Induzione indebita per l’agente della Polizia Locale che chiede soldi per la casa popolare (Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 21 aprile 2020, n. 12612).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISCUOLO Anna – Presidente

Dott. COSTANZO Angelo – Consigliere

Dott. MOGINI Stefano – Consigliere

Dott. ROSATI Martino – Rel. Consigliere

Dott. APRILE Ercole – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MAFFEO Sisto, nato a Ceccano (FR) il xx/xx/xxxx;

avverso la sentenza del 10/04/2019 della Corte di appello di Roma;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Martino Rosati;

sentite le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del Sostituto Dott.ssa Perla Lori, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

uditi i difensori avv. Grazia Grieco, in sostituzione dell’avv. Massimo Biffa, ed avv. Giovanni Destito, che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Oggetto di scrutinio è la sentenza della Corte di appello di Roma del 10 aprile 2019, che, riformando quella del Tribunale della stessa città del 22 gennaio 2016 soltanto in punto di durata della pena accessoria, ha confermato la condanna con quella inflitta all’agente di polizia locale Sisto Maffeo, per il delitto di tentata induzione indebita a dare o promettere utilità, previsto e punito dagli artt. 56 e 319 -quater, cod. pen., ch’egli avrebbe commesso in danno di tale Katiuscia Di Palo, chiedendole la somma di cinquecento euro — secondo la contestazione – «per farle assegnare un alloggio popolare… già oggetto di abusiva occupazione».

Avverso tale sentenza, Maffeo ricorre per cassazione con distinti atti di entrambi i suoi difensori.

2. Il ricorso proposto dall’avv. Biffa propone quattro ragioni di doglianza.

2.1. La prima attiene alla veste processuale della predetta Di Palo e del suo compagno Luca Pantellini ed ai riflessi in tema di utilizzabilità delle loro dichiarazioni.

Essi, infatti, sono stati escussi in dibattimento come testimoni, mentre sarebbe stato necessario esaminarli in qualità di imputati in procedimento connesso o di reato collegato, essendo a quel momento imputati in diverso processo per i delitti di cui agli artt. 633 e 635, cod. pen., in relazione alle condotte accertate e denunciate dal ricorrente, in occasione dell’intervento da cui è poi scaturita anche l’accusa verso di lui. Non a caso – evidenzia la difesa – quest’ultimo, nel processo a carico di costoro, è stato esaminato ai sensi dell’art. 210, cod. proc. pen.. In ragione, pertanto, del mancato rispetto delle relative formalità di rito, le dichiarazioni di costoro sarebbero inutilizzabili.

2.2. Con il secondo motivo, si censura l’inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie della Di Palo, con particolare riferimento al fatto che la richiesta di denaro le sarebbe stata rivolta dal Maffeo lo stesso giorno in cui poi è intervenuto lo sgombero dell’immobile, e dunque il 6 dicembre del 2011.

Tale affermazione, infatti, risulterebbe smentita da produzione documentale difensiva, attestante la presenza del ricorrente, in quella data, presso il Tribunale di Roma, dov’era stato citato a comparire quale testimone. Indimostrata, inoltre, è l’alternativa ipotesi per cui tale richiesta potrebbe essere stata avanzata dal Maffeo il 2 dicembre precedente, in occasione dell’apposizione dei sigilli alla porta di quell’appartamento: il suo collega Pregagnoli, infatti, che lo aveva coadiuvato in tale attività, sentito in dibattimento quale testimone, ha negato che, nell’occasione, essi siano stati avvicinati da una donna.

2.3. Il terzo motivo denuncia la mancata assunzione di una prova decisiva ed il connesso vizio di motivazione, in relazione al diniego di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello per l’assunzione della testimonianza di un altro collega dell’imputato, tale Dario Codino, a confutazione di quanto raccontato dal testimone Franzese.

Quest’ultimo, infatti, con deposizione particolarmente valorizzata in sentenza, ha riferito di specifiche accuse di mercimonio della funzione, rivolte dal padre della Di Palo all’imputato, all’esterno dell’appartamento, nel corso delle procedure di sgombero, e della sollecitazione dell’altro a tacere, con l’aggiunta: «adesso strappiamo tutto».

Deduce la difesa che, essendo Codino sempre rimasto all’esterno dell’abitazione, avrebbe potuto riferire su quanto realmente accaduto nel frangente.

La Corte di merito ha respinto la relativa richiesta, spiegando le ragioni per le quali non abbia ritenuto tale prova decisiva, a norma dell’art. 603, cod. proc. pen., anziché dar conto – come invece avrebbe dovuto – della legittimità o meno dell’ordinanza di rigetto, da parte del primo giudice, della relativa istanza istruttoria avanzatagli ex art. 507, cod. proc. pen..

2.4. Con l’ultimo motivo, si censura la qualificazione giuridica del fatto.

Muovendo dall’affermazione della stessa Di Palo e del suo compagno, secondo cui essi non avevano comunque alcuna intenzione di assecondare la richiesta di denaro in ipotesi avanzata dal Maffeo, nonché dalla spregiudicatezza di costoro, resisi autori di altre occupazioni abusive di alloggi popolari, prima e dopo d’allora, la difesa adduce che gli stessi abbiano comunque trattato in posizione di parità con l’imputato, senza soffrirne alcun metus. Ragione per cui i fatti andrebbero ricondotti nella fattispecie della corruzione di cui all’art. 319, cod. pen., con la conseguenza che le ipotizzate persone offese non sarebbero più tali, bensì correi, e le loro dichiarazioni non sarebbero utilizzabili, poiché assunte in violazione degli artt. 63, 64 e 210, cod. proc. pen..

3. In cinque distinti motivi, invece, l’avv. Destito deduce violazione di legge e vizi di motivazione in relazione ai profili di seguito sintetizzati.

3.1. Inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie della Di Palo. La Corte, senza curarsi di saggiare previamente la credibilità soggettiva di costei e l’attendibilità del suo narrato, come invece impone la costante giurisprudenza di legittimità, ne ha ritenuto affidabile la testimonianza per due ragioni:

1) l’assenza d’interesse a calunniare Maffeo;

2) l’atteggiamento conciliante, suo e dei suoi familiari, che non hanno sporto denuncia ed hanno poi revocato anche la costituzione di parte civile.

Replica, tuttavia, la difesa, quanto al primo punto, che in realtà v’era più d’una ragione di risentimento, da parte di costoro, verso l’imputato, il quale, negli anni, li aveva denunciati più volte per fatti analoghi e, anche in quella occasione, ne stava disponendo lo sgombero. Il fatto, poi, che essi si siano scagliati solo contro di lui e non verso altri suoi colleghi operanti, invece, sarebbe dipeso unicamente dalla circostanza per cui, nel frangente, egli soltanto era rimasto all’esterno.

Nessun atteggiamento conciliante, poi, i Di Palo avrebbero tenuto: perché le dichiarazioni da loro rese alla polizia giudiziaria, seppur prive di una specifica istanza di punizione, erano comunque idonee a generare un procedimento penale, trattandosi di accuse concernenti reati perseguibili d’ufficio; e perché, inoltre, non sono note le ragioni della loro rinuncia alla costituzione di parte civile, che può essere determinata dai motivi più vari, compresi i costi per l’assistenza legale od il timore di incorrere in una denuncia per calunnia.

Inoltre, la difesa ricorrente evidenzia:

a) che Maffeo ha sempre contestato le accuse rivoltegli dalla famiglia Di Palo, sia in occasione dei fatti che, poi, in dibattimento, per cui la contraria affermazione contenuta in sentenza non è fondata, oltre che contraddetta da un successivo passaggio della stessa (pagg. 5 e 6);

b) che, secondo quanto riferito dagli stessi Di Palo, è stato lo stesso imputato a richiedere l’intervento dei Carabinieri, ciò che evidentemente non avrebbe mai fatto, semmai avesse stipulato un accordo illecito con costoro;

c) che – come sottolineato dal co-difensore – quel giorno Maffeo era in Tribunale.

3.2. Il secondo motivo propone le medesime doglianze avanzate dall’avv. Biffa con il primo motivo del proprio ricorso, in tema di qualifica processuale della Di Palo e del suo compagno.

3.3. Con il terzo motivo, si denuncia il difetto di correlazione tra imputazione sentenza.

Maffeo è stato tratto a giudizio con l’accusa di aver tentato di farsi dare del denaro dalla Di Palo, «per farle assegnare un alloggio popolare». In dibattimento, sia la donna che il suo compagno hanno ribadito che la richiesta era stata loro rivolta «per farci assegnare casa».

La Corte distrettuale, nel respingere la medesima censura già formulata con l’atto di appello, ha escluso qualsiasi difetto di correlazione, rilevando che ciò che si contestava all’imputato era essenzialmente di «avere assicurato il pacifico godimento dell’immobile occupato senza titolo».

Sostiene, invece, la difesa che si tratti di condotte del tutto differenti, e non solo nominalmente, dovendo considerarsi che, affinché possa integrarsi l’ipotizzato delitto, l’atto oggetto di mercimonio da parte dell’agente pubblico deve rientrare nelle competenze istituzionali dell’ufficio cui appartiene: e, nello specifico, è indiscutibile che l’assegnazione di un alloggio popolare esuli dalle funzioni proprie di un agente della polizia municipale, qual è l’imputato.

3.4. Muovendo dalla ritenuta necessità che l’atto d’ufficio “venduto” dal pubblico funzionario rientri nelle competenze istituzionali dell’ufficio da lui specificamente ricoperto, con il quarto motivo di ricorso si sostiene che Maffeo abbia comunque agito, in ipotesi, in assenza della necessaria qualifica pubblica, non svolgendo alcun ruolo all’interno dell’amministrazione deputata alla gestione dell’edilizia popolare.

Pertanto, essendo tale circostanza ben nota ai Di Palo, in quanto «occupanti seriali di case popolari» (così testualmente in ricorso), nella condotta addebitata all’imputato potrebbero ravvisarsi, semmai, gli estremi del tentativo di truffa, che tuttavia sarebbe improcedibile per difetto di querela.

3.5. Infine, con l’ultimo motivo, la difesa rappresenta che, quand’anche i fatti fossero andati sì come ipotizza l’accusa, si sarebbe comunque in presenza di un reato impossibile: avendo la stessa Di Palo immediatamente autodenunciato la propria occupazione abusiva alla Polizia municipale, nonché avendo Maffeo ed i suoi colleghi intervenuti redatto il relativo verbale, peraltro in termini per nulla compiacenti, al punto che ne è scaturito un processo penale per la donna ed il suo compagno, se ne dovrebbe coerentemente desumere che la condotta asseritamente tenuta dall’imputato non avrebbe mai permesso di realizzare l’evento del reato, ossia l’illegittima assegnazione dell’alloggio alla Di Palo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il reato per il quale il ricorrente è stato ritenuto colpevole si è estinto per prescrizione nelle more della presente impugnazione.

Essendo la prescrizione un istituto di diritto sostanziale (Corte cost., sentenza n. 393 del 23 novembre 2006), deve aversi riguardo alla relativa disciplina in vigore al momento del fatto. Pertanto, in relazione alla misura della pena edittale, allora pari nel massimo a cinque anni e quattro mesi di reclusione, il termine di prescrizione è di sei anni, prorogato, per effetto di successive interruzioni, a sette anni e sei mesi, a decorrere dalla data di commissione del reato: ovvero dal 6 dicembre 2011.

Considerando, inoltre, che il relativo decorso, secondo quanto si evince dal fascicolo allegato dal giudice a quo, è rimasto sospeso – ai sensi dell’art. 159, comma 1, n. 3), cod. pen. – per complessivi quattro mesi e ventuno giorni, detto termine è spirato il 27 ottobre 2019.

2. Pur quando non dedotta con i motivi di ricorso o – se maturata successivamente – in sede di conclusioni, la causa di estinzione del reato, al pari di ogni altra ragione di proscioglimento immediato di cui all’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., qualora sopravvenga al provvedimento impugnato, è rilevabile d’ufficio dalla Corte di cassazione, non implicando la necessità di accertamenti in fatto o di valutazioni di merito, incompatibili con i limiti del giudizio di legittimità (Sez. U, n. 8413 del 20/12/2007, Cassa, Rv. 238467, proprio in tema di prescrizione).

Ciò vale, a meno che tutti i motivi del ricorso proposto siano inammissibili, anche soltanto per manifesta infondatezza, poiché tale situazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità, a norma dell’art. 129, cit. cod. proc. pen. (così, sempre con precipuo riferimento alla prescrizione, Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266).

Per altro verso, la presenza di tale causa di estinzione del reato fa sì che, in sede di legittimità, non siano rilevabili eventuali nullità di ordine generale né vizi di motivazione della sentenza impugnata, in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275).

3. In applicazione di tali princìpi al caso di specie, deve rilevarsi, anzitutto, come non tutti i motivi di ricorso, benché infondati, siano tali con manifesta evidenza, sì da dover essere dichiarati inammissibili.

3.1. Tanto dicasi per il primo motivo proposto dall’avv. Biffa, in tema di qualifica processuale delle persone offese e di conseguente utilizzabilità delle loro dichiarazioni, ove si ponga mente all’obiettiva complessità della disciplina di riferimento e dei presupposti del c.d. “collegamento probatorio” di cui all’art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., correttamente tratteggiati dalla Corte di appello e non ravvisabili nella specie, ma non sempre suscettibili di essere colti all’evidenza.

3.2. Altrettanto vale per il quarto motivo rassegnato da quel difensore, in tema di analisi differenziale tra corruzione ed induzione indebita.

Anche sotto questo aspetto, la sentenza impugnata ha ben evidenziato come il discrimine non risieda nella verificazione o meno, in concreto, dell’effetto intimidatorio sul privato interlocutore dell’agente pubblico, ma nell’oggettiva idoneità prevaricatrice e costrittiva della condotta di quest’ultimo: caratteristica che la sentenza impugnata ravvisa ed illustra in modo adeguato, descrivendo lo squilibrio nei rapporti di forza tra le parti, in ragione degli effetti condizionanti esercitati sull’atteggiamento psicologico delle vittime dal carattere primario del loro interesse coinvolto, qual è quello all’abitazione.

Le contrarie deduzioni difensive, dunque, pur non fondate, non si presentano all’evidenza inconsistenti, data l’obiettiva difficoltà del confine tra le due fattispecie incriminatrici.

3.3. Infine, valutazioni analoghe debbono riservarsi anche al primo motivo del ricorso avanzato dall’avv. Destito, in ragione delle incertezze evidenziate nella testimonianza di Katiuscia Di Palo, quantunque non decisive e superate dalla Corte di appello con motivazione complessivamente persuasiva ma, non di meno, articolata.

4. In ragione di tanto, la sentenza impugnata dev’essere annullata senza rinvio, ai sensi dell’art. 620, lett. a), cod. proc. pen., poiché il reato è estinto per intervenuta prescrizione.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.