La lettera di licenziamento consegnata “a mani” del lavoratore e il suo rifiuto di riceverla.

Il licenziamento deve essere, necessariamente, comminato per iscritto, sotto pena, in mancanza, della sua palese nullità.

Tant’è vero che, il licenziamento intimato oralmente è radicalmente inefficace per inosservanza dell’onere della forma scritta imposto dall’art. 2 L. 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall’art. 2 L. 11 maggio 1990, n. 108, e, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro (Cfr.: Cass. civ., Sez. Lav., 10/9/2012 n. 15106).

Logica conseguenza di ciò è che il rapporto non s’intende interrotto e il datore di lavoro è tenuto all’immediato ripristino del rapporto, nonché a pagare al lavoratore tutte le retribuzioni dalla data di messa in mora, con offerta della prestazione lavorativa, sino all’effettiva riammissione in servizio.

Ciò posto, solitamente, la comunicazione del licenziamento avviene con spedizione della stessa per mezzo del servizio postale, ma anche per il tramite della consegna “a mani” della relativa comunicazione.

Tuttavia quest’ultima modalità può nascondere delle vere e proprie insidie.

Interessante, a tal proposito, segnalare un recente pronunciamento della Suprema Corte, proprio in merito alla lettera di licenziamento consegnata a mani, per la quale il lavoratore rifiuta di apporre la firma “per ricevuta”.

Ed invero è avvenuto che la ditta datrice di lavoro, intendendo licenziare il proprio lavoratore, lo convocava per consegnargli l’intimazione di licenziamento, con atto scritto da rimettere nelle mani del dipendente.

Sta di fatto che questi rifiutava di sottoscrivere l’atto di licenziamento, di talché il datore di lavoro provvedeva alla lettura del contenuto dell’intimazione del licenziamento, alla presenza di testimoni e del medesimo lavoratore.

Impugnato il licenziamento da parte del lavoratore, dopo due gradi di giudizio la causa giungeva dinnanzi alla Suprema Corte, la quale all’esito della discussione, in data 3 giugno 2015, provvedeva ad emettere la sentenza n. 11479, oggi in commento (qui sotto allegata).

Il lavoratore, in sostanza, lamentava l’omessa o l’insufficiente motivazione nonché la violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2, per avere l’impugnata sentenza di secondo grado ritenuto soddisfatto il requisito della forma scritta del licenziamento in base ad una deposizione testimoniale, con la quale i testi riferivano di aver redatto un verbale di avvenuta lettura e consegna della lettera di licenziamento al ricorrente, che ciò nonostante aveva rifiutato di sottoscriverlo.

Deduceva, pertanto, l’inammissibilità della prova orale della comunicazione del licenziamento atteso che, il menzionato art. 2, L. 604/1966, prevede che il licenziamento debba essere comunicato in forma scritta e che, quindi, in virtù dell’art. 2725 c.c., quando un atto o contratto necessità della forma scritta, non è ammissibile la prova testimoniale, consentita solo quando il contraente abbia, senza colpa, perduto il documento che gli forniva la prova, ex art. 2724, co. III, c.c.

La Suprema Corte accoglie il motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Per motivare la propria decisione la Corte di Cassazione afferma che, che la società datrice di lavoro ha prodotto in corso di causa lettera di intimazione di licenziamento al lavoratore recante la data del 5.6.07 con la dicitura, in calce, della sua avvenuta lettura al lavoratore medesimo, il che avrebbe avuto luogo lo stesso giorno alle ore 10,50 ad opera del responsabile marketing della società datrice, con annesso verbale a loro firma in cui danno atto di aver letto e consegnato al lavoratore copia della lettera di recesso e del suo rifiuto di sottoscrivere per ricevuta.

Che tali circostanze, confermate in via testimoniale dai signori D. A. e F.D., sono state invece contestate dal lavoratore, che ha invece negato, sin dall’inizio, di aver mai ricevuto lettura e/o tentativo di consegna a mani dell’atto di licenziamento.

Pertanto, l’oggetto della controversia è l’esistenza stessa, al momento del licenziamento del lavoratore, di un atto comunicatogli per iscritto contenente la volontà di recedere dal rapporto da parte della datrice di lavoro.

Ciò posto, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 2, commi 1 e 3, ai fini dell’efficacia del licenziamento è necessaria la “comunicazione” in forma scritta (rectius, l’inefficacia consegue alla nullità per difetto di forma prescritta ad substantiam: Cfr. Cass. civ., n. 13543/02).

L’obbligo della forma scritta è rispettato sia con l’invio della lettera, anche non raccomandata, sia con qualunque altro scritto.

Di talché, il licenziamento, essendo atto di natura recettizia, produce i propri effetti quando giunge a conoscenza del destinatario, conoscenza presunta ex art. 1335 c.c., quando l’atto sia pervenuto al suo indirizzo o gli sia stato materialmente consegnato a mani proprie.

Quest’ultima circostanza può essere dimostrata, ad esempio, dalla sottoscrizione per ricevuta apposta in calce alla lettera medesima o anche attraverso prova testimoniale.

A tal proposito, occorre rilevare come una cosa è la forma dell’atto contenente la manifestazione di voler recedere dal rapporto (e questa può essere solo scritta) altro, invece, è il mezzo della concreta trasmissione dell’atto medesimo che come visto, può avvenire mediante corriere, servizio postale, consegna a mano etc., (Cfr.: Cass. civ., n. 23061/07).

Orbene, nel caso sottoposto all’attenzione della Corte di Cassazione, l’oggetto del contendere non era la redazione per iscritto della lettera di licenziamento, bensì la modalità di trasmissione della stessa, tanto è vero che il lavoratore contestava il mancato invio, mentre l’azienda sosteneva il rifiuto dello stesso di ricevere la consegna a mani.

Pertanto, la contestazione atteneva la circostanza per la quale, al momento dell’estromissione dall’azienda, “al ricorrente fosse stato letto, mostrato o consegnato uno scritto contenente la volontà datoriale di recesso”.

Il datore di lavoro ha tentato di dimostrare la lettura della comunicazione del licenziamento, in azienda, alla presenza del lavoratore, con una prova testimoniale, per mezzo di altri soggetti asseritamente presenti al momento della predetta lettura.

Orbene la Suprema Corte, così come rilevato dalla difesa del lavoratore, ritiene che: “si tratta di testimonianze inammissibili ex art. 2725 cpv. c.c., norma che non consente la prova testimoniale d’un contratto (o di un atto unilaterale, ex art. 1324 c.c.) di cui la legge preveda la forma scritta a pena di nullità se non nel caso indicato dal precedente art. 2724 c.c., n. 3, vale a dire quando il documento sia andato perduto senza colpa. Si tratta di divieto di testimonianza che ne importa inammissibilità rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio”.

Né, continua la Corte, può ovviarsi con i poteri officiosi del giudice, ex art. 412, co. II, c.c., atteso che è pur vero che è ammissibile d’ufficio ogni mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti imposti dal codice civile, tuttavia, la predetta deroga: “si riferisce non ai requisiti di forma previsti (ad substantiam o ad probationem) per alcuni tipi di contratti, ma ai limiti fissati alla prova testimoniale, in via generale, dagli artt. 2721, 2722 e 2723 stesso codice (anche a tale riguardo la giurisprudenza di questa Corte Suprema è costante: cfr. Cass. n. 17614/09; Cass. n. 17333/05; Cass. n. 11540/96)”.

Peraltro, al documento prodotto, consistente nella lettera di licenziamento,non può neppure riconoscersi “data certa” di redazione, se avvenuta in epoca anteriore ovvero contestualmente al licenziamento, considerato che, anche in questo caso, una prova testimoniale sul punto specifico ”aggirerebbe surrettiziamente quel divieto di prova testimoniale di cui all’art. 2725 cpv. c.c.”.

Ciò posto, conclude la Suprema Corte: “non potendosi provare in via testimoniale la – controversa – comunicazione per iscritto del licenziamento, lo stesso risulta nullo per difetto della forma prevista ex lege. Tale conclusione è coerente e simmetrica a quella adottata da questa S.C. in tema di impugnazione extragiudiziale del licenziamento ex art. 6 legge n. 604/66, anch’essa richiesta per iscritto ad substantiam (cfr. Cass. n. 10862/06; Cass. n. 11059/2000)”.

Pertanto, la sentenza di secondo grado viene cassata, con l’accoglimento del motivo afferente la nullità del licenziamento e conseguente obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore, con rinvio alla Corte d’Appello, in diversa composizione, per l’applicazione dei principi di diritto sopra esposti.