La Cassazione affronta nuovamente una controversia avente ad oggetto la tematica dei c.d. buoni postali fruttiferi (Corte di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza 16 settembre 2024, n. 24715).

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

PRIMA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

MARCO MARULLI -Presidente

(OMISSIS) (OMISSIS) -Consigliere

(OMISSIS) (OMISSIS) -Consigliere

(OMISSIS) (OMISSIS) -Consigliere

PAOLO FRAULINI -Consigliere – Rel.

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11448/2021R.G. proposto da:

Poste Italiane S.p.A., in persona del l.r.p.t., elettivamente domiciliata in Roma, via A. (OMISSIS) n. 33 , presso lo studio dell’avv. (omissis) (omissis), che la rappresenta e difende giusta procura in atti;

–ricorrente–

Contro

(omissis) (omissis), (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis), quali eredi di (omissis) (omissis), domiciliati in Roma, piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte Suprema di cassazione e all’indirizzo pec (omissis)@bergamo.pecavvocati.it, rappresentati e difesi dagli avv.ti (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis) (omissis), giusta procura in atti del 24.11.2022;

–controricorrenti–

avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia, sezione civile, n. 1167/2020, del 2 novembre 2020;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10 settembre2024 dal Consigliere dott. Paolo Fraulini.

RILEVATO CHE

1. Poste Italiane S.p.A. ha proposto ricorso in cassazione, affidato a un motivo, avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Brescia ha confermato la sentenza con cui il Tribunale di Bergamo aveva dichiarato improcedibile l’opposizione proposta da Poste Italiane S.p.A. avverso il decreto ingiuntivo n. 1404/2016 con il quale le era stato ingiunto il pagamento della somma di € 20.978,74, oltre interessi e spese, pari al valore di un buono fruttifero postale ordinario serie Q/P n. 0(omissis)9, sottoscritto da (omissis) (omissis), dante causa degli odierni controricorrenti, in data 21 marzo 1987.

2. (omissis) (omissis), (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis) hanno resistito con controricorso.

3. Il giudice di secondo grado, per quanto in questa sede ancora rileva, ha ritenuto:

a) che il patto intercorso tra le parti ed espressamente impresso sul buono postale, non sostituito con alcun richiamo al decreto ministeriale 13 giugno 1986, determinava l’applicazione alla fattispecie del solo accordo negoziale privatistico intercorso tra le parti, a nulla rilevando la parziale difformità del medesimo rispetto a quanto enunciato dal citato decreto;

b ) che, infatti, l’operatore postale, contravvenendo alle previsioni dell’articolo 5, secondo comma, del citato decreto ministeriale, aveva apposto a tergo del titolo un timbro non integralmente recante la misura dei nuovi tassi, lasciando così nella parte finale della griglia la dicitura originaria e determinando per l’effetto che a tale originaria pattuizione doveva essere ricondotta l’obbligazione contenuta nel titolo medesimo, dovendo pertanto escludersi che nella specie si potesse applicare l’articolo 1339 del codice civile.

4. Le parti hanno depositato memoria.

CONSIDERATO CHE

1. Il ricorso lamenta:

«1. Violazione e falsa applicazione dell’art . 173 del D.P.R. n. 156/1973, del D.M. 13.6.1986 ( art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. ) e dei principi espressi dalla Suprema Corte a SS.UU. con le sentenze n. 13979/2007 e n. 3963/2019 (art. 360 comma I n. 3 c.p.c.», deducendo l’erroneità della sentenza impugnata per aver ritenuto che la variazione dei tassi indicata dal timbro sarebbe stata limitata ai primi 20 anni di durata del buono, mentre non risulterebbe variata la clausola relativa al rendimento della terza decade di durata, in conseguenza di un’asseritamente erronea apposizione del timbro di variazione sul titolo.

2. Vanno preliminarmente respinte le due eccezioni pregiudiziali sollevate dai controricorrenti.

La prima, inerente a una pretesa inammissibilità e/o nullità del ricorso di Poste Italiane perché, essendo il Sig. (omissis) (omissis) deceduto in data 29.7.2020 ed essendo tale circostanza nota a Poste a seguito di una comunicazione inviata via e-mail, in data 25.11.2020, da parte del suo difensore, il ricorso introduttivo avrebbe dovuto essere notificato agli eredi.

Va, in contrario, rilevato che, non essendo l’evento interruttivo stato in alcun modo reso noto nel giudizio di merito, risulta del tutto valida la notificazione al procuratore del de cuius, stante l’effetto di ultrattività del relativo mandato (a partire da Cass. Sez. U, Sentenza n. 15295 del 04/07/2014, sino alla recente Sez. 3, Sentenza n. 11193 del 06/04/2022).

La seconda, inerente a una pretesa invalidità della procura alle liti della ricorrente perché dalla stessa non sarebbe dato evincere il potere del soggetto sottoscrittore – nella fattispecie l’Avv. (omissis) (omissis) –che non rivestirebbe la qualifica di Amministratore unico della scrivente, ma sarebbe il Responsabile della Funzione Affari Legali è infondata, alla luce della documentazione integrativa depositata ex art. 372 cod. proc. civ. in data 2.11.2023, dalla quale risulta che, a mente dell’atto a rogito Notaio (omissis) (omissis) del 19.4.2019, rep. 53558, racc. 15006, l’avv. (omissis) è legittimato a rilasciare procure alle liti per conto della ricorrente.

Non è quindi fondata l’eccezione in esame, nella parte in cui si limita a eccepire che l’avv. (omissis) non è l’amministratore unico della ricorrente, ma riveste la carica di Responsabile della Funzione Affari Legali di Poste Italiane S.p.A.; a mente dell’art. 2209 cod. civ., infatti, il procuratore dell’imprenditore si presume che abbia i poteri rappresentativi indicati nell’atto di conferimento della procura, che – quanto alla possibilità di controllo a opera della controparte processuale, cui la giurisprudenza di questa Corte fa riferimento in tema di necessaria produzione – va del resto iscritta nel Registro delle imprese, in forza del rinvio operato dal citato articolo alla disciplina dell’institore di cui agli artt. 2206 e ss. cod. civ., di talché è di generale consultabilità, laddove nel caso di specie è espressamente citata nell’atto notarile prodotto al fine di controdedurre all’eccezione di difetto di procura.

3. Nel merito, la Corte osserva che, alla luce delle considerazioni espresse nel leading case Varuolo c/ Poste Italiane s.p.a., deciso con la sentenza n. 22619/2023 del 26 luglio 2023 (seguito da constante giurisprudenza conforme: 25583/2023, 25587/2023, 25620/2023, 25624/2023, 25718/2023 e 26740/2023; 6805/2024), il ricorso può trovare accoglimento, senza alcuna necessità di rimessione alla CEDU.

È opportuno riportare la parte rilevante della motivazione della precitata sentenza, le cui considerazioni risultano decisive ai fini del decidere: Il Collegio ritiene che sia esatto il punto di approdo cui sono pervenute, in tempi recenti, Cass. 10 febbraio 2022, n. 4384, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4748, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4751, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4763, Cass. 3 gennaio 2023, n. 87, Cass. 4 gennaio 2023, n. 122 e Cass. 11 febbraio 2023, n. 567.

La prima di tali pronunce è massimata come segue: l’emissione di una nuova serie di buoni, utilizzando i supporti cartacei della serie precedente («P»), mediante l’apposizione, sulla parte anteriore, del timbro che indica la nuova serie («Q/P») e, sulla parte posteriore, del timbro recante la misura dei nuovi tassi, che però non copre integralmente la stampa dei tassi d’interesse della precedente serie, lasciando scoperta la parte relativa all’ultimo decennio, non consente al possessore del titolo di pretendere, per tale decennio, gli interessi (più favorevoli) previsti per la vecchia serie, poiché l’imperfezione dell’operazione materiale di apposizione del timbro non ha valore di manifestazione di volontà negoziale rilevante e non determina un errore sulla dichiarazione, essendo, anzi, chiaro che l’accordo ha avuto ad oggetto i buoni di nuova serie e dovendosi, comunque, tenere conto che, ai sensi dell’art. 1342, comma 1, c.c., in caso di moduli predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, le clausole aggiunte prevalgono su quelle precedentemente scritte, qualora siano con esse incompatibili.

Alla seconda delle decisioni sopra richiamate è associato questo ulteriore principio di diritto: la disciplina contenuta nell’abrogato art. 173 del d.P.R. n. 156 del 1973, come novellato dall’art. 1 del d.l. n. 460 del 1974, convertito in l. n. 588 del 1974, che consentiva variazioni, anche in peius, del tasso di interesse sulla base di decreti ministeriali, in quanto dettata da una fonte di rango legislativo, ha natura cogente (assicurando il contemperamento tra l’interesse generale di programmazione economica e tutela del risparmio del sottoscrittore) e come tale idonea a sostituire ex art. 1339 c.c. la statuizioni negoziali della parti: ne deriva che il contrasto tra le condizioni, in riferimento al saggio degli interessi, apposte sul titolo e quelle stabilite dal decreto ministeriale che ne disponeva l’emissione deve essere risolto dando la prevalenza alle seconde, anche relativamente alla serie, istituita con effetto dal 1 luglio 1986 con d.m. 13 giugno 1986, di buoni postali fruttiferi distinta con la lettera «Q», fissando per tutte le serie precedenti, e con decorrenza 1 gennaio 1987, un regime di calcolo degli interessi meno favorevole di quello risultante dalla tabella posta a tergo dei buoni. Fermo che si condivide la conclusione ultima cui sono pervenute le indicate pronunce, le quali hanno ritenuto inapplicabili ai buoni della serie «Q/P» i rendimenti riprodotti nei detti buoni per la vecchia serie «P», si impongono alcune precisazioni.

La soluzione qui ricusata è stata fatta propria da un certo numero di decisioni di merito e da un orientamento fermo dell’Arbitro bancario finanziario: orientamento ribadito dal Collegio di coordinamento dell’ABF con decisione del 3 aprile 2020.

Per chi sostiene tale tesi l’applicazione dei più alti rendimenti previsti per la serie «P» nell’ultimo decennio di vita del buono trova giustificazione in ciò: il vincolo contrattuale tra emittente e sottoscrittore si forma sul contesto documentale del titolo; nell’indicata prospettiva assume rilievo decisivo la circostanza per cui i buoni in questione, con riguardo al periodo che qui interessa, recano ― come si è in precedenza detto ― l’indicazione dei tassi previsti per la serie «P».

Il principio per cui nella disciplina dei buoni postali fruttiferi dettata dal testo unico approvato con il d.P.R. n. 156/1973, il vincolo contrattuale tra emittente e sottoscrittore dei titoli si forma sulla base dei dati risultanti dal testo dei buoni di volta in volta sottoscritti si deve, come è noto, alle Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno da ciò desunto che «il contrasto tra le condizioni, in riferimento al saggio degli interessi, apposte sul titolo e quelle stabilite dal decreto ministeriale che ne disponeva l’emissione deve essere risolto dando la prevalenza alle prime, essendo contrario alla funzione stessa dei buoni postali ― destinati ad essere emessi in serie, per rispondere a richieste di un numero indeterminato di sottoscrittori ― che le condizioni alle quali l’amministrazione postale si obbliga possano essere, sin da principio, diverse da quelle espressamente rese note al risparmiatore all’atto della sottoscrizione del buono» (Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979, in motivazione).

È tuttavia da rimarcare la profonda diversità intercorrente tra la fattispecie oggetto di controversia e l’ipotesi presa in considerazione dalla richiamata pronuncia di Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979 (decisione, questa, su cui la parte istante fonda gran parte dei propri rilievi).

Nella sentenza delle Sezioni Unite si delineava un termine di scadenza del possibile rimborso anticipato dei buoni fruttiferi che era differente da quello indicato nei titoli. In particolare, in base a un decreto ministeriale entrato in vigore da prima dell’emissione dei titoli, il termine di scadenza dei buoni era di nove anni, e non di otto (come in precedenza previsto), ma i buoni erano mancanti di quanto contemplato dal decreto, il quale, in caso di utilizzazione di moduli già stampati per le emissioni precedenti (recanti la sigla «AA»), ammetteva l’applicazione della nuova disciplina in presenza di una stampigliatura di una sigla diversa sui titoli («AB- AA»), i quali dovevano inoltre recare espressa menzione del differente termine di scadenza: di qui la lite vertente sul rendimento dei titoli, che era stato ragguagliato dalle parti ai diversi termini di scadenza.

Nella circostanza è stato osservato che «[l]a discrepanza tra le prescrizioni ministeriali e quanto indicato sui buoni offerti in sottoscrizione dall’ufficio ai richiedenti può […] rilevare per eventuali profili di responsabilità interna all’amministrazione, ma non può far ritenere che l’accordo negoziale, in cui pur sempre l’operazione di sottoscrizione si sostanzia, abbia avuto ad oggetto un contenuto divergente da quello enunciato dai medesimi buoni».

Le Sezioni Unite hanno difatti valorizzato la prescrizione, contenuta nell’art. 173, comma 3, d.P.R. n. 156 del 1973, che impone di «procedere al rimborso degli interessi sulla base della tabella riportata a tergo dei buoni sottoscritti dal risparmiatore».

Ebbene, nella presente fattispecie si controverte non della presenza di una tale tabella e del radicale contrasto di essa con la previsione del decreto ministeriale che regola l’emissione dei titoli, ma di una singola previsione (quella relativa ai tassi dell’ultimo decennio) ricavata da una tabella che è sostituita, sul titolo, da altra tabella. Non entra quindi immediatamente in gioco il conflitto tra le distinte discipline dei rendimenti che sono desumibili, rispettivamente, dal decreto ministeriale e dal titolo (ipotesi, questa, presa in esame dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite).

Viene prima in questione il significato che possa accordarsi ad indicazioni, presenti nel contesto del buono fruttifero, che concernono un particolare aspetto del rapporto: quello relativo agli interessi da corrispondersi dal ventunesimo al trentesimo anno di vita del titolo. In tal senso, anche i buoni per cui è causa pongono, anzitutto, e per quanto qui interessa, una questione di natura interpretativa. Di tale questione la Corte di legittimità si è occupata nelle richiamate pronunce dello scorso anno.

Nella circostanza è stato osservato che «la pretesa di far discendere la misura degli interessi da una combinazione della disciplina prevista per i buoni della serie ‘Q’, provvisoriamente emessi per mancanza dei relativi supporti cartacei, in forma di buoni della serie ‘Q/P’, con la disciplina prevista per i buoni della serie ‘P’, non ha alcun fondamento sul piano di una elementare logica nell’applicazione dei principi basilari dell’interpretazione contrattuale, sia dal versante della lettera che dell’intenzione delle parti, ai sensi dell’art. 1362 c.c., giacché, se i buoni sono sottoposti alla disciplina della serie ‘Q’, e l’autorità preposta dalla legge chiarisce che la disciplina della serie ‘Q’, si applica anche alla serie ‘Q/P’, di modo che sul documento viene apposta la sigla ‘Q/P’, ciò sta a testimoniare che l’applicazione della disciplina dei defunti buoni della serie ‘P’ è palesemente esclusa» (citt. Cass. 10 febbraio 2022, n. 4384, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4748, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4751, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4763, in motivazione).

A questi rilievi deve prestarsi sostanziale adesione. Per la giurisprudenza di questa Corte, i buoni fruttiferi postali integrano dei titoli di legittimazione (Cass. 16 dicembre 2005, n. 27809; il richiamo a tale qualificazione è presente nelle pronunce successive; cfr. ad es.: Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979, cit.; Cass. Sez. U. 11 febbraio 2019, n. 3963; Cass. 10 febbraio 2022, n. 4384 cit.; Cass. 14 febbraio 2022, n. 4748, cit.).

I buoni postali sono, cioè, dei documenti che servono solo a identificare l’avente diritto alla prestazione: come tali, a norma dell’art. 2002 c.c., essi non sono soggetti alle norme dettate per i titoli di credito.

Questo significa, in particolare, che ai buoni postali restano estranei i principi di autonomia causale, di incorporazione e di letteralità (con quel che ne discende sul piano delle eccezioni opponibili dall’avente diritto, regolamentate, per i titoli di credito, dall’art. 1993 c.c.): tant’è che è operante, rispetto ai buoni, il meccanismo di integrazione contrattuale previsto dall’art. 173 d.P.R. n. 156/1973 cit., il quale implica che il creditore soggiaccia alle variazioni del saggio di interesse successive al momento di sottoscrizione del titolo; come in precedenza ricordato, difatti, le variazioni dei rendimenti disposte con decreto ministeriale, che hanno effetto per i buoni di nuova serie, «possono essere estese ad una o più delle precedenti serie».

È vero che, come ricordato da Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979, la possibilità che il contenuto dei diritti spettanti ai sottoscrittori dei buoni postali subisca, medio tempore, variazioni per effetto di eventuali sopravvenuti decreti ministeriali volti a modificare il tasso degli interessi originariamente previsto «non autorizza a svalutare totalmente la rilevanza delle diciture riportate sui buoni stessi anche quando […] in corso di rapporto non è intervenuto alcun nuovo decreto ministeriale concernente il tasso degli interessi e nessuna modificazione si è quindi prodotta rispetto alla situazione esistente al momento della sottoscrizione dei titoli».

E tuttavia, altro è tener conto del dato testuale del titolo, altro è enfatizzarne la portata in contrasto col canone ermeneutico di cui all’art. 1362 c.c.: norma che, come è noto, impone di interpretare il contratto indagando quale sia stata l’intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole.

Ora, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, assume innegabilmente centralità il senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto: il rilievo di queste deve essere tuttavia verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale (Cass. 8 giugno 2018, n. 14882; Cass. 26 febbraio 2009, n. 4670; Cass. 28 maggio 2007, n. 12400; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4176; Cass. 22 dicembre 2005, n. 28479).

Come è stato efficacemente osservato, solo la lettura dell’intero testo contrattuale consente una corretta comprensione della convenzione e, suo tramite, della comune intenzione delle parti, mentre l’enucleazione di singole parole può comportare lo stravolgimento del significato della clausola con particolare riferimento alle pattuizioni limitative dell’efficacia del negozio che, in presenza di un processo ermeneutico frammentato, possono amplificare o ridurre la portata dell’accordo (Cass. 8 febbraio 2021, n. 2945).

In tal senso, non è conforme ai richiamati principi una interpretazione del testo negoziale che, obliterando la manifestata volontà, desumibile dalle apposite stampigliature, di far rientrare il titolo nella serie «Q/P» e di assegnare al medesimo, per i primi venti anni, i correlati rendimenti, pretenda di conferire una univoca e assorbente accezione di significato alla presenza, nel testo del buono, di una previsione (quanto alla misura degli interessi maturandi a partire dal ventunesimo anno) che è parte della tabella associata alla serie «P».

Tale soluzione ermeneutica finisce per parcellizzare il dato testuale: non tiene infatti conto che la richiamata tabella risulta sostituita da una diversa griglia dei rendimenti, rispetto alla quale l’elemento che si pretende di valorizzare risulta essere oltretutto palesemente eccentrico.

Infatti ― e ciò si desume con puntualità da quanto trascritto in memoria dallo stesso ricorrente ― la nuova stampigliatura consta dell’indicazione dei tassi in valori percentuali, mentre i rendimenti dell’ultimo decennio, che si vorrebbero applicare, seguono il diverso criterio dei valori monetari assoluti adottato nella stesura dell’intera tabella della serie «P», cui non appartiene il buono.

In altri termini, se è incontestabile che nel riquadro dei rendimenti risultanti dalla stampigliatura sovrapposta alla precedente tabella è assente alcuna specifica indicazione dei tassi relativi all’ultimo decennio, non per questo risulta giustificata un’operazione interpretativa che finisca per deformare il senso della volontà negoziale, isolando un dato che è integrato nella vecchia tabella (riferita a una serie di buoni cui si è deliberatamente escluso appartenga quello in contestazione) e che si pone in continuità coi rendimenti ivi indicati, non con quelli della serie «Q/P».

L’elemento di anomalia è tanto più percettibile ove si consideri che, come rettamente rilevato dal Tribunale, per i titoli della serie «Q/P» l’art. 5 del d.m. 13 giugno 1986 imponeva proprio una stampigliatura «recante la misura dei nuovi tassi», e non l’indicazione delle maggiorazioni dei valori monetari.

Col negare rilievo all’elemento letterale in discorso non si finisce, del resto, per dare ingresso a un’interpretazione contraria a buona fede. Per certo, l’elemento letterale deve sempre essere riguardato alla stregua degli ulteriori criteri ermeneutici, tra cui quello dell’interpretazione secondo buona fede ex art. 1366 c.c. (Cass. 17 novembre 2021, n. 34795; Cass. 14 settembre 2021, n. 24699).

La regola di cui all’art. 1366 c.c., secondo cui il contratto deve essere interpretato secondo buona fede, impone tuttavia di analizzare le espressioni usate dalle parti contraenti stabilendo quale sia il significato obbiettivo sul quale le stesse, in relazione alle circostanze concrete, potevano e dovevano fare ragionevole affidamento (Cass. 20 luglio 2000, n. 9532), con la conseguenza che non possono perorarsi interpretazioni che pretendano di ricavare il detto affidamento da elementi letterali non significativi avendo riguardo al più ampio contesto del negozio.

L’inaccettabilità di opzioni ermeneutiche fondate sulla esaltazione di elementi siffatti e la conseguente impossibilità di rinvenire, all’interno del documento di legittimazione, una disciplina specifica dei rendimenti relativi all’ultimo decennio (da associarsi al buono) schiude la strada a una integrazione del regolamento negoziale con la disciplina normativa.

In tema di sostituzione automatica di clausole di cui all’art. 1339 c.c., altro argomento rilevante ai fini dello scrutinio del ricorso, va osservato che, come osservato nel citato leading case, il congegno sostitutivo di cui all’art. 1339 c.c. è destinato ad operare con esclusivo riguardo alle variazioni del saggio d’interesse «disposte con decreto del Ministro per il tesoro, di concerto con il Ministro per le poste e le telecomunicazioni, da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale» che siano «estese ad una o più delle precedenti serie» (art. 173, comma 1, d.P.R. n. 156/1973); a tal fine è stato previsto, come in precedenza rilevato, che per i titoli i cui tassi siano stati modificati dopo la loro emissione gli interessi vengano corrisposti non più sulla base della sola tabella riportata a tergo dei buoni, ma sulla base di tale tabella «integrata con quella che è a disposizione dei titolari dei buoni stessi presso gli uffici postali» (art. 173 cit., comma 3).

Dunque, la prevalenza del dato testuale portato dai titoli rispetto alle prescrizioni ministeriali intervenute successivamente all’emissione è, in questa ipotesi, da escludere a fronte all’inequivoco dato testuale dell’art. 173: come ricordato dalle Sezioni Unite, tale articolo contempla un «meccanismo di integrazione contrattuale, riferibile alla disposizione dell’art. 1339 c.c. destinato ad operare per effetto della modifica, da parte della pubblica amministrazione, del tasso di interesse vigente al momento della sottoscrizione del titolo» (Cass. Sez. U. 11 febbraio 2019, n. 3963, cit., in motivazione).

La disciplina sostituiva non opera, invece, con riguardo alle condizioni operanti al momento della sottoscrizione: si è già dato conto del principio, enunciato da Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979, secondo cui ove il buono indichi rendimenti difformi da quelli previsti dalle prescrizioni ministeriali deve prevalere quanto risultante dal titolo, giacché il titolo riproduce il contenuto di un accordo negoziale.

Ciò sta a significare che le norme che disciplinano i tassi dei buoni di nuova emissione non hanno portata cogente; esse soccombono, infatti, a fronte di pattuizioni di diverso tenore.

L’inattuabilità di una sostituzione della misura degli interessi convenuti contrattualmente non esclude, tuttavia, che la disciplina del buono di nuova emissione di una determinata serie, che sia carente di alcune indicazioni quanto ai rendimenti, possa essere integrato dalle previsioni normative che disciplinano i tassi dei titoli appartenenti a quella stessa serie.

Si allude all’integrazione suppletiva del negozio, riconducibile alla previsione dell’art. 1374 c.c., attraverso cui il contenuto del rapporto viene determinato in mancanza di una diversa volontà delle parti: non quindi all’integrazione cogente, operante allorquando la regolamentazione normativa si sovrappone alla diversa volontà delle parti.

L’integrazione opera, naturalmente, avendo riguardo alle prescrizioni del provvedimento ministeriale: ma è indubbio che, quale che sia la natura di tale atto, venga in questione una integrazione ad opera della legge, visto che il d.m. 13 giugno 1986 ripete la sua autorità dall’art. 173, comma 1, d.P.R. n. 156/1973, il quale abilita l’autorità ministeriale a fissare il saggio d’interesse dei buoni postali fruttiferi (cfr., in motivazione, se pure nella diversa prospettiva della sostituzione di clausole nulle, le citt. Cass. 10 febbraio 2022, n. 4384, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4748, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4751 e Cass. 14 febbraio 2022, n. 4763).

Con ciò resta superata anche la censura, di cui al terzo motivo, fondata sull’assenza di terzietà del soggetto da cui promana la norma integrativa del contratto (censura da disattendersi, del resto, alla luce dell’ulteriore rilievo per cui l’inserzione dei tassi fissati per decreto ministeriale è espressamente contemplata dal comma 3 dell’art. 173 cit.).

Una integrazione suppletiva, e non cogente, si giustifica, con riguardo ai buoni, in quanto, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite del 2007, le previsioni dei decreti ministeriali non prevalgono sul contenuto dell’accordo (salvo il caso, che qui non interessa, dello ius variandi operante con riguardo ai tassi in un momento successivo all’emissione dei buoni): onde le dette previsioni hanno natura dispositiva.

L’integrazione trova, poi, una propria concreta ragion d’essere, in fattispecie quale quella in esame, stante la mancanza, nel senso sopra chiarito, di un’apposita regolamentazione di una parte dei rendimenti del buono trentennale: va qui rammentata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il presupposto dell’integrazione di cui all’art. 1374 c.c. è proprio l’incompleta o ambigua espressione della volontà dei contraenti (così Cass. 21 marzo 2014, n. 6747; cfr. pure, in tema: Cass. 14 giugno 2002, n. 8577; Cass. 17 giugno 1994, n. 5862; Cass. 14 marzo 1983, n. 1884).

Questo processo di completamento della disciplina del titolo non trova ostacolo nella previsione dell’art. 173, comma 3, d.P.R. n. 156/1973, secondo cui gli interessi vengono corrisposti «sulla base della tabella riportata a tergo dei buoni».

La disposizione preserva l’affidamento del risparmiatore su quanto trascritto nei buoni da lui acquistati, confermando che quanto ivi enunciato prevale sul difforme dettato del decreto ministeriale che fissa i rendimenti; appare invece irragionevole e contrario a una interpretazione della norma che sia rispettosa dell’art. 47 Cost., sulla tutela del risparmio, ritenere che, a fronte di una lacuna del titolo nella determinazione dei tassi per un dato periodo, la regolamentazione posta dal detto decreto resti inoperante e nulla sia conseguentemente dovuto, per quell’arco temporale, al risparmiatore.

Sintomaticamente, nemmeno Poste Italiane ha sostenuto ciò nel presente giudizio.

In conclusione, se pure deve escludersi che i saggi di interesse fissati con decreto del Ministro per il tesoro, di concerto con il Ministro per le poste e le telecomunicazioni, si sostituiscano ai rendimenti figuranti sul buono di nuova emissione, non vi è motivo di negare che quegli stessi saggi di interesse ― aventi «effetto per i buoni di nuova serie», a norma dell’art. 173, comma 1, d.P.R. n. 156/1973 ― possano completare, attraverso un procedimento di eterointegrazione, il regolamento contrattuale che nulla disponga quanto ai rendimenti dei titoli di quella serie riferiti a un dato periodo.

La censura oggetto di scrutinio va dunque accolte, per quanto di ragione, sulla base dei seguenti princìpi di diritto:

«Poiché l’interpretazione del testo contrattuale deve raccordare il ‘senso letterale delle parole’ alla dichiarazione negoziale nel suo complesso, non potendola limitare a una parte soltanto di essa, l’indicazione, per i buoni postali della serie ‘Q/P’, di rendimenti relativi alla serie ‘P’ per l’ultimo periodo di fruttuosità del titolo non è in sé decisiva sul piano interpretativo, in presenza della stampigliatura, sul buono, di una tabella sostitutiva di quella della serie ‘P’, in cui erano inseriti i detti rendimenti: tanto più ove si consideri che la tabella in questione adotta una modalità di rappresentazione degli interessi promessi che risulta eccentrica rispetto a quella di cui alla precedente tabella, così da rendere evidente l’assenza di continuità tra le diverse previsioni, di talché, in presenza di una incompleta o ambigua espressione della volontà delle parti quanto ai rendimenti del buono postale di nuova emissione rientrante nella previsione dell’art. 173 d.P.R. n. 156 del 1973, opera una integrazione suppletiva che consente di associare al titolo i tassi contemplati, per la serie che interessa, dal decreto ministeriale richiamato dal primo comma del detto articolo».

4. La sentenza va dunque cassata e le parti rinviate alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione, che provvederà a rinnovare il giudizio secondo i principi sopra esposti e a regolare le spese della presente fase di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nel senso in cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata e rinvia le parti innanzi alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, che provvederà anche a regolare le spese della presente fase di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 10 settembre 2024.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2024.

SENTENZA – copia non ufficiale -.