Licenziamento ritorsivo se manca la prova della profonda ristrutturazione, dell’impossibilità di ricollocare in un’altra area all’interno il lavoratore licenziato che, pochi mesi prima della misura, aveva assunto iniziative in contrasto con un amministratore (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 3 agosto 2023, n. 23702).

L A    C O R T E    S U P R E M A    D I    C A S S A Z I O N E

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADRIANA DORONZO                                   – Presidente –

Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI                – Consigliere –

Dott. CARLA PONTERIO                                        – Consigliere –

Dott. GUGLIELMO CINQUE                                  – Consigliere –

Dott. FABRIZIO AMENDOLA                                 – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 31741-2020 proposto da:

(omissis) (omissis) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (omissis);

ricorrente

 contro 

(omissis) (omissis) elettivamente domiciliato in (omissis);

controricorrente

avverso la sentenza n. 664/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 09/10/2020 R.G.N. 1369/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera consiglio del 21/06/2023 dal Consigliere Dott. FABRIZIO  AMENDOLA.

RILEVATO CHE

1. la Corte di Appello di Milano, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato in data 24 novembre 2017 da (omissis) (omissis) Spa al dirigente (omissis) (omissis) con condanna  della società alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni globali di fatto dalla data del recesso fino a quella della effettiva riammissione in servizio, oltre al versamento dei contributi previdenziali, accessori e spese;

2. la Corte territoriale, in estrema sintesi e per quanto qui rileva, ha condiviso l’assunto del primo giudice che aveva ritenuto la natura ritorsiva del licenziamento sulla scorta di una serie di elementi indiziari;

a tal fine la Corte ha evidenziato i seguenti aspetti: non risultavano compiutamente provate le ragioni espressamente indicate dalla (omissis) nella lettera di licenziamento, in quanto dall’istruttoria svolta da un lato non era emersa la “profonda riorganizzazione” posta dalla società a fondamento del recesso e, d’altro canto, non erano state provate “le mutate esigenze che hanno imposto in un breve lasso di tempo la soppressione della posizione direction e il collocamento dell’area direction in altra direzione aziendale”; non risultava poi “provato perché la scelta del lavoratore da licenziare sia caduta su (omissis) e non su (omissis) proposto alla direzione (omissis) dalle risultanze processuali era risultata smentita la circostanza, indicata nella lettera di  licenziamento, che non vi fossero altre posizioni aziendali coerenti con il profilo del (omissis) era emerso, inoltre, che quest’ultimo aveva assunto, nei mesi immediatamente precedenti alla data del licenziamento, “iniziative in contrasto con gli interessi e la volontà dell’amministratore della società (omissis) ulteriore elemento a sostegno della natura ritorsiva del recesso era data “dal mancato rilascio della (omissis) della attestazione di  good leaver“, che avrebbe consentito “a (omissis) di non dover offrire le proprie quote di (omissis) in opzione agli altri soci, mantenendo la partecipazione in tale società”;

3. avverso tale sentenza la soccombente società ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico articolato motivo, cui ha resistito con controricorso l’intimato, che ha anche comunicato memoria;

all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;

CONSIDERATO CHE

1. con il motivo di ricorso si denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge 300/1970 e degli artt. 1345 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.”); si critica diffusamente la sentenza impugnata in quanto:

a) si sarebbe limitata “a statuire la ritorsività del licenziamento senza prendere minimamente in esame le argomentazioni, le prove e le testimonianze emerse nei due gradi di giudizio”;

b) si fonderebbe “su mere presunzioni, che non sono certamente gravi, precise e concordanti”;

c) si fonderebbe, poi, su “circostanze che non corrispondono alla realtà (e che sono contraddette sia documentalmente che dai testimoni)”;

d) negherebbe “l’oggettiva riorganizzazione e soppressione della posizione del dott. (omissis)  (nonostante le prove documentali e testimoniali)”;

e) realizzerebbe, “senza alcuna fondata motivazione, una errata immedesimazione del dott. (omissis) e del Consiglio di Amministrazione”;

2. il motivo è inammissibile;

2.1. opportuno premettere in diritto che, secondo questa Corte (tra le più recenti Cass. n. 6838 de 2023; Cass. n. 26399 del 2022; Cass. n. 26395 del 2022; Cass. n. 21465 del 2022, alle quali si rinvia anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.), per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005; Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555 del 2011);

2.2. dal punto di vista probatorio l’onere ricade sul lavoratore in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c., non operando l’art. 5 l. n. 604 del 1966, ma esso può essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 20742 del 2018; Cass. n. 18283 del 2010); in particolare, ben può il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo di recesso, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass. n. n. 23583 del 2019);

2.3. è stato altresì specificato che l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, l’esistenza della  giusta causa o del giustificato motivo del recesso; ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso (Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 27325 del 2017; Cass. n. 26035 del 2018);

2.4. non è dubbio che il valutare nella concretezza della vicenda storica se il licenziamento sia stato o meno intimato per motivo di ritorsione costituisca una quaestio facti, come tale devoluta all’apprezzamento dei giudici del merito, con un accertamento di fatto non suscettibile di riesame innanzi a questa Corte di legittimità, con formali denunce di errori di diritto che, nella sostanza, mascherano nella specie la contestazione circa la valutazione di merito operata dai giudici ai quali è riservata (per tutte Cass. n. 6838 del 2023 e Cass. n. 26399 del 2022, già citate); né tanto meno può criticarsi, in questa sede, la sentenza impugnata per il ragionamento presuntivo operato, perché spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass. n. 21961 del 2010); va escluso che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva avrebbe dovuto condurre ad un esito interpretativo diverso da quello raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017), spettando al giudice del merito l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano  secondo  il criterio dell’id quod plerumque accidit (v. Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017);

2.5. la parte ricorrente formalmente prospetta errori di diritto – peraltro anche con riguardo ad una pretesa violazione dell’art. 18 lav. che, come noto, riguarda le conseguenze sanzionatorie del licenziamento invalido ma non i suoi presupposti giustificativi – ma, nella sostanza, come reso palese dall’illustrazione del motivo, contesta inammissibilmente la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di primo e secondo grado, a partire dalla mancanza di prova della giustificazione addotta a fondamento del recesso;

una volta acclarata l’insussistenza di un giustificato motivo di licenziamento, la Corte, confermando il convincimento già espresso dal primo giudice, ha ritenuto che non concorresse, nella determinazione del licenziamento, un motivo lecito ed ha considerato provata la natura ritorsiva del recesso sulla scorta di una serie di elementi; si tratta evidentemente di un accertamento di fatto, non suscettibile di riesame in questa sede così come non lo è il ragionamento indiziario svolto dai giudici del merito;

le Sezioni unite civili hanno più volte ribadito l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, cosi travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);

3. in conclusione il ricorso deve essere dichiara o inammissibile; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17,  della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in euro 10.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 21 giugno 2023.

Il Presidente

Dott.ssa Adriana Doronzo

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.