La disciplina in materia di impresa familiare si applica al convivente more uxorio? (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Sentenza 24 gennaio 2023, n. 2121)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi – Rel. Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 19315/2018 proposto da:

(OMISSIS) Irene, elettivamente domiciliata in Roma alla Via (OMISSIS), n. 14, presso lo studio dell’Avv. Alberto (OMISSIS) (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avv. Nazzareno (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) Cristian, (OMISSIS) Sonia e (OMISSIS) Massimiliano, nella qualità di eredi di (OMISSIS) Ernesto, elettivamente domiciliati in Roma alla Via (OMISSIS), n. 24, presso lo studio dell’Avv. Cecilia (OMISSIS), dalla quale sono rappresentati e difesi;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 520/2017 della Corte di Appello di ANCONA, depositata l’11.4.2018, R.G. n. 178/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18.10.2022 dal Consigliere Dott. Francesco Giuseppe Luigi CASO;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Roberto Mucci, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 13.10.2016, il Tribunale di Fermo rigettava le domande che Irene (OMISSIS) aveva proposto nei confronti di Cristian, Sonia e Massimiliano (OMISSIS), quali figli e coeredi del defunto Ernesto (OMISSIS), del quale l’attrice assumeva essere stata stabile convivente; tali domande erano volte ad accertare l’esistenza di un’impresa familiare, relativa all’azienda agricola denominata “Il (OMISSIS) del (OMISSIS) di (OMISSIS) Ernesto”, nel periodo dal 2004, anno di iscrizione nel registro delle imprese, fino al 28.11.2012, data del decesso di (OMISSIS) Ernesto, nonché ad ottenere la condanna dei suddetti eredi di quest’ultimo alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipe dell’impresa suddetta, pari quantomeno al 50% del valore dei beni acquistati e degli utili conseguiti, compresi gli incrementi patrimoniali avutisi nel corso del tempo.

2. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Ancona, in accoglimento solo del terzo motivo dell’appello che la (OMISSIS) aveva interposto contro la decisione di prime cure circa la regolamentazione delle spese, compensava per intero fra le parti le spese processuali del primo grado, confermando nel resto l’impugnata sentenza, e compensando, altresì, per intero fra le parti anche le spese del secondo grado.

3. Avverso tale decisione (OMISSIS) Irene ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

4. Hanno resistito gli intimati con unico controricorso.

5. Entrambe le parti hanno prodotto memorie in vista dell’adunanza camerale del 13.9.2022.

6. All’esito della camera di consiglio del 13.9.2022 il Collegio rinviava la causa a nuovo ruolo per la trattazione in pubblica udienza.

7. Fissata, quindi, l’udienza pubblica del 18.10.2022, il P.M., in apposita memoria conclusionale, ha chiesto di rigettare il ricorso, con le conseguenze di legge.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia ex art. 360 n. 5, c.p.c. “Violazione per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Deduce che: “Il giudice anconetano ha ritenuto non applicabile la normativa contenuta nell’art. 230 bis c.c. ritenendo circostanza ostativa il rapporto di lavoro subordinato part-time che ha formalmente legato per un breve periodo la (OMISSIS) all’azienda agricola e che questa fosse dipendente, con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, presso la Regione Lombardia.

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, la corte territoriale non ha tenuto conto della circostanza che la sig.ra (OMISSIS) “dal 2008 in poi fu sempre presente in azienda, tranne che per qualche breve periodo svolgendo una fattiva attività anche promozionale”, il tutto nei termini specificati nello sviluppo di tale censura.

Aggiunge che: “Allo stesso modo dicasi per quello che riguarda il rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato relativamente ai periodi 1.5.11-31.10.11 e 1.5.12-31.10.12 (e la Corte di Appello di Ancona con evidente errore indica nella propria sentenza – pag. 3 – il periodo 2004/2011) con la qualifica di bracciante agricola, palesemente del tutto simulato in quanto intercorso esclusivamente ai fini assicurativi.

Peraltro “tale rapporto, seppur limitato nel tempo, deve essere letto nella giusta prospettiva e collocato nelle condizioni familiari in cui esso si è svolto, e deve essere perciò ricompreso nelle previsioni di cui all’art. 230-bis c.c., cosa che invece la Corte di Appello di Ancona ha del tutto ignorato e non valorizzato”.

2. Col secondo motivo, deduce ex art. 360 n. 3, c.p.c. “Violazione e falsa applicazione di norma di diritto in relazione all’applicazione dell’art. 230 bis c.c.”.

Dopo aver richiamato talune pronunce della Corte costituzionale e di questa Corte circa la convivenza more uxorio, sostiene che: “Esistevano tutti gli elementi di fatto che portavano all’accertamento della convivenza more uxorio tra la (OMISSIS) e il (OMISSIS).

Infatti, benché la prova testimoniale fosse stata bruscamente interrotta dal giudice di prime cure, dalle deposizioni dei testi escussi era emerso, senza ombra di dubbio, l’esistenza della convivenza more uxorio tra la ricorrente sig. (OMISSIS) ed Ernesto (OMISSIS) (v. testimonianze dei testi (OMISSIS), (OMISSIS), ed altri) e la stessa cosa emergeva dalla documentazione riversata in atti, primo fra tutti il manifesto funebre pagato dai figli del defunto (OMISSIS), ove veniva citata la Sig.ra Irene (OMISSIS) con la qualifica di “compagna” e quindi tutti le mail e messaggi di cordoglio, pervenuti alla (OMISSIS) da numerosissime persone, per lo più clienti del (OMISSIS) del (OMISSIS), che ritenevano tutti, indistintamente, Irene (OMISSIS) moglie del (OMISSIS), segno evidente dell’esteriorizzazione del rapporto tra di essi intercorso”.

Lamenta allora la ricorrente che: “La Corte di Appello di Ancona non ha tenuto conto di ciò”, se non per regolare diversamente nel senso della compensazione integrale le spese di primo grado.

Opina allora che: “Alla luce delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza nonché nell’ambito di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 230-bis c.c. in relazione all’art. 2 della Costituzione, stante anche gli illustri precedenti giurisprudenziali e dottrinari, ben avrebbe potuto e dovuto, il giudice territoriale, affermare, anche senza ricorrere all’art. 230 ter c.c., l’applicabilità di tale norma alla convivenza di fatto come nel caso trattato, con tutte le conseguenze previste nel caso di cessazione, come in effetti è avvenuta con la scomparsa di uno dei soggetti, della comunione tacita familiare”.

3. Con un terzo motivo, deduce ex art. 360 n. 3, c.p.c. “Violazione delle norme di diritto in relazione all’art. 230 bis e 230 ter cod. civ. e all’art. 11 delle Preleggi”.

Osserva che la mutata sensibilità sociale, cui in precedenza aveva fatto cenno “ha trovato risposta nella nuova legge sulle unioni civili (n. 76 del 20.5.2016) la quale con l’art. 1, comma 46, ha introdotto, nel vigente codice civile, l’art. 230-ter (Diritti del convivente) che al comma 1, testualmente recita: “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato“.

Si duole allora del diniego, da parte del giudice a quo, di applicazione di tale nuova normativa “ad un rapporto che affermava essersi esaurito nel 2012”.

Assume che “il principio di irretroattività invocato dalla Corte anconetana, il quale in sede penale risulta intangibile in quanto presidiato da norma costituzionale, possa, in sede civile ove non vi è tale costituzionale vincolo, essere derogato”.

Secondo la ricorrente, la norma introdotta con la nuova legge sulle unioni civili, rende giustizia ad una situazione di convivenza tra persone che sostanzialmente hanno adottato nel corso di essa identico costume delle coppie legalmente coniugate facendo insorgere obbligazioni giuridiche che, in passato, non hanno trovato tutela per il sol fatto che mancava il vincolo matrimoniale”.

Sempre a detta della ricorrente, “E’ quindi compito del giudice applicare la norma tenendo conto delle ragioni sociali che l’hanno ispirata e delle conseguenze pregiudizievoli che, una stretta e rigida applicazione delle regole interpretative, darebbe luogo ad una vera e propria ingiustizia e tradirebbe lo spirito della legge”.

4. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, all’evidenza connessi, pongono una questione senz’altro meritevole di attenzione, in relazione alla ratio decidendi principale della Corte distrettuale, rappresentata dal rilievo dell’ “impossibilità di qualificare la (OMISSIS) come familiare”, ai fini di cui all’art. 230 bis c.c. (cfr. pag. 3 dell’impugna sentenza).

5. Non ignora il Collegio che questa Corte, in passato, ha statuito che presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230 bis c.c., non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta “di fatto“, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica (così Cass. civ., sez. II, 29.11.2004, n. 22405).

Sempre questa Corte già in precedenza aveva affermato che l’art. 230 bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica.

Di conseguenza era stata ritenuta manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230 bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell’impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum (in tal senso Cass. civ., sez. lav., 2.5.1994, n. 4204).

Anche il P.G., nella sua memoria, ha richiamato tali due decisioni, invero ormai remote, ma che risultano essere le uniche ad essersi espresse sulla questione principale posta dal ricorso.

6. Tale linea interpretativa è indubbiamente aderente alla lettera dell’art. 230 bis c.c., che, al comma terzo, specifica che: “Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo“.

Detta norma quindi delimitava, e delimita tuttora, la platea dei congiunti che possono essere reputati “familiare” ai fini dell’istituto disciplinato dell’impresa familiare; platea che, a sua volta, funge da indice normativo espresso e decisivo per qualificare detta impresa come “familiare”.

E dell’esattezza di tale esegesi, come della legittimità costituzionale delle previsioni di cui all’art. 230 bis c.c., a fronte di pregresse ma sempre più consistenti “aperture” del legislatore e/o per via giurisprudenziale rispetto alla convivenza c.d. more uxorio per istituti ed aspetti diversi dall’impresa familiare, parrebbe riprova indiretta appunto la molto più recente introduzione dell’art. 230 ter c.c., ad opera dell’art. 1, comma 46, della I. 20.5.2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), che però è stata accompagnata dall’estensione dell’applicazione dell’art. 230 bis alle unioni civili ivi disciplinate, come si dirà più avanti.

Va, però, ricordato che la Corte costituzionale, pur avendo ribadito il suddetto orientamento con riferimento all’art. 230 bis c.c., peraltro, ne ha ampliato l’ambito applicativo soggettivo al fine di un migliore riconoscimento del lavoro ivi prestato (vedi sentenze n,. 476 del 1987, n. 170 del 1994; n. 485 del 1992), sottolineando che l’introduzione dell’istituto dell’impresa familiare risponde “alla meritoria finalità di dare tutela al lavoro comunque prestato negli aggregati familiari”.

Inoltre la stessa Corte, con indirizzo costante, ha affermato espressamente, da sempre, che l’art. 2 Cost. è riferibile altresì «alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità» (sentenza n. 237 del 1986) e ha quindi attribuito rilevanza giuridica al rapporto di convivenza more uxorio per alcune specifiche situazioni, sottolineando che la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost., nell’ipotesi in cui venga in considerazione la lesione di diritti fondamentali, come il diritto sociale all’abitazione collocabile fra i diritti inviolabili dell’uomo (sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988) ovvero il diritto alla salute (sentenza n, 213 del 2016).

Mentre nel settore dell’ordinamento penale la Corte – pur richiamando i suddetti principi — ha ritenuto compatibile con gli artt. 2 e 3 Cost. una soluzione legislativa differenziata, rispettivamente per il coniuge e il convivente more uxorio, con riguardo all’art. 384, primo comma, del codice penale, «nella parte in cui non contempla tra i soggetti che possono beneficiare della scriminante anche il convivente more uxorio» (sentenze n. 416 e n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004); sentenza n. 140 del 2009.

Ed è sulla base della giurisprudenza della Corte costituzionale e, in particolare della sentenza n. 138 del 2010, che è stata emanata la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze.), nella quale peraltro per i “conviventi di fatto”, nei termini definiti all’art. 1, comma 36, della stessa legge sono stati previsti i circoscritti “diritti” attualmente delineati dal cit. art. 230 ter c.c.

Tale ultima disciplina (pure invocata in ricorso) — al di là della differenza di presupposti e di effetti rispetto a quella dell’art. 230 bis c.c. – non appare nella specie applicabile ratione temporis, non essendo dotata di efficacia retroattiva, in quanto, come esattamente già rilevato dalla Corte distrettuale (cfr. pag. 4 della sua sentenza), è entrata in vigore il 5 giugno 2016 dopo l’ordinaria vacatio legis a seguito della pubblicazione in G.U. della legge n. 76 del 2016.

Pertanto, la nuova norma è entrata in vigore durante il primo grado del presente giudizio, che ha ad oggetto il rapporto di convivenza tra l’attuale ricorrente ed Ernesto (OMISSIS) che è con il decesso del (OMISSIS) (avvenuto il 28.11.2012).

7. Ne consegue che la norma da applicare nella specie è l’art. 230 bis cc e, al riguardo, la questione di massima che il Collegio sottopone all’attenzione di queste Sezioni Unite riguarda la possibilità di giungere in via interpretativa alla inclusione del convivente more uxorio (il cui rapporto di convivenza abbia un apprezzabile grado di stabilità) tra i soggetti cui è applicabile il suddetto art. 230 bis c.c., poiché il convivente more uxorio ancorché non possa qualificarsi come “familiare” tuttavia può essere meritevole di ottenere la tutela minima e inderogabile offerta dall’art. 230 bis c.c. a tutela del proprio diritto fondamentale al lavoro (art. 4 Cost.) avendo pacificamente lavorato per molti anni nell’impresa agricola del convivente more uxorio.

Non si tratta di porre sullo stesso piano coniugio e convivenza more uxorio ma di riconoscere un particolare diritto alla convivente more uxorio e ripristinare ragionevolezza all’interno di un istituto che non può considerarsi eccezionale quanto piuttosto avente una funzione residuale e suppletiva, essendo diretto ad apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari e che in passato vedevano alcuni membri della comunità familiare esplicare una preziosa attività lavorativa, in forme molteplici, senza alcuna garanzia economica e giuridica, ma che invece ora sono tutelati. In questa prospettiva non può non considerarsi l’evoluzione che si è avuta nella società con la sempre maggiore diffusione della convivenza more uxorio, evoluzione di cui hanno tenuto conto, in ambito nazionale, sia la Corte costituzionale sia il legislatore con la citata legge n. 76 del 2016.

In questa situazione l’esclusione del convivente more uxorio che per lungo tempo abbia lavorato nell’impresa familiare dell’altro convivente pare porsi in contrasto non solo con gli artt. 2 e 3 Cost. (come interpretati in materia dalla Corte costituzionale) ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE.

8. A tale ultimo riguardo va ricordato che di recente Cass. pen., SU., sent. 17 marzo 2021, n. 10381 – nel risolvere un contrasto interpretativo riguardante l’applicabilità o meno dell’ipotesi di cui all’art. 384 c.p., comma 1, al convivente more uxorio — ha formulato il seguente principio di diritto: “l’art. 384 c.p., comma 1, in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.

Si è in presenza, ovviamente, di una pronuncia che riguarda un ambito normativo ben diverso da quello che qui ci occupa.

Non può essere trascurato, però, che il suddetto principio di diritto è stato affermato in relazione all’art. 384, comma primo, c.p.; norma che, nel riferirsi a “un prossimo congiunto”, era pacificamente da leggere alla luce del disposto di cui all’art. 307, comma quarto, c.p., che recita:

Agli effetti della legge penale, si intendono per <> gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole“.

Nota il Collegio che l’inclusione della “parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso” in tale elenco di “prossimi congiunti”, che è il frutto del più recente intervento legislativo di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. 19.1.2017, n. 6, corrisponde peraltro alla disposta applicabilità dell’art. 230 bis c.c. nei confronti dello stesso soggetto per effetto dei commi 13 e 20 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016, effettuata senza l’attribuzione della qualifica di “familiare”.

Va precisato che, in entrambi i casi, le modifiche normative non hanno tuttavia ricompreso i conviventi di fatto (come riscontrato anche dalle Sezioni Unite penali nella richiamata decisione: cfr. in particolare il § 6 della stessa).

Ma in questa sede quel che deve essere sottolineato che prima della modifica del 2017 cit. il catalogo dei “prossimi congiunti” ex art. 307, quarto comma, c.p. era pressoché coincidente con quello dei “familiari” individuati nell’art. 230 bis, comma terzo, c.c.

Senza che assuma rilievo in contrario il differente dato lessicale secondo cui l’art. 230 bis cit. adotta i sostantivi “familiare” o “familiare”, specificando chi siano, mentre l’art. 307, comma quarto, c.p. adopera la locuzione “prossimi congiunti”, parimenti individuandoli. Ed è su suindicato testo che è intervenuta la citata pronuncia nomofilattica delle Sezioni Unite penali di questa Corte riguardante l’art. 384 c.p.,

9. Al riguardo, va precisato che, al di là degli aspetti squisitamente penalistici della questione esaminata, alla luce dell’anzidetta similitudine testuael, appare qui interessante ricordare che la motivazione di SU pen. n. 10381/2021 prende le mosse dal rilievo che: “La famiglia di fatto condivide con la famiglia legittima la scelta di una condivisione di un percorso di vita comune, basato sull’affectio, sulla stabilità, sulla convivenza e sulla responsabilità della cura ed educazione dei figli” (così al § 4), pur sottolineando le due situazioni differiscono sia per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo, sia perché nella dimensione della convivenza di fatto si tende a riconoscere spazio alla soggettività individuale, mentre in quella del rapporto di coniugio si attribuisce maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale.

10. Ma, è molto significativo, in questa sede ricordare che le Sezioni Unite penali abbiano sottolineato come la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di “vita familiare” ormai da tempo elaborata dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, par. 1, CEDU (tra le tante: Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Irlanda; Corte EDU, 05/01/2010, 3aremowicz c. Polonia; Corte EDU, 27/04/2010, Moretti e Benedetti c. Italia; Corte EDU, 24/06/2010, Schalk and Kopf c. Austria; Corte EDU, 21/07/2015, Oliari ed altri c. Italia: Corte EDU 14/12/2017, Orlandi ed altri c. Italia).

Si è anche aggiunto che “l’ambito soggettivo della nozione di “vita familiare” ai sensi dell’art. 8 CEDU include, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sia le nozioni giuridicamente istituzionalizzate (famiglia legittima), sia le relazioni fondate sul dato biologico (famiglia naturale), sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale, alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi” (cfr. in extenso il § 4.2.).

Peraltro, da tali pronunce si desume che la Corte EDU, così come la Corte costituzionale, riconosce la discrezionalità del legislatore nel prevedere diverse soglie di tutela dei vincoli discendenti dal matrimonio e dalla convivenza di fatto in relazione alla necessità di proteggere i contro-interessi in gioco.

Infatti, benché la Corte EDU riconduca nella sfera applicativa dell’art. 8 CEDU, nella parte in cui protegge la “vita familiare”, la tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza di fatto, tuttavia, considera legittima la limitazione di tale diritto (ad esempio, in ragione dell’esigenza di tutelare gli interessi connessi all’amministrazione della giustizia penale), riconoscendo altresì la possibilità di bilanciamenti differenziati per le coppie sposate e le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del legislatore (cfr., Corte EDU, 3 aprile 2012, Van der Heijdel c. Netherlands). Tali principi hanno ovviamente grande rilievo anche nel presente giudizio.

11. Così come ha rilievo l’ulteriore notazione delle Sezioni Unite penali sul “significativo avanzamento nelle possibilità di tutela della molteplicità e varietà delle relazioni di tipo familiare” che desume nella più recente previsione normativa dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), divenuta giuridicamente vincolante (ex art. 6, par. 1, TUE) a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (cfr. § 5 della stessa sentenza).

In tale norma infatti, al tradizionale favor per il matrimonio si sostituisce la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione, garantendo separatamente il diritto di sposarsi e quello di fondare una famiglia, anche autonomamente rispetto al vincolo matrimoniale stricto sensu inteso.

12. In attesa che, attraverso un intervento legislativo si possa giungere ad visione organica del fenomeno della convivenza more uxorio sempre più diffuso, si rileva che la questione di massima qui formulata non involge questa complessa problematica di carattere generale, essendo semplicemente diretta a tutelare il fondamentale diritto del lavoro della ricorrente che è pacifico che per molti anni abbia prestato la sua opera nell’impresa del convivente deceduto. E che rischia di restare senza alcun tipo di riconoscimento.

13. AI riguardo, osserva il Collegio che nel novero delle risalenti e diacroniche “aperture” rispetto al convivente more uxorio sul fronte interpretativo a livello giurisprudenziale si è così aggiunto per l’appunto l’intervento della massima istanza nomofilattica di cui alla sent. n. 10381/2021 delle Sezioni Unite Penali, relativo a norma – si noti – quale l’art. 384, comma primo, c.p., che al pari dell’art. 230 bis c.c., in precedenza, almeno secondo l’indirizzo prevalente, veniva reputata non suscettibile di applicazione estensiva o analogica.

Soggiunge il Collegio che la progressiva implementazione dei suddetti ambiti di tutela è stata dalle Sezioni Unite Penali riferita ad una disposizione (l’art. 384, comma primo, c.p.), a sua volta, da rapportare ad altra (l’art. 307, ult. comma, c.p,), la quale è “scritta” in modo molto simile all’art. 230 bis, comma terzo, c.c.

Ciò tuttavia, se non sollecita immediati rilievi di possibile incostituzionalità dell’attuale assetto normativo (cfr. a riguardo il § 4. di Sez. Un. pen. n. 10381/2021), porta a constatare un’indiscutibile tensione di tale assetto rispetto ai parametri costituzionali di cui all’art. 2, all’art. 3, nonché all’art. 4 (sul diritto al lavoro) e all’art. 35, comma primo (secondo il quale la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme) della Costituzione nonché alle fonti internazionali vincolanti in precedenza richiamate.

E tanto pare rendere non implausibile la ricerca di una soluzione ermeneutica che consenta l’applicazione dell’art. 230 bis cit. al convivente di fatto, con un intervento specifico e mirato a tutelarne i diritti fondamentali, a partire da quello al lavoro, analogo a quello che è stato effettuato per le unioni civili, come si dirà più avanti.

14. Deve altresì essere considerato che quando – come si verifica nella specie e nella maggior parte dei casi – la convivente more uxorio esclusa dall’impresa familiare sia una donna questo determina anche una violazione dell’art. 37, primo comma, Cost. secondo cui: “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”, implicitamente richiamato dal secondo comma dell’art. 230 bis c, c., in base al quale: “il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”.

15. Va aggiunto che la citata legge n. 76 del 2016 è intervenuta in materia non solo con l’introduzione dell’art. 230 ter c.c. su richiamato — nel quale, fra l’altro, si prevede che al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetti una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato – ma anche stabilendo espressamente l’applicazione dell’art. 230 bis c.c. alle unioni civili ivi disciplinate, attraverso il richiamo alle disposizioni del VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile (art. 1 comma 13, della legge n. 76 del 2016) e disponendo nel successivo comma 20 dello stesso art. 1, che le disposizioni delle leggi, degli atti aventi forza di legge, dei regolamenti nonché degli atti amministrativi e dei contratti collettivi contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, “si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.

E si è specificato che lo stesso vale per le norme del codice civile richiamate dalla stessa legge, che includono l’art. 230 bis c.c., per quanto si è detto.

16. Com’è noto, in base alla giurisprudenza di questa Corte l’interprete, pur restando fedele alla chiara lettera della legge, non esaurisce il suo compito nel momento ricognitivo della volontà del legislatore, ma deve accertare se la norma, per la sua interna carica vitale, non abbia obiettivamente maturato un significato ulteriore e diverso dal contesto sociale che la occasionò.

La sensibilità dello interprete deve, in altri termini, avvertire quali nuove esigenze la legge, sempre col rispetto del senso proprio delle sue parole, e suscettibile di soddisfare nelle mutate condizioni di vita.

Pertanto, nel rispetto della ratio legis chiaramente espressa, l’interprete è chiamato a procedere ad una interpretazione evolutiva della norma da applicare eventualmente anche tenendo conto dei sopravvenuti e più recenti interventi legislativi non direttamente applicabili nella fattispecie esaminata (vedi, tra le tante: Cass. SU 14 aprile 2011, n. 8486; Cass. 13 maggio 1975, n. 1378; Cass. 12 marzo 1973, n. 677; Cass. 26 luglio 2000, n. 9795; Cass. 19 aprile 2001, n. 5776; Cass. 9 agosto 2007, n. 17579; Cass. 13 aprile 2016, n. 7313; Cass. 28 settembre 2022, n. 28295).

17. Del resto, anche secondo la Corte costituzionale l’interprete, in base all’art. 12 disp. prel. cod. civ., non deve fermarsi ad una lettura delle norme basata soltanto sul senso letterale delle parole essendo invece chiamato ad indagare l’intenzione del legislatore alla stregua dei criteri di interpretazione storica, logico-sistematica e teleologica (Corte costituzionale, sentenze n. 223 del 1991; n. 16 e n. 74 del 1996).

Da questo punto di vista va ricordato che l’art. 230 bis c.c., come precisato dalla stessa Corte costituzionale in più occasioni, è stato introdotto dalla riforma del diritto di famiglia di cui alla legge n. 151 del 1975 per la “meritoria finalità di dare tutela al lavoro comunque prestato negli aggregati familiari”.

Nel corso di questi lunghi anni trascorsi dalla introduzione della norma non solo la platea dei familairi è stata estesa per effetto di alcune decisioni della Corte costituzionale, ma con la legge n. 76 del 2016 vi sono stati inclusi anche i soggetti legati dalle unioni civili ivi disciplinate. E, intanto, nel costume sociale la convivenza more uxorio ha avuto – ed ha tuttora – grande applicazione.

Ne consegue che oggi l’esclusione del solo – o della sola, come più frequentemente si verifica e come avviene nel presente giudizio – convivente more ixorio dalla applicazione dell’art. 230 bis c.c. appare non corrispondente alla “inclusiva” ratio dell’istituto rapportata alle mutate condizioni di vita, nel suddetto ambito materiale.

18. Per tutte le indicate ragioni, conclusivamente, ritiene il Collegio di dover rimettere gli atti al Primo Presidente di questa Corte per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite civili, per la soluzione della seguente questione di massima di particolare importanza:

se l’art. 230-bis, comma terzo, c.c. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione dell’evoluzione dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. sia all’art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l’applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità“.

P.Q.M.

La Corte trasmette gli atti al primo Presidente della Corte per l’eventuale rimessioni alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza esposta in motivazione.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio il 18.10.2022.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.

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More uxorio è una locuzione latina, il cui significato è: “secondo il costume matrimoniale”. L’etimologia di questa espressione viene dal latino: Mos – Moris: costume, uso, consuetudine, stile di vita, abito, usanza; Uxor – Uxoris: coniuge, consorte, moglie.