REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta da
Luca Ramacci – Presidente –
Antonella Di Stasi – Consigliere –
Alberto Galanti – Relatore –
Ubalda Macri – Consigliere –
Fabio Zunica – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
(omissis) (omissis), nata in Belgio il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza del Tribunale di Cassino del 04/05/2023;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Alberto Galanti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore generale, Dr. Gianluigi Pratola, che ha concluso per la conversione del ricorso in appello, con la conseguente trasmissione degli atti alla Corte di appello di Roma per il giudizio.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 04/05/2023, il Tribunale di Cassino condannava (omissis) (omissis) alla pena di euro 15.000,00 di ammenda, così sostituita la pena detentiva, in ordine al reato di cui agli articoli 44 e 95 d.P.R. 380/2001, ordinando altresì la demolizione del manufatto.
2. Avverso il provvedimento l’imputata propone – in data 26 settembre 2023 – appello, convertito in ricorso per cassazione.
Con il primo e unico motivo lamenta violazione dell’articolo 157 cod. pen. per avere la sentenza omesso di dichiarare il reato estinto per prescrizione, pur in presenza di prova documentale e dichiarativa in tal senso.
3. In data 15 febbraio 2024 l’Avv. (omissis) (omissis), quale difensore della ricorrente, depositava memoria in cui sottolineava l’appellabilità della sentenza impugnata, alla luce del principio consolidato secondo cui la sentenza di condanna a sanzione pecuniaria sostitutiva di pena detentiva deve ritenersi appellabile, sussistendo la possibilità di revoca del beneficio, ai sensi dell’art. 72 della legge n. 689/81, e non potendo comunque ritenersi ammissibile il sacrificio del secondo grado di giudizio (Cass. Pen., sez. IV, 22 novembre 2012, n. 45751) e ha evidenziato, altresì, che «l’art. 593, comma 3, c.p.p. fa riferimento alle sole pene di condanna a pena originariamente prevista come ammenda (Cass. Pen., sez. III, 11 aprile 2016, n. 14738)».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Preliminarmente il Collegio evidenzia come sia la difesa del ricorrente che il Procuratore generale abbiano invocato la riqualificazione dell’impugnazione proposta in atto di appello.
1.1. Tale posizione risulta conforme al principio, consolidato nella pregressa giurisprudenza della Corte, secondo cui l’impugnazione esperibile avverso una sentenza di condanna per una contravvenzione per la quale sia stata inflitta la pena dell’ammenda, come sanzione sostitutiva – in tutto o (come nel caso in esame) in parte – dell’arresto, è l’appello e non il ricorso per cassazione, facendo riferimento l’art. 593, comma 3, cod. proc. pen. alle sole sentenze di condanna a pena originariamente prevista come ammenda (v., ex plurimis, Sez. 3, n. 14738 del 11/02/2016, Lupo, Rv. 266833 – 01; Sez. 4, n. 45751 del 08/11/2012, Longo, Rv. 253645-01; Sez. 1, n. 10735 del 05/03/2009, Provvidenti, Rv. 242879). Si era in passato ritenuto, in sostanza (Cass. Pen., sez. 6, 22 novembre 2012, n. 45751, cit.), che la sentenza di condanna a sanzione pecuniaria sostitutiva di pena detentiva dovesse ritenersi appellabile «sussistendo la possibilità di revoca del beneficio, ai sensi dell’art. 72 della legge n. 689/81, e non potendo comunque ritenersi ammissibile il sacrificio del secondo grado di giudizio (v., ex multis, Cass., n. 14241/99, Rv. 215115; Cass., n. 14295/2001, Rv. 221169)».
Il principio riposava su una risalente – ma mai superata – pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 7902 del 03/02/1995, Bonifazi, Rv. 201547 – 02), che riteneva appellabili le sentenze di condanna a pena pecuniaria, in sostituzione di pena detentiva, sulla base di una duplice considerazione.
1.1.1. In primo luogo, si sosteneva che l’utilizzo del termine «applicata» escluderebbe, in concreto, le contravvenzioni per cui la legge prevede, in modo congiunto, l’irrogazione dell’ammenda congiuntamente all’arresto, in quanto la «sostituzione» della pena detentiva con una delle sanzioni sostitutive è una fase successiva a quella della «applicazione» della pena detentiva.
1.1.2. In secondo luogo, la citata sentenza aggiungeva – con specifico riferimento all’istituto della conversione delle pene detentive – che esso prevedeva, in ragione della durata della pena detentiva da sostituire, diverse sanzioni, la cui applicazione presupponeva la irrogazione di una pena detentiva concretamente determinata al fine di selezionare la sanzione sostitutiva concretamente applicabile. Solo tale determinazione consentiva di individuare la sanzione sostitutiva applicabile.
E l’art. 61 della legge cit. n. 689 disponeva, infatti, espressamente, che, nel dispositivo della sentenza di condanna (o del decreto penale) deve essere sempre indicata la specie e la durata della pena detentiva sostituita con la semidetenzione, la libertà controllata o la pena pecuniaria, di modo che l’applicazione della sanzione non faceva venir meno la condanna (alla pena detentiva), ma anzi, la presupponeva e ne era vincolata. Conclusivamente, si riteneva che l’istituto della conversione non concernesse «la sostituzione, in sé, della pena detentiva inflitta, ma solo l’esecuzione di tale pena».
L’assunto è stato recentemente ribadito anche da Sez. 4, Ord. n. 11375 del 30/01/2024, Mamani, Rv. Rv. 286018 – 01, che ha ritenuto ininfluente la modifica operata dal d. Igs. 150/2022 all’articolo 593 cod. proc. pen..
1.2. Non è in discussione il valore nomofilattico del principio espresso dalle citate Sezioni Unite (ancorchè in epoca precedente alla introduzione dell’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen.; sul punto, v. Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273549 – 01); il Collegio tuttavia ritiene che esso richieda una rimeditazione alla luce delle recenti modifiche normative introdotte dal d. Igs. n. 150/2022 (c.d. «riforma Cartabia»), che si ritengono determinanti pur a fronte di quanto asserito dalla sentenza ultima citata (depositata in data 19 marzo 2024 e quindi in epoca successiva alla deliberazione della presente decisione, circostanza che esclude la possibilità di rimettere la questione alle Sezioni Unite della Corte).
Tale riforma ha infatti modificato profondamente sia il «sistema» delle impugnazioni (introducendo, tra l’altro, l’istituto della improcedibilità) che quello sanzionatorio (introducendo, a regime, le «pene sostitutive» in sostituzione delle vecchie «sanzioni sostitutive»).
1.2.1. Con la “Legge Cartabia” è stata operata una modifica di estrema importanza al sistema sanzionatorio penale, posto che, quelle previste dalla legge 689/1981, non sono più rubricate «sanzioni» sostitutive, ma «pene sostitutive di pene detentive brevi».
Il Collegio concorda con quella dottrina secondo cui la modifica non è ispirata da intenzioni di mera «cosmesi nominalistica», ma deriva dalla volontà di chiarire, attraverso un uso preciso e performativo del linguaggio, che le pene sostitutive non sono alternative «a basso costo» a una penalità che è stata sempre fatta coincidere con la pena carceraria, ma sono, al contrario, pene esse stesse, munite di eguale dignità.
Sempre in dottrina si è evidenziato che il dato fondativo della riforma Cartabia è che la pena detentiva non debba più costituire la pietra angolare sulla quale puntellare il sistema sanzionatorio.
Tale conclusione trova conforto nel testo dell’articolo 20-bis cod. pen., introdotto dal d. Igs. 150/2022, il quale stabilisce che le «pene sostitutive della reclusione e dell’arresto» sono disciplinate dal Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689 (artt. 53-76), e sono le seguenti:
– la «semilibertà sostitutiva» e la «detenzione domiciliare sostitutiva» (che possono essere applicate dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a quattro anni);
– il «lavoro di pubblica utilità sostitutivo» (che può essere applicato dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a tre anni);
– la «pena pecuniaria sostitutiva» (che può essere applicata dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a un anno).
Per effetto del rinvio recettizio contenuto nella norma succitata, si deve ritenere che il «sistema» sanzionatorio penale è oggi costituito dalle «pene principali» e dalle «pene accessorie», disciplinate dagli articoli 20 e seguenti del codice penale, nonché dalle «pene sostitutive», previste dall’articolo 20-bis cod. pen. e disciplinate dagli articoli 53 e seguenti della legge 689/1981.
Come ancora evidenziato dalla dottrina, con valutazione che il Collegio condivide, le «pene sostitutive» vanno tenute nettamente distinte dalle «pene alternative alla detenzione» previste dalla legge sull’ordinamento penitenziario, le quali, pur condividendo con quelle in parola lo scopo comune di riconoscere al soggetto autore del reato la possibilità di espiare la pena mediante una misura differente da quella carceraria, differiscono nettamente nella disciplina in quanto – come visto – applicate dal giudice dell’esecuzione anziché della cognizione.
A marcare la differenza tra le due specie di pena soccorre altresì l’eliminazione, nella “legge Cartabia”, rispetto alla proposta avanzata dalla c.d. “Commissione Lattanzi” di riforma del sistema sanzionatorio, dell’affidamento in prova al servizio sociale dal catalogo delle pene sostitutive, per lasciarlo solo tra le pene alternative alla detenzione applicabili in executivis.
Sotto il profilo processuale, poi, l’articolo 545-bis cod. proc. pen. introduce il principio del processo di merito «bifasico»: in esito alla fase del giudizio di responsabilità, si aggiunge quella della determinazione della pena in concreto da applicare (c.d. “sentencing”), il che – a giudizio del Collegio – significa che oggi non è più sostenibile la tesi secondo cui l’applicazione delle sanzioni sostitutive concerne la fase della «esecuzione» della pena, rientrando invece, pienamente, la sostituzione della pena detentiva con le pene sostitutive nella fase di «merito» e segnatamente a quella di individuazione della pena concretamente irrogata, nella specie e nella misura.
1.2.2. Vi è inoltre da considerare che, sul versante delle impugnazioni, l’articolo 593, comma 3, cod. proc. pen., nel testo previgente alla riforma “Cartabia”, era stato già interpolato dall’art 2, comma 1, lett. a), d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11), il quale aveva inserito fra le parole «sono inappellabili» l’espressione «in ogni caso», ad esprimere in termini di assolutezza e tassatività la inappellabilità delle sentenze di condanna alla sola pena della ammenda (in tal senso Sez. 3, n. 47031 del 14/09/2022, Sobrio, Rv. 283825 in motivazione).
Il testo attuale della norma, come sostituito dal d. Igs. 150/2022, stabilisce ora che (il corsivo è del Collegio) «sono in ogni caso inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda o la pena sostitutiva de/lavoro di pubblica utilità».
É, quindi, la legge stessa, nella sua vigente formulazione, che ritiene inappellabili le sentenze che applicano una pena – il lavoro di pubblica utilità – che «originariamente» non può essere edittalmente prevista, proprio in quanto «sostitutiva» di pena principale.
Questa Corte, del resto, ha avuto già modo di ritenere ammissibile il ricorso proposto avverso sentenza di primo grado che ha applicato il lavoro di pubblica utilità in sostituzione della pena detentiva (Sez. 4, n. 42455 del 11/10/2023, Njie, n.m.).
Una lettura sistematica della norma consente quindi di verificare che il legislatore ha inteso ampliare l’area dell’inappellabilità a tutte le pene sostitutive non detentive, confinando il regime di appellabilità alle sole pene sostitutive della semilibertà sostitutiva e della detenzione domiciliare sostitutiva, che invece incidono sulla libertà personale del condannato. Con il che, cade la tesi della necessaria «originaria previsione» della sola pena dell’ammenda.
D’altro canto, anche la «revocabilità» della sanzione sostitutiva – considerato dalla pregressa giurisprudenza quale ulteriore motivo fondante dell’appellabilità – non costituisce, a parere del Collegio, più argomento valido per sostenere la tesi dell’appellabilità della sentenza, posto che anche il lavoro sostitutivo (così come la pena pecuniaria nel caso previsto dall’art. 71 I. 689/1981) può essere revocato ai sensi dell’articolo 66 I. 689/1981, in caso di inosservanza delle prescrizioni.
1.2.3. Da ultimo, occorre considerare il disposto dell’articolo 57, terzo comma, della I. 689/1981, che ribadisce il testo del previgente secondo comma, il quale stabilisce che (il corsivo è del Collegio) «la pena pecuniaria si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva».
Tale previsione, pur se immutata nella forma rispetto al testo previgente, non lo è nella sostanza, posto che – come visto al par. 1.2.1 – le previgenti «sanzioni» sostitutive sono state avvicendate da vere e proprie «pene» sostitutive, a completare il sistema sanzionatorio codicistico, giusto il rinvio contenuto nell’articolo 20-bis cod. pen.. Tale previsione assume quindi oggi una valenza generale che prima le era sconosciuta.
1.3. Anche una lettura teleologica della norma conduce verso analoga conclusione. Ed infatti, dalla lettura della relazione illustrativa del decreto 150/2022 si ricava (pag. 159, il corsivo è del Collegio) che «in attuazione dei criteri di delega di cui all’art. 1, comma 13, lett. c), e), f), I) della legge-delega, le modifiche proposte in tema di appello puntano ad implementarne l’efficienza attraverso una riduzione dell’appellabilità oggettiva delle sentenze e dei casi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Viene pertanto esclusa l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, nonché delle sentenze di condanna qualora sia stata applicata la sola pena dell’ammenda o la nuova pena sostitutiva de/lavoro di pubblica utilità», previsione, questa, che si accorda con l’affermazione (pag. 203 rel. ill.) secondo cui «notevoli sono le potenzialità deflattive della pena pecuniaria sostitutiva, sia sul piano processuale … sia sul piano penitenziario».
È quindi evidente come il legislatore abbia inteso bilanciare l’istituto dell’improcedibilità, che introduce una sorta di «ghigliottina» temporale nel giudizio di merito, con un ampliamento dei casi di inappellabilità delle sentenze.
1.4. Oltre a risultare corretta sotto il profilo letterale, sistematico e teleologico, il Collegio ritiene che la soluzione ermeneutica proposta non presenti tensioni sotto il profilo della «tenuta» costituzionale.
Ed infatti, anche se a livello sovranazionale l’art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966 (ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881) e l’art. 2 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984 (ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98), prevedono il diritto a far riesaminare la decisione da una giurisdizione superiore, o di seconda istanza, il Giudice delle leggi ha in più occasioni affermato il principio secondo cui la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale (v., ex plurimis, sentenze n. 34 del 2020, n. 274 e n. 242 del 2009, n. 298 del 2008, n. 26 del 2007, ordinanze n. 316 del 2002 e n. 421 del 2001, sentenze n. 288 del 1997, n. 280 del 1995, n. 110 del 1963), fino ad affermare da ultimo, con la sentenza n. 58 del 2020, che costituisce dato «acquisito che il doppio grado di giurisdizione di merito non è, di per sé, assistito da copertura costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 199 del 2017 e n. 243 del 2014; ordinanze n. 42 del 2014, n. 226 e n. 190 del 2013), né convenzionale (Corte EDU, sentenza 20 ottobre 2015, Costantino Di Silvio contro Italia, paragrafo 50)». Il principio è stato, del resto, ribadito anche da questa Corte (Sez. 1, n. 5418 del 06/04/1994, Rosizzi, Rv. 197814 – 01).
Tale profilo di carattere ordinamentale consente, ad avviso del Collegio, di superare anche l’affermazione, sostenuta in dottrina, secondo cui, nel caso di sostituzione della pena detentiva con il lavoro sostitutivo, il legislatore delegato avrebbe ritenuto necessario un «consenso» che assuma forme assimilabili a quelle previste per la rinuncia all’impugnazione, così ascrivendo rilevanza al fatto che la condanna al lavoro sostitutivo comporta anche la inappellabilità della sentenza (arg. ex art. 58, terzo comma, I. 689/1981: «le pene sostitutive della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità possono essere applicate solo con il consenso dell’imputato, espresso personalmente o a mezzo di procuratore speciale», e 545-bis 6 cod. proc. pen., secondo cui il giudice procede alla sostituzione «acquisito, ove necessario, il consenso dell’imputato»).
Poiché analogo consenso non è previsto per la sostituzione con la pena pecuniaria, l’assenza dell’elemento consensualistico non consentirebbe – secondo tale opinione – l’abdicazione ad un grado di giudizio nel caso di applicazione della pena pecuniaria sostitutiva.
Tale assunto, per quanto seducente, ad avviso del Collegio non può essere condiviso.
Ed infatti, se per un verso appare evidente che il consenso viene prevalentemente richiesto dalla norma non quale contrappeso per la rinuncia all’impugnazione di merito, ma in quanto con la pena sostitutiva si richiede un facere al condannato (specularmente a quanto previsto dall’articolo 165, primo comma, cod. pen., in relazione alla «prestazione di attività non retribuita a favore della collettività»), dall’altro, l’assenza di una copertura costituzionale del doppio grado di giudizio consente di ritenere non irragionevole una previsione legislativa che, in ragione della natura meno afflittiva della pena pecuniaria rispetto a una pena detentiva (o che comunque impone un facere al condannato), escluda il secondo grado di giudizio con finalità deflattiva del sistema delle impugnazioni.
1.5. Il Collegio ritiene, in conclusione, oggi superato il precedente orientamento e ritiene che, in un’ottica di semplificazione del sistema delle impugnazioni volto a garantire maggiore selezione (si pensi alle norme deflattive introdotte all’articolo 581, commi 1-ter e 1-quater, cod. proc. pen.) e celerità nella definizione dei processi, sia oggi non più consentito appellare le sentenze a condanna alla sola pena della ammenda, anche se applicata in conversione di pena detentiva breve. Se ne deduce quindi il principio secondo cui in tema di appellabilità delle sentenze, per effetto delle modifiche introdotte dal d. Igs. 150/2022 all’articolo 593, comma 3, cod. proc. pen., e dell’introduzione delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, di cui all’articolo 20-bis cod. pen. e 53 ss., I. 689/1981, è inappellabile la sentenza di condanna che ha applicato la pena dell’ammenda, anche in sostituzione – in tutto o in parte – della pena dell’arresto.
2. Ciò premesso, come accennato, il ricorso è inammissibile.
Il reato di costruzione abusiva cessa con il totale esaurimento dell’attività illecita e, quindi, soltanto quando siano terminati i lavori di rifinitura (Sez. 3, n. 14280 del 16/12/2022, dep. 2023, Porpiglia, n.m.; Sez. 3, n. 46215 del 03/07/2018, Rv. 274201 – 01; Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153, secondo cui deve ritenersi «ultimato» solo l’edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall’attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l’ultimazione dell’immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni; Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali, Rv. 246221) ovvero, se precedente, con il provvedimento di sequestro, che sottrae all’imputato la disponibilità di fatto e di diritto dell’immobile (Sez. 3, n. 5654 del 16/03/1994, Rv. 199125).
3. Nel caso di specie, la documentazione prodotta nel corso del giudizio dalla odierna ricorrente attesterebbe – secondo l’assunto difensivo – che i lavori di ampliamento (peraltro poi demoliti) realizzati, per circa 30 metri quadri, funzionali alla realizzazione di una «sala giochi» attigua al proprio esercizio commerciale, sono stati realizzati ed ultimati nell’anno 2010.
La sentenza impugnata, sul punto (pag. 4), evidenzia che, dalle fotografie acquisite agli atti, emerge l’ottimo stato di conservazione del manufatto, incompatibile con una risalente realizzazione, ragion per cui esclude l’intervenuta prescrizione.
La censura, che si appunta sulla errata valutazione da parte del giudice, è stata espressa dall’imputata sul fatto come cristallizzato dalle prove, coerentemente con la struttura dell’impugnazione originariamente proposta, il quale non è – tuttavia – suscettibile di rivalutazione in sede di legittimità.
E’ infatti preclusa, alla Corte, «la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova» (così, di recente, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; in senso conforme, ex plurimis, v. Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; da ultimo cfr. Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018, dep. 2019, Battaglia, Rv. 275100, in motivazione).
Il ricorso é pertanto inammissibile.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 13/03/2024.
Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.