REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SECONDA SEZIONE PENALE
Composta da:
ELISABETTA ROSI – Presidente –
ANNA MARIA DE SANTIS
MARIA DANIELA BORSELLINO – Relatore –
GIUSEPPE SGADARI
DONATO D’AURIA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli
nel procedimento a carico di
(omissis) (omissis), nato a (omissis) il xx/xx/19xx;
(omissis) (omissis), nato a (omissis) il xx/xx/19xx;
avverso l’ordinanza resa dal Tribunale di Napoli il 27 Febbraio 2023
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
preso atto della ritualità delle notifiche degli avvisi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Maria Daniela Borsellino;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Ettore Pedicini che ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Napoli per nuovo esame;
sentite le conclusioni dell’avv. (omissis) (omissis) anche in sostituzione dell’avv. (omissis) (omissis) che ha invocato il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Napoli ha annullato l’ordinanza resa il 4 gennaio 2023 dal GIP del Tribunale di Napoli che aveva disposto il sequestro preventivo di beni nella disponibilità di (omissis) (omissis) e, (omissis) (omissis) nella veste di indagati per avere partecipato ad un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di frodi per il conseguimento di fondi pubblici mediante illecita riscossione del bonus cultura.
Il procedimento riguarda la fraudolenta conversione in denaro del cosiddetto bonus Cultura, ideata e realizzata dagli esercenti della libreria del (omissis) mediante il reclutamento di migliaia di neodiciottenni, ai quali veniva consegnata una somma in cambio del bonus Cultura simulando la vendita di libri e beni inseriti nell’elenco dei beni acquistabili per legge.
Il tribunale ha ritenuto, di contro, che nei fatti contestati non sia ravvisabile il delitto di truffa, ma l’illecito amministrativo di cui all’art. 316 ter comma due cod.pen.
2. Avverso detta ordinanza, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso per cassazione per lamentare, con unico articolato motivo, violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e vizio di motivazione, dovendo i fatti essere qualificati come truffa aggravata (ex 640-bis o, al limite ex art. 640, secondo comma cod. pen.) come ritenuto dal giudice per le indagini preliminari; rileva al riguardo che la truffa è ravvisabile anche in caso di mancanza o insufficiente diligenza nell’esecuzione di controlli o verifiche e nel caso di utilizzo di falsi documenti o in presenza di immutatio veri.
Nella vicenda in esame non ci si era limitati alla mera dichiarazione di sussistenza dei presupposti per il bonus libri e all’indebita percezione dello stesso, che avrebbe integrato l’ipotesi residuale di cui all’art. 316-bis cod. pen., ma era stata realizzata un’articolata attività truffaldina che si basava sulla simulazione di acquisti mai compiuti, sul trasferimento indebito dei bonus o dei voucher validati dall’avente diritto all’intermediario e da questi al simulato fornitore, sull’attestazione falsa da parte di questi di aver ceduto dei libri ai titolari del bonus, sull’inserimento della relativa dicitura nella piattaforma, sulla ripartizione dei proventi nelle percentuali pattuite.
Con memoria trasmessa a questo Ufficio i difensori di (omissis) e (omissis) censurano le conclusioni formulate dal Procuratore generale e insistono nei motivi di ricorso sottolineando che l’erogazione del bonus Cultura è stata effettuata in favore di soggetti che aveva diritto a beneficiarne e non sono stati simulati i dati personali degli aventi diritto, sicchè la condotta illecita nel caso in esame si è esaurita nella falsa dichiarazione di avere venduto libri senza avere effettivamente proceduto a tale attività; ciò integra la fattispecie di cui all’art. 316 ter cod.pen. in quanto la prestazione è predeterminata ed immodificabile. Inoltre la condotta integra il mero illecito amministrativo poiché è irrilevante che il beneficiario consegua più contributi spettanti a diversi soggetti, se singolarmente considerati non superano la soglia di rilevanza penale
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso della pubblica accusa è fondato.
Il Tribunale, ricordando la linea di demarcazione che la giurisprudenza di legittimità ha tracciato tra il reato di truffa e quello di indebita percezione di erogazioni ex art. 316 ter cod.pen., dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 16568/2007, rie. Carchivi, in poi, ha ritenuto dirimente a tal fine che la procedura relativa al bonus cultura non prevede alcuna immediata e preventiva attività di accertamento da parte dell’ente erogatore e ha annullato con diversi provvedimenti tutte le misure cautelari personali e reali disposte dal Giudice per le indagini preliminari affermando che nei fatti contestati non fosse ravvisabile il reato di truffa di cui all’art. 640-bis cod. pen., bensì l’illecito amministrativo di cui all’art. 316-ter, comma 2, cod. pen., con conseguente impossibilità di configurare anche la fattispecie associativa di cui all’art. 416 cod. pen., che si caratterizza per lo “scopo di commettere più delitti”.
Per una migliore comprensione delle ragioni di diritto, occorre premettere che il cd. Bonus cultura è utilizzabile per gli acquisti presso le strutture e gli esercizi accreditati, i quali sono tenuti a registrarsi su un’apposita piattaforma informatica dedicata.
Con la registrazione, i soggetti accreditati devono rilasciare la “dichiarazione che i buoni di spesa saranno accettati esclusivamente per gli acquisti consentiti ai sensi dell’articolo 1, comma 979, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, e successive modificazioni” e assumono altresì l’obbligo di accettare in pagamento i buoni spesa, secondo le modalità previste dal decreto. In seguito all’accettazione del buono, all’esercente accreditato è riconosciuto un credito di pari importo che va registrato nell’apposita area disponibile sulla piattaforma informatica dedicata, messa a disposizione da parte del Mibact; detto credito viene liquidato una volta emessa e registrata la relativa fattura elettronica sulla piattaforma di fatturazione elettronica della pubblica amministrazione.
L’erogazione materiale del contributo avviene attraverso l’acquisizione del dato costituito dal “credito” (pari all’importo oggetto della singola transazione), disponibile sulla piattaforma informatica dedicata, congiuntamente a quello “contabile”, costituito dalla fattura inserita sull’altra piattaforma per la fatturazione elettronica.
Il tribunale ha sottolineato che non è previsto nessun controllo da parte dell’ente prima dell’erogazione del contributo, essendo previsti solo controlli eventuali e successivi in quanto solo a partire dall’anno 2020 è stato istituito il cosiddetto “Registro Vendite”, disponibile online sulla piattaforma “18.app.consap.it”, nel quale l’esercente deve annotare una descrizione del bene venduto al beneficiario con relativi documenti fiscali rilasciati, riportando il dato in fattura, per ogni buono inserito.
Ne ha desunto che “manchi nelle concrete fattispecie uno degli elementi costitutivi del delitto di truffa, ossia l’induzione in errore dell’ente erogante”, richiamando a supporto le pronunce di legittimità, Sez. 6, n. 1247 del 17/11/2020, dep. 2021, Ferrara, non mass.; Sez. 6, n. 12625 del 19/02/2013, Degennaro, Rv. 254490; Sez. 6, n. 21317 del 05/04/2018, Pani, Rv. 272950; Sez. 6, n. 24890 del 20/02/2019, Giorgio, Rv. 277283).
E’ vero che che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316-ter cod. pen. (qui ritenuto, nella previsione di cui all’art. 316-ter, secondo comma, cod. pen.) si differenzia da quello di truffa aggravata ex art. 640-bis cod. pen. per la mancata inclusione, tra gli elementi costitutivi, della induzione in errore del soggetto erogatore, che invece connota la truffa.
Nel caso della indebita percezione, invece, il soggetto erogatore è chiamato esclusivamente ad operare una presa d’atto dell’esistenza della formale dichiarazione da parte del privato del possesso dei requisiti autocertificati (come ritenuto essersi verificato nella fattispecie) e non anche a compiere un’autonoma attività di accertamento (cfr., tra le tante, Sez. F, n. 44878 del 06/08/2019, Aldovisi,•Rv. 279036; Sez. 6, n. 51962 del 02/10/2018, Muggianu, Rv. 274510; Sez. 2, n. 23163 del 12/04/2016, Picariello, Rv. 266979).
Non possono tuttavia condividersi le conclusioni cui è pervenuto il tribunale e si rende necessario delimitare il perimetro applicativo della suindicata interpretazione.
Come rilevato dalla Procura generale, le pronunce richiamate dal Tribunale a sostegno della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 316-ter cod. pen. piuttosto che di quella di cui all’art. 640-bis cod. pen., non hanno risolto lo specifico quesito posto dal presente giudizio e relativo alla qualificazione giuridica della condotta in esame mentre il Collegio ritiene di dover muovere dall’insegnamento delle Sezioni Unite di cui alla citata sentenza n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi. In detta pronuncia sono stati indicati alcuni principi cardine che non sono mai stati messi in discussione dalla giurisprudenza successiva:
1.la verifica circa la distinzione tra i due reati deve avvenire caso per caso proprio in forza della problematicità astratta della questione;
2.l’applicazione dell’ 316-ter cod. pen. deve avere carattere residuale e consono alla sua natura di norma volta ad «estendere la punibilità a condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa» (fg. 7 della sentenza Carchivi), come dimostra anche il fatto che il legislatore, nel delineare la fattispecie, ha previsto una apposita clausola di riserva (“salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640-bis cod. pen.”). E tale carattere residuale, indirizzato a limitare la portata applicativa dell’art. 316-ter cod. pen. a «situazioni del tutto marginali», ne riduce l’ambito a condotte come «il silenzio antidoveroso», ovvero a quelle che non inducano «effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale».
La successiva sentenza delle Sezioni unite di questa Suprema Corte (n. 7537 del 16/12/2010, dep. 2011, Pizzuto) ha ribadito tutti i citati principi, rimarcando ancora il carattere sussidiario e residuale dell’art. 316-ter cod. pen. rispetto alla truffa (anche citando, in proposito, l’ordinanza della Corte cost. n. 95 del 2004), la valutazione in concreto e caso per caso dell’accertamento in ordine alla sussistenza degli artifici e raggiri e della induzione in errore, stabilendo che «l’art. 316-ter cod. pen. punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall’uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente» {fgg. 7 e 8 della sentenza SS.UU. Pizzuto).
Alla stregua di questi parametri valutativi, deve concludersi che le complesse attività realizzate per la conversione in denaro del Bonus cultura, simulando l’acquisto di beni e servizi consentiti dalla legge da parte di soggetti accreditati, certamente integrano la fattispecie della truffa, a nulla rilevando che i controlli siano previsti solo in forma eventuale e successiva.
Fermo quanto precede, deve inoltre osservarsi che nel processo di erogazione del contributo ricorre comunque una forma di controllo poiché può distinguersi una prima fase, relativa all’utilizzo della carta servizi, che presuppone il necessario concorso del beneficiario dell’erogazione e di colui che fornisce i servizi mediante accesso alla piattaforma e l’utilizzo del credito non tanto per l’acquisto di beni e servizi difformi rispetto a quelli previsti, ma per la mera monetizzazione dell’importo dell’erogazione, attraverso il trattenimento di una somma “per il servizio svolto” e l’accredito su di una carta prepagata del beneficiario; a questa segue una seconda fase nella quale la Consap che, opera in nome del MIBACT, acquisisce i dati dall’apposita area disponibile sulla piattaforma informatica dedicata, nonché dalla piattaforma di fatturazione elettronica della pubblica amministrazione, provvede al riscontro delle fatture e, solo successivamente al loro “controllo”, alla liquidazione delle stesse: riscontro che non può ritenersi come meramente formale, ossia privo della possibilità di valutazione sull’esistenza del credito, laddove ciò che l’ente è chiamato a fare è testualmente un “riscontro” tra dati esistenti su due piattaforme, e questo tanto più a seguito dell’ulteriore adempimento previsto a partire dal 2020 del cd. “Registro Vendite” nel quale l’esercente deve annotare la descrizione del bene venduto al beneficiario con i relativi documenti fiscali rilasciati, riportando il dato in fattura, per ogni buono inserito. Infine, si pone una terza fase, consistente nel controllo in fase di liquidazione; controllo (ulteriore) preordinato al riconoscimento del credito ed al pagamento delle somme e che, rispetto al controllo di cui all’art. 8, si pone come successivo ed eventuale, essendo preordinato alla disattivazione della Carta o alla cancellazione dall’elenco dell’esercente.
Va ulteriormente considerato che, ai fini della sussistenza del delitto di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo ritenuto che non assuma rilievo la mancanza di diligenza da parte dell’ente erogatore nell’eseguire adeguati controlli in ordine alla veridicità dei dati forniti dal richiedente il contributo pubblico, in quanto tale circostanza non esclude l’idoneità del mezzo truffaldino, risolvendosi in una mancanza di attenzione determinata dalla fiducia ottenuta proprio con gli artifici ed i raggiri (Sez. 2, n. 52316 del 27/09/2016, Riva, Rv. 268960, nella cui parte motiva, la S.C. ha aggiunto che la responsabilità penale è collegata al fatto dell’agente ed è indipendente dalla eventuale cooperazione, più o meno colposa, della vittima negligente).
Né, ritiene il collegio, l’assenza di controlli preventivi che è spesso collegata alla necessità di rendere l’attività della pubblica amministrazione più snella e rapida, può incidere sulla natura in sé fraudolenta delle attività poste in essere, dirette a trarre in inganno, esponendo un’apparenza che non corrisponde alla realtà, nel caso in esame la fruizione da parte dei beneficiari dei beni e servizi autorizzati da parte di esercenti accreditati.
In forza di queste argomentazioni, deve concludersi che il Tribunale è incorso nella violazione di legge denunciata, avendo omesso di prendere in considerazione l’insieme complessivo e articolato delle attività fraudolente poste in essere dagli indagati per perseguire il loro obbiettivo illecito, attraverso la creazione di una vera e propria associazione per delinquere finalizzata al compimento di una rilevante serie di condotte decettive preordinate alla fruizione abusiva del credito connesso al bonus (tra cui, la ricerca e l’utilizzo dell’esercizio commerciale idoneo per l’accreditamento, usata come mero schermo; la ricerca dei giovani titolari delle carte, mediante l’accesso a banche dati, il loro contatto e l’accordo per la monetizzazione dei buoni; le singole operazioni di accesso alla piattaforma, insieme con il titolare della carta, con la falsa prospettazione dell’effettuazione di una operazione consentita; infine la richiesta del rimborso con l’invio delle fatture e, nel 2020 anche la dichiarazione del bene specifico fornito). In sostanza si è realizzato un processo articolato e complesso orientato ab origine a simulare un’apparenza e a indurre in errore la pubblica amministrazione al fine di fruire indebitamente del bonus in esame.
La ricostruzione formalistica adottata dal provvedimento impugnato che si limita a valutare l’ultimo atto di questa articolata progressione e comporta un’ingiustificata dilatazione dell’ambito applicativo del reato di cui all’art. 316-ter cod. pen. – non rispondente alla natura della fattispecie ed ai principi di diritto che si sono analizzati – a casi nei quali, come quello in esame, è incontestata la commissione di una rilevante attività truffaldina, ricca di artifici e raggiri posti in essere dagli autori del reato ed idonea ad indurre in errore l’ente erogatore attraverso la falsa dichiarazione, che si pone solo come uno dei tanti segmenti della azione delittuosa, di cui il giudice del rinvio dovrà tenere conto per i successivi provvedimenti da adottare sulla domanda cautelare.
2. Si impone l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Napoli – sezione per il riesame delle misure cautelari reali – per nuovo esame.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Napoli competente ai sensi dell’art. 324 comma 5 cod. proc.pen.
Roma 8 giugno 2023.
Depositato in Cancelleria, Seconda Sezione Penale, il 14 settembre 2023.