L’imputato era stato vittima di aggressione armata riportando ferite da taglio al viso. Questi rifiuta alla polizia di dare indicazioni per identificare il responsabile.

(Corte di Cassazione penale, sez. VI, sentenza 7.03.2016, n. 9415)

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.A., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 17/04/2014 della Corte di appello di Palermo;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Anna Criscuolo.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Di Leo Giovanni, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 17/04/2014 la Corte di Appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa in data 08/10/2012 dal Tribunale di Trapani in composizione monocratica, nei confronti di S. A., ritenuto colpevole del reato di favoreggiamento personale e per l’effetto condannato, applicato l’aumento per la recidiva reiterata infraquinquennale, alla pena di mesi cinque di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali.

In sede di merito era stato accertato che il (OMISSIS) Cassazione penale, sez. VI, 16/02/2016, (ud. 16/02/2016, dep.07/03/2016), n. 9415 l’imputato era stato vittima di un’aggressione armata ed aveva riportato ferite da taglio al volto, giudicate guaribili in giorni 10; il personale di polizia, recatosi presso il pronto soccorso dell’ospedale di (OMISSIS), aveva chiesto al S. di fornire indicazioni sul luogo, sull’autore e sulle ragioni del ferimento, ma questi aveva rifiutato di rispondere alle domande sia nell’immediatezza che presso il commissariato, dichiarando a verbale che non intendeva al momento fornire alcuna notizia.

In sede di appello il difensore dell’imputato ne aveva chiesto l’assoluzione per insussistenza dell’elemento oggettivo del reato, non essendovi prova che l’imputato conoscesse o avesse visto il o i suoi feritori; in subordine, aveva chiesto applicarsi l’esimente prevista dall’art. 384 c.p. ed il riconoscimento delle attenuanti generiche equivalenti alla recidiva contestata.

I Giudici dell’appello avevano respinto la prospettazione difensiva, ritenendo integrato il reato dalla condotta omissiva dell’imputato, che, non solo si era rifiutato di rivelare l’identità degli aggressori, ma persino di indicare il luogo in cui l’aggressione era avvenuta ed il motivo della stessa, così impedendo di fatto alla polizia giudiziaria di avviare le indagini in ordine ad un fatto di indubbia gravità.

Esclusa l’applicabilità dell’esimente invocata, avevano negato il riconoscimento delle attenuanti generiche, in ragione dei numerosi e gravi precedenti e del comportamento processuale dell’imputato.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, che ne chiede l’annullamento per violazione degli artt. 378 e 62 bis c.p. in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. d).

L’imputato deduce l’impossibilità di configurare il reato di favoreggiamento in presenza di una condotta omissiva, non essendo stato dimostrato che egli conoscesse o avesse potuto scorgere le sembianze dei suoi aggressori, cosicchè non poteva essergli contestata l’omessa collaborazione con le forze dell’ordine.

Deduce l’insussistenza dell’obbligo giuridico di collaborare nella ricerca dell’autore del reato o di rendere dichiarazioni agli inquirenti, che non avevano ancora avviato alcuna indagine.

Censura il diniego delle attenuanti generiche in ragione dei precedenti penali e del comportamento processuale, non essendo i primi ostativi al riconoscimento delle attenuanti nè obbligatoria la confessione, in quanto il diritto al silenzio è espressione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito all’imputato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

Il ricorrente ripropone i motivi già proposti in appello, limitandosi a sostenere l’erroneità della decisione impugnata, in quanto a suo avviso il reato di favoreggiamento personale avrebbe esclusivamente natura commissiva.

Ribadito il principio secondo cui è inammissibile per genericità il ricorso i cui motivi si limitino ad enunciare ragioni ed argomenti già illustrati in atti o memorie presentate al giudice a quo, in modo disancorato dalla motivazione del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, Rv. 244181), senza porre specificamente in relazione gli aspetti critici ed i passaggi contestati con le contrarie deduzioni difensive di volta in volta formulate, è ormai pacifico che il reato di favoreggiamento personale può essere realizzato anche attraverso una condotta omissiva e quindi, anche rispondendo in maniera consapevolmente reticente alle domande poste dalla polizia giudiziaria (v. Sez. 6, n. 37757 del 07/10/2010, Menegazzo, Rv. 248603) o rifiutando di rendere dichiarazioni e di fornire indicazioni alla polizia giudiziaria, in violazione dell’obbligo di rispondere secondo verità, desumibile dall’art. 351 c.p.p., art. 362 c.p.p., comma 1 e art. 198 c.p.p. (v. Sez. 6, n. 31436 del 18/05/2004, Tuberoso, Rv. 229270 e Sez. 6, n. 30349/13, Rv. 256909).

Precisato, inoltre, che il reato di favoreggiamento personale è reato di pericolo, la condotta deve consistere in un’attività che frapponga un ostacolo, anche se limitato o temporaneo, allo svolgimento delle indagini, che provochi cioè una negativa alterazione del contesto fattuale all’interno del quale le investigazioni e le ricerche erano in corso o si sarebbero potute svolgere (Sez. 6, n. 709 del 24/10/2003, dep. 15/01/2004, Rv. 228257; Sez. 6, n. 9989 del 05/02/2015, Rv. 262799). Ne discende che è irrilevante la circostanza che, nel caso di specie, le indagini non fossero ancora iniziate.

Il reato, dunque, può essere integrato da qualunque condotta, positiva o negativa, diretta o indiretta (Sez. 6, n. 2936 del 01/12/1999, dep. 09/03/2000, Rv. 217108), mentre non è necessaria la dimostrazione dell’effettivo vantaggio conseguito dal soggetto favorito, occorrendo solo la prova della oggettiva idoneità della condotta favoreggiatrice ad intralciare il corso della giustizia (Sez. 6, n. 3523 del 07/11/2011, dep. 27/01/2012, Rv. 251649).

A tali principi si è correttamente attenuta la Corte di appello, che ha valorizzato il netto rifiuto del S. di fornire qualsiasi indicazione, persino sul luogo dell’aggressione, in modo da impedire ogni accertamento sul grave episodio.

Parimenti esente da vizi e congruamente motivato è il diniego delle attenuanti generiche, argomentato in base ai precedenti dell’imputato ed all’intensità del dolo.

Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si stima equo determinare in Euro 1.500,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 16 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2016