REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PALLA Stefano – Presidente –
Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere –
Dott. CATENA Rossella – Consigliere –
Dott. BRANCACCIO Matilde – Rel. Consigliere –
Dott. TUDINO Alessandrina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CARCHIDI GABRIELE nato a COSENZA il 12/11/19xx;
avverso la sentenza del 09/11/2021 della CORTE APPELLO di SALERNO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott.ssa MATILDE BRANCACCIO;
udito il Sostituto Procuratore generale, Dott. LUIGI BIRRITTERI che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore, avvocato NICOLA (OMISSIS), che si riporta ai motivi e chiede l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la decisione in epigrafe, la Corte d’Appello di Salerno ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale della stessa sede, in data 15.9.2020, nei confronti di Gabriele Carchidi, condannato alla sola pena pecuniaria della multa pari a 2000 euro, in relazione al reato di diffamazione continuata aggravata, per aver pubblicato, sul quotidiano online “La Provincia” di Cosenza, tre articoli giornalistici nei quali offendeva la reputazione di Giacomantonio Franco, all’epoca Procuratore della Repubblica di Castrovillari, definendolo “pavido”, “scadente” e incapace di indagare seriamente sulla morte del calciatore Donato Bergamini, avvenuta il 18.11.1989, in merito alla quale il magistrato aveva richiesto l’archiviazione di Isabella Internò, personaggio definito “potente”, contro la quale non voleva agire e nei cui confronti aveva richiesto l’archiviazione per il delitto di omicidio, prestando credito alla tesi assurda del suicidio del calciatore (in questo senso, i primi due articoli del 26.1.2015 e del 21.2.2015); inoltre, in un altro articolo (il terzo, del 7.3.2015), l’imputato ha nuovamente diffamato, secondo l’accusa, il magistrato predetto, mettendo in relazione alla morte del calciatore Bergamini quella di un magistrato calabrese, Federico Bisceglie, avvenuta in un incidente stradale, per le sospette similarità dei casi: anche in quest’ultimo articolo, veniva tirato in ballo il dott. Giacomantonio, appellato come “oscuro burocrate”, al lavoro in un ufficio “che insabbia tutto”, tanto da chiedere retoricamente se, volendo uccidere qualcuno, non fosse il caso di venire nel territorio di Castrovillari, per ottenere l’impunità.
2. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso l’imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo due motivi di censura.
2.1. Con il primo argomento difensivo, si eccepisce una questione processuale, relativa alla nullità del decreto che dispone il giudizio di primo grado, a causa della asserita mancata notifica dell’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen., effettuata a Cosenza alla via (OMISSIS) n. 87, mentre l’imputato era residente a (OMISSIS), in via (OMISSIS) 9/B; nonché per la mancata notifica del decreto di citazione diretta a giudizio, effettuata al difensore d’ufficio e non all’imputato, ed infine per l’asserita, omessa indicazione, nel decreto di citazione stesso, delle disposizioni degli artt. 420-bis cod. proc. pen. e seguenti, relative al procedimento in assenza.
2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce la sussistenza della scriminante del diritto di critica: le forti espressioni utilizzate per rappresentare la censura all’operato di un pubblico funzionario, quale è un magistrato, sono coperte dal diritto di libertà di pensiero e costituiscono espressione del ruolo della stampa di “cane da guardia” nei confronti dei pubblici poteri.
Il caso Bergamini da trent’anni muoveva le coscienze nel territorio calabrese e gli articoli giornalistici intendevano “spronare” i magistrati della Procura competente alle indagini a compiere le attività utili a giungere alla verità sulla morte del calciatore.
CONSIDERATO INI DIRITTO
1. Il ricorso è complessivamente infondato.
2. Il primo motivo deduce plurime, successive eccezioni di nullità, che si rivelano, però, tutte manifestamente infondate.
2.1. Anzitutto lo è la censura riferita alla mancata, regolare notifica del decreto di citazione in giudizio per il primo grado.
Il Collegio, che ha avuto accesso agli atti, in virtù della natura processuale del vizio dedotto (cfr., tra le ultime pronunce in tal senso, Sez. 1, n. 22337 del 23/03/2021, Di Giovanni, Rv. 281391; vedi anche Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092), ha potuto constatare che la notifica all’imputato è stata regolarmente avviata al domicilio eletto corretto, indicato dallo stesso ricorrente nel ricorso, e cioè alla via (OMISSIS) 9/B (cfr. foglio 17 del fascicolo del Tribunale).
Il decreto di citazione è stato definitivamente rinotificato all’imputato in modo regolare in seguito al provvedimento di rinvio all’udienza del 19.6.2018, in cui la difesa nulla ha eccepito riguardo all’eventuale irrituale notifica; anzi, nel verbale d’udienza si dà atto della sua posizione processuale come di imputato “libero assente”, difeso dall’avv. Nicoletta (OMISSIS) di fiducia, assente anch’ella, sostituita dall’avv. (OMISSIS) d’ufficio.
Nelle udienze successive, l’avv. Nicoletta (OMISSIS) è sempre stata indicata a verbale nella qualità di legale di fiducia dell’imputato, rimasta, tuttavia, assente nel corso del processo e sostituita d’ufficio costantemente dall’avv. (OMISSIS).
Da tale percorso ricostruttivo non emergono dati processuali che depongano nel senso delle nullità denunciate oggi dal ricorrente in sede di giudizio di legittimità: le eccezioni difensive sono state smentite dai dati processuali verificati in atti.
2.2. Anche l’asserita, omessa indicazione, nel decreto di citazione a giudizio, delle disposizioni degli artt. 420-bis, 420-ter e 420-quater, relative al procedimento in assenza, è priva di reale fondamento.
Come ha sottolineato già la Corte d’Appello, cui era stata sottoposta la stessa questione di mancanza strutturale-formale del decreto che dispone il giudizio, il contenuto del decreto di citazione è idoneo a descrivere presupposti e conseguenze essenziali del giudizio in assenza, poiché indica espressamente l’avvertimento all’imputato che, non comparendo, sarebbe stato giudicato “in assenza”.
Il Collegio, valutata l’esattezza di tale ricostruzione processuale da parte della Corte territoriale, non può che concordare sulle considerazioni del giudice di secondo grado al riguardo: da un lato, all’imputato è stata assicurata l’immediata comprensione delle conseguenze che la sua mancata comparizione in giudizio avrebbe determinato, vale a dire la celebrazione in sua assenza; dall’altro, al difensore – “tecnico” che assiste l’imputato – non era certo necessario il richiamo agli articoli del codice di rito che regolano il giudizio “in assenza”, compiutamente identificato attraverso l’espressa locuzione verbale riscontrata nel testo del decreto di citazione.
3. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
3.1. La questione proposta coinvolge il diritto di critica giornalistica ed i suoi confini leciti.
Come noto, l’esimente in parola, racchiusa nell’alveo normativo dell’art. 51 cod. pen., postula, quale presupposto necessario, oltre al requisito della pertinenza, quello della verità del fatto storico attribuito al diffamato, ove tale fatto sia posto a fondamento della elaborazione critica (ex multis, soprattutto in tema di diffamazione a mezzo stampa, ma con valutazioni che possono, in linea generale, esportarsi alla critica giudiziaria in generale, cfr. Sez. 5, n. 40930 del 27/9/2013, Travaglio, Rv. 257794; Sez. 5, n. 8721 del 17/11/2017, dep. 2018, Coppola, Rv. 272432; Sez. 5, n. 34129 del 10/5/2019, Melia, Rv. 277002).
Si è consolidato, altresì, il condivisibile principio secondo cui l’esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, sebbene essa non vieti l’utilizzo di termini che, pur se oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Sez. 5, n. 17243 del 19/2/2020, Lunghini, Rv. 279133; Sez. 5, n. 37397 del 24/6/2016, C., Rv. 267866; Sez. 5, n. 31669 del 14/4/2015, Marcialis, Rv. 264442; vedi da ultimo, in un’ipotesi peculiare, Sez. 5, n. 33115 del 14/10/2020, Fontana, Rv. 279965).
Sul fronte della giurisprudenza europea, per quanto riguarda la critica diretta contro coloro i quali rivestano posizioni pubbliche rilevanti, come certamente può dirsi per chi espleti le funzioni di magistrato, la Corte Europea dei Diritti Umani ha posto l’accento sul fatto che i limiti della critica nei confronti dei funzionari che agiscono in qualità di personaggi pubblici nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali sono più ampi rispetto ai semplici privati cittadini (cfr., tra le altre, la sentenza Magosso e Brindani c. Italia del 16.1.2020, nonché Medlis Islamske Zajednice Bréko e altri c. Bosnia Erzegovina [GC] del 27 giugno 2017; Mariapori c. Finlandia del 6 luglio 2010).
Si è già messo in luce, nella pronuncia Sez. 5, n. 45249 del 25/10/2021, Longo, Rv. 282379, che la giurisprudenza della Corte EDU, con specifico riguardo alla diffamazione di esponenti della magistratura, interpretando il § 2 dell’art. 10 CEDU – che, tra i motivi specifici idonei a giustificare le limitazioni alla libertà di espressione, indica lo scopo di “garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario” – può dirsi orientata in modo stabile ad affermare che il potere giudiziario non è sottratto alla critica, ma che la speciale protezione dell’autorità giudiziaria, attuata mediante anche possibili limitazioni alla libertà di espressione, si giustifica per il fatto che in tal modo si concorre a tutelare la buona amministrazione della giustizia, di cui il rispetto e la fiducia del pubblico sono una condizione (cfr. Corte EDU, Sunday Times (n. 1) c. Regno Unito, 26.4.1979, § 55-56).
La tutela dei giudici e dei pubblici ministeri, cioè, è necessaria, anche in considerazione del particolare dovere di riserbo, prudenza e continenza che grava su di loro (Corte EDU, Prager e Oberschlick c. Austria, 26.4.1995, § 34; Corte EDU, Sunday Times (n. 1) c. Regno Unito, 26.4.1979, § 55-56).
D’interesse è anche la pronuncia Morice c. Francia del 23 aprile 2015, in cui la Grande Chambre ha chiarito come il diritto di critica nei confronti di esponenti della magistratura corrisponde ad un interesse pubblico e gode di limiti più ampi di quello esercitabile nei confronti dei normali cittadini, purché la critica non si traduca in “attacchi gravemente lesivi e infondati”, delineando, in tal modo, le coordinate per una corretta declinazione dell’esercizio legittimo del diritto di critica nei riguardi dell’operato della magistratura, in ragione del suo rappresentare un’istituzione fondamentale dello Stato, meritevole di essere tutelata nell’immagine di imparzialità, per la necessità di assicurare la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario (per una ricostruzione in senso analogo, cfr. Sez. 5, n. 19889 del 17/2/2021, Parrino, Rv. 281264; cfr. anche, per i medesimi principi, declinati con riguardo alla professione forense, il recente arrét, L.P. e Carvalho c. Portogallo del 8.10.2019: in questo caso, la Corte EDU ha ravvisato una violazione dell’art. 10 CEDU in relazione alla condanna subita da due avvocati in relazione a dichiarazioni offensive contenute nei loro scritti difensivi, affermando che le sanzioni inflitte, benché di modesto ammontare, possono determinare un c.d. chilling effect, un effetto dissuasivo e sterilizzante sulla professione forense in generale e nella difesa degli interessi dei clienti da parte degli avvocati; sul tema, in motivazione, cfr. Sez. 5, n. 34016 del 14/5/2021, Vulpio).
Anche la giurisprudenza della Cassazione ha dimostrato peculiare attenzione ad un bilanciamento della critica giudiziaria con i valori di tutela dell’onore dei magistrati coinvolti, bilanciamento che si delinea anche come attitudine costante a coltivare il valore del dissenso in democrazia (tra le molte pronunce, si segnalano: Sez. 5, ord. n. 5638 del 16/1/2015, Sarzanini, Rv. 263467; Sez. 5, n. 2890 del 4/12/1998, dep. 1999, Soluri, Rv. 212693; Sez. 5, n. 28661 del 9/6/2004, Sinn, Rv. 229312).
E così, il limite della continenza nel diritto di critica, utile a scriminare il reato di diffamazione, è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato, sicché il contesto nel quale la condotta si colloca, di cui pure deve tenersi conto per valutarne la portata diffamatoria, non può scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona oggetto di critica in quanto tale, travalicando la linea di demarcazione tra il dissenso espresso all’operato altrui — che deve essere ampiamente consentito in una società democratica, soprattutto nei confronti di chi ricopra incarichi o funzioni pubblici, e, tra questi, dei magistrati – e la lesione della reputazione e dell’onore della persona attaccata.
Il “dissenso”, infatti, è certamente un valore da garantire come bene primario in ogni moderna società democratica che voglia davvero dirsi tale, ma non può trascendere le idee, esorbitare dalla ricostruzione dei fatti e giungere a fondare manifestazioni espressive che diventino meri argomenti di aggressione personale di chi è portatore di una diversa opinione (in tal senso Sez. 5, n. 7995 del 9/12/2020, dep. 2021, in motivazione).
L’elaborazione ermeneutica si è sempre più affinata, dunque, nel corso degli anni, sino a giungere all’attuale stabilizzazione di un orientamento di particolare apertura nei confronti della liceità della critica giudiziaria, sulla base del principio di derivazione anche dalla giurisprudenza europea, secondo cui, in democrazia, a maggiori poteri corrispondono maggiori responsabilità e l’assoggettamento al controllo da parte dei cittadini, esercitabile anche attraverso il diritto di critica (cfr. la citata sentenza della Corte EDU Magosso e Brindani, in tema).
Pertanto, il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto – si è detto – nel modo più ampio possibile, costituendo l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale, che viene esercitata nel nome del popolo italiano da soggetti che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono di ampia autonomia ed indipendenza; ne deriva che il limite della continenza può ritenersi superato soltanto in presenza di espressioni che, in quanto inutilmente umilianti, trasmodino nella gratuita aggressione verbale del soggetto criticato (Sez. 5, n. 19960 del 30/1/2019, Giorgetti, Rv. 276891: in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto funzionale alla disapprovazione della condotta processuale tenuta da un magistrato inquirente la critica alla sua competenza; altrettanto emblematico il caso che ha portato a scriminare le espressioni “sprovveduto” ed “incauto” rivolte ad un magistrato: Sez. 5, n. 11662 del 6/2/2007, Iannuzzi, Rv. 236362).
3.2. La sentenza Longo del 2021 ha chiarito, da ultimo, che, “se tale ampiezza espansiva della critica consentita si riscontra sul fronte delle censure alla professionalità del magistrato, anche quando esse si manifestino in una forma espressiva aspra e sferzante, non altrettanto può dirsi qualora la critica coinvolga i prerequisiti della funzione giurisdizionale, costituiti dai caratteri di indipendenza ed autonomia, percepiti come imprescindibili attribuzioni dell’essere appartenenti all’ordine giudiziario, e coinvolga un giudizio di valore e di stima sulla persona del magistrato, piuttosto che sulle sue capacità professionali.
Così, è stato stabilito che non costituisce esercizio legittimo del diritto di critica la gratuita attribuzione di mala fede a chi conduce indagini giudiziarie, presentando come risultato di complotti o di strategie politiche l’opera del pubblico ministero, perché in tal caso non si esprime un dissenso, più o meno fondato e motivato, sulle scelte investigative, ma si afferma un fatto che deve essere rigorosamente provato e si finisce per realizzare un attacco alla “stima” di cui gode il magistrato (Sez. 5, n. 28661 del 2004 cit.; cfr. anche Sez. 5, ord. n. 5638 del 16/1/2015, Sarzanini, Rv. 263467 e Sez. 5, n. 41671 del 7/7/2016, Menzione, Rv. 268043); ed egualmente è a dirsi se le accuse sono di strumentalizzazione della funzione (Sez. F„ n. 29453 del E/8/2006, Sgarbi, Rv. 235069) o si trasmoda dalla critica aspra al dileggio (Sez. 5, n. 2066 del 11/11/2008, dep. 2009, Fasolino, Rv. 242348)”.
Ancor più esplicitamente si è affermato che, in tema di diffamazione e diritto di critica giudiziaria, non è scriminata la condotta che attribuisce parzialità per ragioni politiche ad un soggetto che esercita la funzione giudiziaria in quanto intrinsecamente offensiva, sempre che, ovviamente, non vi sia prova della verità della parzialità politica attribuita, intesa come verità storica del fatto specificamente denunciato (Sez. 5, n. 10631 del 12/2/2009, Sgarbi, Rv. 243484).
Dunque, qualora vengano in gioco accuse di negligenza e incapacità del magistrato, la critica giudiziaria può assumere una connotazione anche molto “pesante”, aspra e sferzante; laddove, invece, detta critica si incentri su accuse di partigianeria politica e, quindi, attribuisca al magistrato un deficit di imparzialità ed indipendenza.
Tali attribuzioni, non a caso, sono state definite dal CSM “imprescindibili condizioni per un corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali” (insieme all’equilibrio, cfr. la Circolare n. 20681 del 8.10.2007 e successive modifiche, in tema di valutazione di professionalità, nonché la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ritiene tali caratteri delle precondizioni, consustanziali all’esercizio della funzione giurisdizionale: CDS, Sez. 5, n. 5309 del 29 luglio 2019), sicché, in caso di loro critica, l’unica possibilità di ritenere la condotta diffamatoria scriminata deve essere indicata nella precisa verità storica del fatto, non potendo il giudizio di valore, di cui pure in astratto può nutrirsi la critica, avere ingresso in tal caso.
La citata sentenza n. 41671 del 2016, ad esempio, in una fattispecie che presenta alcune analogie significative con quella all’esame del Collegio, ha ritenuto intrinsecamente offensive le dichiarazioni fatte dall’imputato, di professione avvocato, ad un incontro pubblico su fatti di grave allarme sociale, secondo le quali il pubblico ministero competente “voleva chiudere l’indagine in un sol modo, prima ancora di cominciarla”, conducendo una “pseudo-indagine”, in quanto intese ad attribuire al medesimo l’esercizio del proprio ruolo professionale sulla scorta di un’idea preconcetta (tuttavia, con qualche accento più aperto in ambito di critica all’atteggiamento personale del magistrato, cfr. Sez. 5, n. 34432 del 5/6/2007, Blandini, Rv. 237711, che ha ritenuto sussistente l’esimente del diritto di critica in relazione ad un’accusa di “subalternità psicologica” nei confronti della famiglia dell’imputato ricca e potente, avanzata da un giornalista nei confronti di un magistrato del pubblico ministero, poiché, nel caso di specie, l’affermazione costituiva argomento atto a rinvenire una plausibile spiegazione ad una ritenuta grave ingiustizia e non già a denigrare la persona del requirente).
Ed è quasi superfluo aggiungere che il contesto e le circostanze della condotta diffamatoria, così come le modalità espressive con le quali essa si è realizzata, costituiscono fattori concreti che distinguono fattispecie come quella sottoposta all’esame del Collegio da altre, più frequenti ipotesi, che, più di sovente in ambito di libertà di stampa e diritto all’informazione, coinvolgono questioni relative alle opinioni politiche dei magistrati, singolarmente o come gruppi o in quanto categor a; come è stato già efficacemente sostenuto, infatti, qualora si rilevi la prevalenza dell’interesse pubblico all’informazione, niente di ciò che il magistrato fa o dice anche in sede privata può dirsi indifferente alla pubblica opinione, quando le cose dette o fatte siano idonee a valere come indici di valutazione rispetto all’esercizio delle funzioni, rientrando la puntuale e corretta applicazione dell’attività giudiziaria nell’interesse della collettività (Sez. 5, n. 10151 del 23/4/1986, Emiliani, Rv. 173847).
3.3. Ebbene, nella fattispecie in esame, il ricorrente, per ben tre volte, in tre diversi articoli, collegati tra loro da una trama ben evidente di discredito dell’ufficio di Procura di Castrovillari, ha attaccato la gestione dell’indagine relativa alla morte del calciatore Donato Bergamini, avvenuta il 18.11.1989, oggi sfociata in un processo che coinvolge l’allora fidanzata, Isabella Internò, tuttora in corso in primo grado.
Il Collegio, pur prendendo atto che la tragica vicenda al centro dell’interesse giornalistico dell’imputato, ha avuto dinamiche di accertamento plurime, a volte confuse e comunque non è ancora definitivamente chiarita, deve limitarsi, in questa sede, a valutare i contenuti degli articoli attribuiti al ricorrente ed a stabilire se siano diffamatori nei confronti della persona offesa, Franco Digiacomantonio, per il suo ruolo di Procuratore della Repubblica di Castrovillari, investito, per un periodo, delle verifiche collegate alla morte di Denis Bergamini.
Tale valutazione sarà condotta anzitutto tenendo presente il consolidato principio secondo cui, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare a sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato (Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145; Sez. 5, n. 48698 del 19/9/2014, Demofonti, Rv. 261284).
Invero, non può esservi dubbio dell’oggettiva carica diffamatoria presente nei tre articoli di stampa pubblicati dall’imputato sul sito web del giornale online “La Provincia”, pubblicazione locale nota a Cosenza, e/o sul quotidiano stesso, aventi ad oggetto illazioni e veri e propri attacchi diretti alla reputazione del Procuratore Franco Digiacomantonio, tacciato in più punti – senza mezzi termini – di pavidità, incapacità e parzialità dell’operato, che egli avrebbe svolto in favore di Isabella Internò, vale a dire colei la quale, sin dalla data degli articoli (editi da gennaio a marzo 2015) e sin dalle fasi iniziali della vicenda investigativa successiva alla morte di Denis Bergamini, era stata ritenuta implicata nei fatti da chi non ha creduto mai alla tesi del suicidio.
Secondo gli articoli diffamatori, tale tesi era stata in qualche modo avallata dal magistrato nel sostenere in udienza la richiesta di archiviazione nei confronti di costei (si fronteggiavano, all’epoca degli articoli e per quel che è dato comprendere, tale ricostruzione, secondo cui il calciatore si sarebbe volontariamente gettato contro un camion in arrivo sulla statale ove poi il corpo è stato ritrovato, e la ricostruzione omicidiaria, secondo cui la vittima sarebbe stata posta già esanime sul selciato all’arrivo del camion che ha poi impattato con il suo corpo).
Ebbene, se, come si è anticipato, non è questa la sede per diradare alcuna delle numerose ombre che, come noto per il clamore mediatico collegato, avvolgono la tragica fine di Denis Bergamini, tanto da far sì che un processo sia attualmente in corso dinanzi alla Corte d’Assise di Cosenza, proprio con imputata Isabella Internò per il reato di omicidio, d’altra parte, tacciare la persona offesa di parzialità e di forte opacità nello svolgimento delle proprie funzioni, indiscriminatamente e senza alcun nesso di veridicità (come è stato accertato nei giudizi di merito, soprattutto circa l’esistenza di collegamenti con Isabella Internò), travalica i confini della critica giornalistica lecita, quand’anche rapportata al cd. “giornalismo d’inchiesta“, che non può accusare un magistrato di voler “insabbiare” un caso di possibile omicidio senza alcuna effettiva, concreta verifica riguardo al suo coinvolgimento in un simile, illecito progetto.
Il “giornalismo d’inchiesta“, infatti, pur valutato, nella giurisprudenza di questa stessa Sezione, con un’interpretazione “a maglie larghe”, attenta a rafforzare il diritto ad informare l’opinione pubblica, su temi di rilevanza ed utilità collettiva, sino al maggior limite espansivo possibile nel bilanciamento d’interessi con il diritto all’onore (cfr. Sez. 5, n. 38096 del 7/10/2010, Patruno, Rv. 248902; Sez. 5, n. 2092 del 30/11/2018, dep. 2019, Di Mambro, Rv. 275409), non implica di per sé, automaticamente, alcun ricorso indiscriminato e “consentito” a parametri di “non verità” della notizia.
In linea generale, infatti, deve ribadirsi che, in tema di diffamazione, non è configurabile la scriminante del diritto di critica giudiziaria quando si tacci un magistrato di parzialità (per ragioni politiche o per qualsiasi altra ragione, anche personale), senza che vi sia prova della verità storica del fatto, stante la intrinseca offensività della affermazione, che involge gli imprescindibili caratteri di indipendenza ed autonomia nell’esercizio della funzione giudiziaria, risolvendosi in una critica alla persona, piuttosto che alle capacità professionali del magistrato (Sez. 5, n. 45249 del 25/10/2021, Longo, Rv. 282379).
Nella citata sentenza Longo, si è chiarito come, per “indipendenza”, si intende lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali senza condizionamenti, rapporti o vincoli che possano influenzare negativamente o limitare le modalità di esercizio della giurisdizione; l’imparzialità, invece, implica il corretto atteggiamento del magistrato nei confronti di tutti i soggetti processuali (e, come è stato ben precisato, essa è la imprescindibile condizione che gli organi giurisdizionali devono avere nella coscienza sociale: cfr. Sez. 5, n. 15447 del 2011, n.m.).
Tali due essenziali prerequisiti della professionalità di un magistrato sono stati messi in discussione dal ricorrente nei riguardi della persona offesa, senza alcun elemento concreto che potesse farli neppur lontanamente ritenere appannati o mancanti, come risulta dal testo stesso dei tre scritti diffamatori, sicché, mancando qualsiasi plausibilità e verità del fatto, il tenore complessivo della lettera dell’imputato si risolve in un attacco gratuito ed aspecifico all’imparzialità ed all’indipendenza del magistrato bersaglio delle critiche, non scriminabile ai sensi dell’art. 51 cod. pen.
Ed infatti, in tema di diffamazione a mezzo stampa, per configurare l’esimente del diritto di critica giudiziaria ai sensi dell’art. 51 cod. pen., non si richiede che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, purché il nucleo ed il profilo essenziale dei fatti non siano strumentalmente travisati e manipolati (Sez. 1, n. 8801 del 13/11/2018, dep. 2019, Cordova, Rv. 276167).
In altre parole, in tema di diffamazione a mezzo stampa, è configurabile l’esimente del diritto di critica (distinto e diverso da quello di cronaca) quando il discorso giornalistico abbia un contenuto esclusivamente valutativo e si sviluppi nell’alveo di una polemica intensa e dichiarata, frutto di opposte concezioni, su temi di rilevanza sociale, senza trascendere ad attacchi personali finalizzati all’unico scopo di aggredire la sfera morale altrui, non richiedendosi neppure – a differenza di quanto si verifica con riguardo al diritto di cronaca – che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, sempre che il nucleo ed il profilo essenziale di questi non siano strumentalmente travisati e manipolati (Sez. 5, n. 19334 del 5/3/2004, Giacalone, Rv. 227754).
Ecco invece che, nel caso di specie, la sentenza d’appello, da un lato dà atto correttamente di come le determinazioni di un magistrato del pubblico ministero non possono ritenersi funzionali alla ricerca di un colpevole “ad ogni costo”, ma ben possono essere svolte nell’interesse pubblico all’accertamento dei fatti, senza alcuna obbligazione “di risultato”, purché portate avanti con onestà e diligenza.
Dall’altro rappresenta che fu proprio il Procuratore Giacomantonio, nel 2011, a richiedere al GIP, una prima volta, la riapertura delle indagini ed a svolgere, successivamente, una diffusa ed articolata istruttoria, servendosi di numerose consulenti tecnici e svolgendo molte audizioni di persone informate dei fatti, in vista di un evidente obiettivo di far luce sul controverso “caso giudiziario”.
La stessa richiesta di archiviazione è formulata con ampie ragioni (che si snodano lungo 73 pagine di provvedimento), dando conto di tutte quante le indagini effettuate: dunque, non una decisione superficiale o, peggio, deviata da una qualche parzialità, cui il ricorrente, invece, fa riferimento negli articoli di stampa in modo solo insinuante e privo di qualsiasi riferimento concreto che ne fondi una possibile veridicità. Infine, non è fuori contesto evidenziare come la vicenda sia datata, e così le indagini iniziali, quasi trent’anni prima dell’insediamento del magistrato alla guida della Procura di Castrovillari.
Di fronte a tali dati processuali, la critica scomposta e personale alla persona offesa portata dal ricorrente nei suoi articoli trascende sia il limite della continenza espressiva, sia quello della pur minima parvenza di verità richiesto quando siano trattati argomenti opinabili (quale senza dubbio sono una morte sospetta ed un possibile omicidio irrisolto), che costituiscono il campo di emersione delle inchieste giornalistiche, risolvendosi in una gratuita aggressione all’onore del magistrato, minandone fortemente la credibilità nella sua prospettiva più caratterizzante, costituita dall’imparzialità.
In particolare, si segnala l’estrema genericità, non priva di una carica evidente di invenzione vera e propria, dei contenuti dell’articolo del 7.3.2015 sull’esistenza di una relazione tra la morte di Bergamini e quella del magistrato Bisceglie, avvenuta molti anni dopo, cui sono state collegate le accuse riferite alla prassi della Procura di Castrovillari e del suo capo di “insabbiare” le inchieste per gravi reati.
4. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato ed al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta ilo ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 23 settembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2022.
SENTENZA – copia non ufficiale -.
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Come hanno ricordato i Giudici della Cassazione, in sentenza (supra), la morte del calciatore é ritenuto fatto di cronaca che ha interessato l’intera opinione pubblica, quindi per cui, si ritiene giustificato omettere l’oscuramento delle persone citate/coinvolte in sentenza.