REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAZZEI Antonella Patrizia – Presidente
Dott. CIAMPI Francesco Mari – Consigliere
Dott. SARACENO Rosa Anna – Rel. Consigliere
Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere
Dott. CAIRO Antonio – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CREA ANTONINO nato a BARCELLONA POZZO DI GOTTO il 11/01/1964;
avverso la sentenza del 06/02/2019 del GIP TRIBUNALE di BARCELLONA POZZO DI GOTTO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ROSA ANNA SARACENO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCA ZACCO che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
rilevato che il difensore è rimasto assente.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 6 febbraio 2019 il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, all’esito di giudizio celebrato con rito abbreviato, dichiarava Antonino Crea responsabile del reato di cui all’art. 660 cod. pen., così modificata dal Pubblico ministero l’originaria imputazione ex art. 612 bis cod. pen., e, con la diminuente del rito, lo condannava alla pena di euro 200,00 di ammenda, oltre che al risarcimento dei danni, liquidati in 800 euro, e alla rifusione delle spese di lite in favore della persona offesa, costituita parte civile.
Secondo la contestazione il Crea, con reiterate condotte, aveva recato molestia a Mauro Pittau, in particolare contattandolo ripetutamente, tra il gennaio e il febbraio 2017, tramite il social network facebook ovvero tramite l’applicativo whatsapp, al fine di organizzare incontri o intavolare conversazioni di chiaro contenuto sessuale.
1.1. A ragione della decisione il Tribunale ricordava che la persona offesa aveva dichiarato di essere stato destinatario delle attenzioni dell’imputato a partire dall’estate 2015; il Crea lo aveva letteralmente “tartassato” di messaggi e telefonate, mostrando di essere a conoscenza delle sue abitudini, delle sue frequentazioni, dei suoi spostamenti; gli aveva inviato immagini di esplicito contenuto erotico che gli avevano procurato imbarazzo, facendogli dubitare della sua sessualità e costringendolo a ricorrere all’assistenza di uno specialista; l’imputato, dopo un periodo di pausa, aveva ripreso a molestarlo a partire dal gennaio 2017, con nuove, ripetute e ancora più pressanti avances.
Era stato poi sentito come teste Alessio Genovese, che aveva riscontrato le dichiarazioni della parte lesa, ammettendo di essere a conoscenza dei messaggi inviati dal Crea e delle richieste dal medesimo avanzate al Pittau sin dall’estate 2015; egli stesso, su richiesta dell’imputato, aveva contattato la parte lesa al fine di procurare incontri con il Crea, invitando quest’ultimo, nel marzo 2017, a cessare ogni richiesta, in quanto il Pittau avrebbe potuto procurargli “grattacapi” con le forze di polizia.
1.2. Tanto premesso la sentenza impugnata osservava che la parte lesa appariva, alla luce della doverosa verifica delle sue dichiarazioni, assolutamente attendibile, oltre che riscontrata dalla deposizione resa dal Genovese, persona sentimentalmente legata all’imputato e, quindi, non sospettabile di pregiudiziale avversione nei suoi confronti.
Prove dichiarative, fotografie inviate, aventi chiari riferimenti sessuali, contenuto dei messaggi, numero dei contatti provenienti dal Crea, certamente sbilanciati per frequenza rispetto a quelli riconducibili al Pittau, dimostravano, al di là di ogni possibile dubbio, la responsabilità dell’imputato, trasparendo dall’intero comportamento descritto l’intenzione di molestare e di coinvolgere il soggetto passivo in una relazione non voluta o in alcuni estemporanei incontri.
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il Crea a mezzo del difensore, avvocato Paolo Pino.
2.1. Con il primo e secondo motivo denuncia violazione di legge sostanziale e processuale in relazione agli artt. 162 bis cod. pen., 141 disp. att. cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
Rappresenta che, all’esito della modifica dell’originaria imputazione, aveva avanzato richiesta di oblazione ai sensi dell’art. 162 bis cod. pen., domanda che il Tribunale aveva erroneamente respinto sul rilievo del mancato deposito degli importi previsti e senza fornire motivazione alcuna sulla gravità del reato.
2.2. Con il secondo motivo lamenta contraddittorietà della motivazione per non avere il Tribunale tenuto conto della reciprocità dei contatti, essendo emerso che talvolta era stata la stessa parte lesa a chiamare o a inviare messaggi all’imputato, così serbando un comportamento ambiguo, tale da poter avere indotto il primo a ritenere il Pittau interessato alle attenzioni che gli aveva esternato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Osserva il Collegio che il ricorso appare inammissibile.
2. Se è vero che sia l’art. 162, secondo comma, cod. pen. (c.d. oblazione obbligatoria), sia l’art. 162 bis, sesto comma, cod. pen. (c.d. oblazione facoltativa) prevedono che l’estinzione del reato si produce per effetto del pagamento della somma dovuta, occorre tuttavia considerare che a detta disciplina sostanziale si affianca altra processuale, introdotta con il vigente codice di rito all’art. 141 disp. att., che, secondo la univoca giurisprudenza di questa Corte, ha implicitamente abrogato la parte procedurale contenuta nell’art. 162 bis cod. pen., e in particolare quella contenuta nel secondo comma di detto articolo; con la conseguenza che per qualsiasi forma di oblazione prevista dal codice penale è unico il relativo procedimento.
Così che, mentre prima dell’entrata in vigore dell’attuale codice di rito, in base al secondo comma dell’art. 162 bis cod. pen., con la domanda di oblazione il contravventore doveva depositare (a pena di inammissibilità) la somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda, nel sistema attuale, in ogni caso di oblazione, in forza dell’art. 141 disp. att. cod. proc. pen., la procedura si articola nei seguenti passaggi: domanda; acquisizione del parere del pubblico ministero; ammissione con fissazione della somma dovuta; pagamento; pronuncia di estinzione del reato.
Ciò nondimeno il primo motivo manca di specificità poiché il Tribunale, come risulta dalla lettura dell’ordinanza impugnata, ha giustificato il diniego dell’oblazione facoltativa con una motivazione alternativa, non solo con il riferimento (erroneo) al mancato deposito con la domanda della somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda, ma in primo luogo con riferimento all’apprezzata gravità del reato.
3. Manifestamente infondato è, poi, il denunziato difetto di motivazione con riguardo alla gravità del reato ritenuta ostativa alla sua estinzione con la chiesta oblazione.
Dalla lettura della sentenza, che integra l’ordinanza di rigetto della domanda di oblazione presentata dall’imputato, si evince che il Tribunale ha ampiamente giustificato la ritenuta gravità del fatto-reato, valorizzando la durata della condotta molesta, protrattasi per un arco temporale ben più ampio di quello dedotto in contestazione; l’effettiva portata delle espressioni moleste; la natura dolosa degli insistiti e protratti comportamenti serbati dall’imputato; la sua negativa personalità siccome già gravato da precedenti penali; la condotta tenuta anche dopo l’apertura del procedimento, per avere assunto atteggiamenti ostili nei confronti della parte lesa, estrinsecatisi in insulti e manifestazioni di disprezzo (cfr. integrazione di denunzia sporta dal Pittau in data 25.1.2018), così offrendo ampia giustificazione dell’esercizio del suo potere di respingere la domanda per l’apprezzata gravità del reato.
Potendosi qui solo aggiungere che, secondo consolidato avviso di” legittimità, i criteri di valutazione della gravità del fatto demandata al potere discrezionale del giudice dall’art. 162 bis, comma 4, cod. pen., devono essere intesi nel senso più ampio, con riferimento ad entrambi i commi di cui all’art. 133 cod. pen., così rilevando non solo le modalità dell’azione, l’intensità del dolo o il grado della colpa, la gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa, ma anche la capacità a delinquere del colpevole, desunta dai suoi precedenti penali, dalla condotta contemporanea o susseguente al reato e dai motivi a delinquere. Ne discende che le censure articolate con i primi due motivi di ricorso si rivelano non pertinenti per la mancanza di correlazione fra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento della impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cedere nel vizio di aspecificità conducente al rilievo di inammissibilità.
4. Non diversa sorte merita il terzo motivo.
La denunzia di contraddittorietà della motivazione è manifestamente infondata.
La sentenza impugnata offre una motivazione completa, articolata e corretta sotto ogni aspetto, anche nella ricostruzione dei fatti e degli elementi acquisiti.
Le censure, intrinsecamente sommarie, appaiono generiche laddove sostengono che non sarebbe stato valutato l’intero materiale probatorio (non avendo il Tribunale affatto taciuto i contatti provenienti dalla parte lesa); sono manifestamente infondate, nella parte in cui assumono che l’affermazione di responsabilità non poteva basarsi sulla deposizione della parte lesa a ragione dell’ambiguo comportamento tenuto dal Pittau, al contrario ritenuto motivatamente attendibile e riscontrato dalle dichiarazioni del teste; di contro, l’apprezzamento del significato probatorio assegnato dal provvedimento impugnato a ciascun elemento e al loro mutuo corroborarsi è ineccepibile dal punto di vista logico, come lo è sotto l’aspetto della completezza.
5. All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione, – di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 5 marzo 2020.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020.