Ingiustificato arricchimento: il depauperato non deve provare l’utilitas della prestazione (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 28 ottobre 2024, n. 27753).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

TERZA SEZIONE CIVILE

composta dai signori magistrati:

dott. Franco DE STEFANO – Presidente

dott. Pasqualina Anna Piera CONDELLO – Consigliere

dott. Stefano Giaime GUIZZI – Rel. Consigliere

dott. Raffaele ROSSI – Consigliere

dott. Salvatore SAIJA – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 14308-2020 proposto da:

(omissis) S.R.L.U., in persona del legale rappresentante “pro tempore”, (omissis) (omissis), elettivamente domiciliata in Roma, via (omissis) (omissis) 20, presso lo studio dell’Avvocato (omissis) (omissis) (omissis), rappresentata e difesa dall’Avvocato (omissis) (omissis);

-ricorrente-

contro

COMUNE DI (omissis), in persona del Sindaco “pro tempore ”, domiciliato presso l’indirizzo di posta elettronica del proprio difensore, rappresentato e difeso dall’Avvocato (omissis) (omissis);

-controricorrente-

nonché da

(omissis) (omissis), elettivamente domiciliato in Roma, via (omissis) (omissis) 20, presso lo studio dell’Avvocato (omissis) (omissis) (omissis), rappresentato e difeso dall’Avvocato (omissis) (omissis);

-ricorrente adesivo-

Avverso la sentenza n. 31/2020 del Tribunale di Lecce, depositata in data 09/01/2020;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 05/06/2024 dal Consigliere Dott. Stefano Giaime GUIZZI.

FATTI DI CAUSA

1. (omissis) S.r.l.u. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 31/20, del 9 gennaio 2020, del Tribunale di Lecce, che – accogliendo il gravame esperito dal Comune di (omissis) avverso la sentenza n. 254/17, del 16 giugno 2017, del Giudice di pace di Tricase – ha accolto l’opposizione, proposta dal medesimo Comune, avverso il provvedimento monitorio che gli ingiungeva il pagamento, in favore della predetta società, dell’importo di € 1.830,00, maggiorato degli interessi ex art. 5 del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 e delle spese della procedura, provvedimento emesso in relazione al completamento di taluni lavori eseguiti per l’apertura di una strada nel pressi della piscina comunale.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente che il suddetto ente municipale, nell’opporsi al decreto ingiuntivo (emesso sulla base di fattura allegata da (omissis) al ricorso monitorio), in primo luogo eccepiva di non aver dato alcun incarico alla società ingiungente, bensì a soggetto giuridicamente del tutto diverso, ovvero alla ditta individuale (omissis) di (omissis) (omissis).

In secondo luogo, l’opponente contestava che i lavori fossero stati eseguiti correttamente, deducendo essere in corso un’indagine della magistratura per appurare la qualità del materiale utilizzato.

La società odierna ricorrente, costituitasi in giudizio, nel sottolineare di essere subentrata nel rapporto già intrattenuto dal Comune di (omissis) con la ditta individuale di (omissis) (omissis) (ovvero, il proprio legale rappresentante), domandava il rigetto dell’opposizione e, comunque, la condanna dell’opponente al pagamento della somma ingiunta, eventualmente anche ai sensi dell’art. 2041 cod. civ.; interveniva volontariamente in giudizio, ex art. 105 cod. proc. civ., anche il (omissis), sia in proprio che nella qualità di già titolare della ditta individuale (omissis), aderendo alle richieste dell’opposta.

Rigettata l’opposizione dal primo giudice, il giudice d’appello – su gravame del Comune – lo accoglieva, ritenendo che non vi fosse prova che la società (omissis) fosse succeduta alla ditta individuale del (omissis) nella relazione contrattuale da questa intrattenuta con il Comune.

Inoltre, per quanto qui specificamente d’interesse, il giudice di seconde cure escludeva che la domanda di pagamento di (omissis) potesse trovare accoglimento ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., avendo il Comune “espressamente contestato, anche con specifico motivo di impugnazione, l’esatto adempimento dell’obbligazione e comunque l’utilità dei lavori eseguiti”.

Contestazione, sottolineava il giudice d’appello, basata sul sequestro dell’area di cantiere disposto dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lecce, provvedimento al quale, poi, aveva fatto seguito un’ordinanza emessa dal Sindaco del medesimo Comune, che intimava, proprio alla società odierna ricorrente, “di provvedere alla rimozione e smaltimento dei rifiuti interrati” in detta area.

Orbene, a fronte di tale “specifica contestazione”, la società opposta – sottolinea la pronuncia qui impugnata – “non ha fornito alcuna prova di aver correttamente eseguito i lavori e comunque dell’utilità che il Comune avrebbe conseguito dai lavori stessi”.

3. Avverso la sentenza del Tribunale salentino e ha proposto ricorso per cassazione (omissis), sulla base – come detto – di due motivi.

3.1. Il primo motivo denuncia –ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ. –“nullità della sentenza” per “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112, 342 e 345 cod. proc. civ.”.

Si duole l’odierna ricorrente, in primo luogo, del fatto che il giudice d’appello avrebbe motivato con “una generica frase di stile” il rigetto dell’eccezione di inammissibilità del gravame, da essa (omissis) sollevata ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ., ovvero per difetto di specificità dei motivi. In secondo luogo, (omissis) addebita al Tribunale di Lecce di aver “omesso di argomentare” le ragioni sottese al rigetto della eccezione da essa proposta a norma dell’art. 345 cod. proc. civ., in particolare per lamentare che il Comune di (omissis), mentre in primo grado aveva richiesto solo il rigetto della domanda monitoria, in appello aveva chiesto, in via di subordine, anche di “riconoscere e dichiarare” che le somme pretese dalla convenuta opposta (e dall’interveniente) non erano dovute neppure a titolo di indebito arricchimento.

3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. –“violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e in particolare degli artt. 2041 e 2042 cod. civ.”. Si censura la sentenza impugnata là dove afferma che, a fronte della contestazione del Comune circa l’effettiva utilità dei lavori eseguiti, era onere di essa (omissis) fornire la prova di tale utilità.

Così argomentando, tuttavia, il giudice d’appello avrebbe disatteso il principio – che si deduce essere stato enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte e ribadito da pronunce successive – secondo cui il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di “arricchimento imposto”.

4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, il Comune di (omissis), chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.

5. A propria volta, il (omissis), sia in proprio che nella qualità di già titolare della ditta individuale (omissis), ha aderito, con controricorso, ai motivi d’impugnazione proposti dalla società ricorrente.

6. La trattazione dei ricorsi è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

7. Sia la (omissis) che il (omissis) hanno presentato memoria.

8. Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.

RAGIONI DELLA DECISIONE

9. In via preliminare va evidenziato che l’iniziativa assunta dal (omissis) – sebbene con atto denominato “controricorso” – costituisce, a tutti gli effetti, impugnazione incidentale della sentenza, avendo il medesimo espressamente concluso per la cassazione della stessa.

Tanto, per vero, s’impone alla stregua del principio secondo cui non osta alla qualificazione del controricorso adesivo, in termini di ricorso incidentale, neppure la circostanza che esso contenga in forma solo implicita la richiesta di cassare la sentenza impugnata (cfr., da ultimo, Cass. Sez. Lav., ord. 7 marzo 2024, n. 6154, Rv. 670349-02).

10. Ciò detto, entrambi i ricorsi vanno accolti, nei limiti di seguito indicati.

10.1. Il primo motivo è inammissibile, in entrambe le censure in cui si articola.

10.1.1. Tale esito, in primo luogo, s’impone per la doglianza relativa al mancato rilievo del difetto di specificità dei motivi di appello proposti dal Comune, perché essa non rispetta l’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ.

Difatti, “il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione”, che “trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte” (sancito dall’art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ.), “trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito; ne discende che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ., conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte; l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un «error in procedendo», presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per assicurare il rispetto del principio di autosufficienza di esso” (Cass. Sez. 1, ord, 23 dicembre 2020, n. 29495, Rv. 660190-01; in senso conforme già Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 82, Rv. 621100-01).

Nella specie, ciascuno dei ricorrenti non ha riprodotto i motivi di gravame del Comune di (omissis), almeno nella loro essenzialità, e dunque in misura idonea a consentire di vagliarne la conformità al disposto dell’art. 342 cod. proc. civ.; invero, “la deduzione della questione dell’inammissibilità dell’appello, a norma dell’art. 342 cod. proc. civ.”, seppur “integrante «error in procedendo», che legittima l’esercizio, ad opera del giudice di legittimità, del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, presuppone pur sempre l’ammissibilità del motivo di censura, avuto riguardo al principio di specificità di cui all’art. 366, comma 1, n. 4) e n. 6), cod. proc. civ., che deve essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa Succi ed altri c/Italia), secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dalla trascrizione essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza” (Cass. Sez. Lav., ord. 4 febbraio 2022, n. 3612, Rv. 663837-01, peraltro relativa alla fattispecie, “simmetrica” alla presente, in cui la doglianza di violazione dell’art. 342 cod. proc. civ. mirava a stigmatizzare la decisione del giudice d’appello di ritenere non specifici i motivi di gravame). Si tratta, peraltro, di un’esigenza – come è stato icasticamente osservato – che “non è giustificata da finalità sanzionatorie nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge”, ma che “risulta, piuttosto, ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nell’individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 82 del 2012, cit.).

10.1.2. Analogamente, anche la censura di violazione dell’art.345 cod. proc. civ. è inammissibile, perché non conforme al disposto dell’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ.

Infatti, ciascuno dei ricorsi, mentre riproduce uno stralcio dell’atto di appello del Comune (per evidenziare come esso recasse, in via di subordine, la richiesta di denegare il pagamento a (omissis) anche per difetto dei presupposti ex art. 2041 cod. civ.), non altrettanto ha fatto per gli scritti defensionali di primo grado, in modo da rendere questa Corte edotta dell’effettiva novità di tale domanda, e dunque della violazione dell’art. 345 cod. proc. civ.

Ognuno dei ricorrenti, pertanto, non ha provveduto a riprodurre il contenuto di tali scritti, almeno nella misura necessaria a soddisfare quell’onere di “puntuale indicazione” del documento o atto su cui si fonda il ricorso (cfr. Cass. Sez. Un, ord.18 marzo 2022, n. 8950, Rv. 664409-01), che è richiesto dall’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ., pur nell’interpretazione “non formalistica” della stessa che –in base al testé citato arresto delle Sezioni Unite – s’impone alla luce della sentenza della Corte EDU Succi e altri c. Italia, del 28 ottobre 2021.

10.2. Il secondo motivo di entrambi i ricorsi, invece, è fondato.

10.2.1. Erra, infatti, il Tribunale salentino quando, nel rigettare la domanda ex art. 2041 cod. civ., proposta da (omissis) in via di subordine, afferma che, a fronte della contestazione – da parte del Comune di Specchia – dell’assenza della “utilitas” della prestazione resa in proprio favore, l’opposta (omissis) “non ha fornito alcuna prova di aver correttamente eseguito i lavori e comunque dell’utilità che il Comune avrebbe conseguito dai lavori stessi”, ponendo, invero, a carico della stessa un onere probatorio che la norma suddetta non contempla.

Come, infatti, ancora di recente ribadito da questa Corte “a fronte di un pregresso e prevalente orientamento che condizionava l’accoglimento dell’azione” di ingiustificato arricchimento “al riconoscimento dell’utilitas da parte della pubblica amministrazione, e cioè al riscontro di una valutazione soggettiva in capo all’ipotetico arricchito, le Sezioni Unite” – il riferimento è, ovviamente, a Cass. Sez. Un., sent. 26 maggio 2015, n. 10798, Rv. 635369-01 – “hanno posto l’accento sulla connotazione invece strettamente oggettiva dell’arricchimento che il depauperato deve provare, senza che l’amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso” (così, Cass. Sez. 1, ord. n. 10317 del 2021, cit.).

Provato, dunque, da chi agisce a norma dell’art. 2041 cod. civ. il proprio depauperamento (e il contestuale arricchimento della Pubblica Amministrazione), l’accoglimento dell’iniziativa dallo stesso assunta incontra il solo “limite del divieto di arricchimento imposto”, giacché “il diritto fondamentale di azione del depauperato” deve “adeguatamente coniugarsi con l’esigenza, altrettanto fondamentale, del buon andamento dell’attività amministrativa, affidando alla stessa pubblica amministrazione l’onere di eccepire e provare il rifiuto dell’arricchimento o l’impossibilità del rifiuto per la sua inconsapevolezza” (così, nuovamente, Cass. Sez. 1, ord. n. 10317 del 2023, cit., che richiama Cass. Sez. Un., n. 10798 del 2015, cit.; in senso conforme pure Cass. Sez. 1, sent. 7 giugno 2017, n. 15937, Rv. 644667-02; Cass. Sez. 3, ord. 24 aprile 2019, n. 11209, Rv. 653710-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 5 novembre 2020, n. 24642, Rv. 659918-01).

A stretto rigore, poi, non solo l’impoverito non deve provare alcuna utilità della P.A. in cui favore ha eseguito le sue prestazioni, ma neppure ha l’onere di dimostrare la regolarità dell’esecuzione di quelle, se non altro quando, come pare prospettato nella specie, quelle prestazioni pacificamente siano state rese: pertanto, i risultati di queste vanno valutati nella loro ontologica consistenza e, cioè, al fine di determinare l’entità concreta dell’arricchimento(benché una loro eventuale scorretta esecuzione possa diminuire tale entità); e sempre salvo il caso del cosiddetto arricchimento imposto, che non può riconoscersi.

11. In conclusione, il primo motivo di entrambi i ricorsi va accolto e l’impugnata sentenza cassata in relazione, con rinvio al Tribunale di Lecce, in persona di diverso magistrato, per la decisione sul merito e sulle spese, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità, alla stregua del seguente principio di diritto:

in caso di esercizio dell’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti di una Pubblica Amministrazione, è irrilevante, di per sé sola considerata, l’utilità della prestazione espletata, sicché, eccepitane la carenza da parte della convenuta, l’attore non è onerato dal dover provare la sua sussistenza”.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di entrambi i ricorsi e accoglie il secondo motivo di entrambi i ricorsi; cassa in relazione la sentenza impugnata, rinviando al Tribunale di Lecce, in persona di diverso magistrato, per la decisione sul merito e sulle spese, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Terza Sezione civile il giorno 5 giugno 2024.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2024.

SENTENZA – copia non ufficiale -.