppi di norme che vi fanno riferimento.

«Non si vede, ad esempio, perché, ai fini della esclusione della punibilità, il concorrente presupposto dell’esistenza di parenti “naturali” dovrebbe difettare nei casi in cui l’affine sia la vittima del reato, e non il soggetto favorito, dal momento che quando i rapporti di consanguineità “paralleli” al rapporto di affinità siano ormai cessati, è indubbio, tanto in un caso che nell’altro, l’allentamento del rapporto di parentela “derivato”» (così Sez. 2, n. 19668 del 08/04/2010, in motivazione).

2.6.3. Con particolare attinenza alla previsione dell’art. 649 cod. pen. possono svolgersi ulteriori considerazioni.

La rubrica della norma recita: «Non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno dei congiunti».

Qui il termine «congiunti» ricorre nella definizione riassuntiva della categoria delle persone offese, così rimandando anche, lessicalmente, ai «prossimi congiunti» di cui all’art. 307, comma quarto, cod. pen..

Inoltre le singole categorie di soggetti interessate dall’art. 649 cod. proc. pen. coincidono con quelle che l’art. 307 cod. pen. assegna alla nozione di «prossimi congiunti»; ne è ulteriore prova la circostanza che con le modifiche introdotte con la legge sulle unioni civili, n. 6 del 2017 (cd. legge Cirinnà), il legislatore è intervenuto sul testo sia dell’art. 307, comma quarto, cod. pen. sia su quello dell’art. 649 cod. pen., inserendo, in entrambi gli articoli, le parole «la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso», in modo da ricreare quella sovrapposizione perfetta tra i soggetti destinatari delle norme già esistente prima dell’innesto normativo.

Tutto ciò rende ragione di quanto sopra sostenuto con una notazione generale e cioè che, anche in seno all’art. 649, cod. pen., l’impiego di indicazioni analitiche risponde solo a esigenze pratiche: i singoli rapporti seguono regimi differenziati, il che impedisce l’utilizzo di un’unica formula onnicomprensiva.

Infine va osservato che l’art. 307 cod. pen. – nel richiedere l’esistenza in vita del coniuge dal quale deriva il rapporto di affinità, o di prole nata dal matrimonio – tutela il bene dell’unità familiare nella sua dimensione effettiva ed attuale. L’art. 649 cod. pen. trova la propria matrice nella medesima ratio.

Come ha rilevato la Corte Costituzionale (sentenza n. 223 del 2015): «L’art. 649 cod. pen. disegna una tradizionale area di protezione dell’istituzione familiare rispetto all’intervento punitivo statale, specificamente riferita ai delitti di cui al titolo XIII del libro II dello stesso codice, purché – come già rilevato da questa Corte (sentenza n. 302 del 2000) – rechino offesa solo al patrimonio individuale del congiunto.

Il bilanciamento tra l’interesse alla repressione dei delitti indicati e quello alla tutela di beni afferenti la vita familiare è compiuto dal legislatore penale in modo che il grado della protezione in parola sia direttamente proporzionale all’intensità della relazione esistente tra il reo e la persona offesa: facendosi così corrispondere la non punibilità dell’autore (maggioritariamente ricostruita quale causa personale di esclusione della pena) al reato commesso in danno dei familiari più diretti (primo comma), e rimettendosi invece alla vittima la decisione sull’attivazione della reazione penale, in caso di reati commessi nei confronti dei congiunti meno stretti (secondo comma)».

L’art. 649 cod. pen. risponde a finalità di protezione dell’istituzione familiare proprie della disciplina «anche ad eventuale discapito del singolo componente, il quale viene privato della tutela penale offerta dalle norme incriminatrici poste a presidio del patrimonio pure se abbia, nel caso concreto, un personale interesse alla punizione del colpevole» (Corte Cost. sentenza n. 352 del 2000).

Se così è, sarebbe irragionevole ritenere che la causa di non punibilità di cui all’art. 649 cod. proc. pen. operi anche quando «agli effetti della legge penale» il vincolo familiare sia rescisso in modo definitivo; poiché si produrrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra i fatti, non punibili, commessi ai danni di un affine ormai privo di legami per la morte del consanguineo, senza prole, e fatti commessi nei confronti di soggetti in rapporto di attuale consanguineità (come fratelli e sorelle non conviventi) o del coniuge legalmente separato, punibili a querela della persona offesa.

2.6.4. Va pertanto riaffermato il principio per cui, in tema di reati contro il patrimonio, il rapporto di affinità tra autore e vittima del reato che fonda la causa di non punibilità ovvero la procedibilità a querela di cui all’art. 649 cod. pen. non opera allorché sia morto il coniuge da cui l’affinità stessa deriva e non vi sia prole.

3. Il secondo motivo è manifestamente infondato.

L’asserita tenuità del danno patrimoniale si infrange contro il riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen. (punto non impugnato); in ogni caso è dirimente la considerazione che è stata riconosciuta la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 5 cod. pen. per avere l’imputata approfittato delle condizioni di minorata difesa della vittima anche in riferimento all’età della stessa, condizione che esclude ex lege la particolare tenuità dell’offesa secondo l’espressa previsione contenuta all’art. 131-bis comma secondo, cod. pen..

4. Il terzo motivo è inammissibile.

Viene dedotto il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., che riguarda l’erronea interpretazione della legge penale sostanziale (ossia, la sua inosservanza), ovvero l’erronea applicazione della stessa al caso concreto (e, dunque, l’erronea qualificazione giuridica del fatto o la sussunzione del caso concreto sotto la fattispecie astratta).

Non si versa nella denuncia di tale vizio quando, come nel caso in esame, si sia in presenza dell’allegazione di un’erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta; ipotesi, questa, mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa denunciabile sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr. Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, Altoè, Rv. 268404).

Il vizio di motivazione non viene evocato dalla ricorrente, dunque non vi è alcuno spazio di intervento, che, in ogni caso, sarebbe precluso dalla sostanza delle censure, articolate in fatto senza alcun confronto critico con l’impianto argomentativo della sentenza impugnata.

5. Il quarto motivo è inammissibile.

Come già osservato dalla Corte di appello, la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche si basa sullo stato di incensuratezza dell’imputata, elemento che, da solo, non può giustificare l’applicazione delle circostanze invocate, ex art. 62-bis, comma terzo, cod. pen.

In sede di ricorso per cassazione la ricorrente aggiunge la “irreprensibile condotta di vita”, dato meramente asserito e insuscettibile di apprezzamento in questa sede.

Non si collega ad alcun vizio, ed è pertanto inammissibile la considerazione, svolta in conclusione a questo motivo, circa l’inaffidabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.

6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende della somma, che si stima equa, di Euro 3.000,00, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che, tenuto conto di natura e caratteri del procedimento e dell’opera prestata, possono liquidarsi nella somma di euro 3.000,00 oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione alle spese sostenute nel grado dalla parte civile liquidate in euro 3.000,00 oltre accessori di legge.

Così deciso il 30/03/2021.

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2021. 

SENTENZA – copia non ufficiale -.