L’ispettore del lavoro che da del testa di cxxx al titolare, in sua assenza, risponde di diffamazione (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 7 maggio 2020, n. 14005)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente –

Dott. MICHELI Paolo – Consigliere –

Dott. BELMONTE Maria Teresa – Rel. Consigliere –

Dott. ROMANO Michele – Consigliere –

Dott. MOROSINI Elisabetta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MOLINARO GIUSEPPE nato a LAMEZIA TERME il 07/03/1964;

avverso la sentenza del 11/12/2018 del TRIBUNALE di ASTI;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa MARIA TERESA BELMONTE;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott.ssa OLGA MIGNOLO conclude per il rigetto del ricorso;

udito il difensore.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata il Tribunale di Asti confermava la decisione del Giudice di Pace di quella stessa città che aveva riconosciuto Giuseppe Molinaro colpevole del reato diffamazione – perché, quale funzionario del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Asti, nel corso di un colloquio informativo con un lavoratore, offendeva il decoro e la reputazione del datore di lavoro al quale si riferiva affermando che fosse una “testa di cazzo”, alla presenza di altre due persone, condannandolo alla pena di giustizia nonché al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato, con il ministero del difensore abilitato, il quale svolge due motivi.

2.1. Deduce, in primo luogo, violazione di legge con riguardo all’acquisizione del C.D. contenente la registrazione della conversazione avvenuta presso gli uffici dell’Ispettorato del Lavoro tra l’imputato, nella sua qualità, e il lavoratore dipendente della ditta del ricorrente, nel corso della quale fu pronunciata la frase incriminata.

Deduce che l’attività di captazione è avvenuta nel corso del compimento di attività riservata di polizia giudiziaria, assoggettata al segreto investigativo. E che, trattandosi di captazione avvenuta in un luogo riconducibile a quelli indicati dall’art. 614 c.p., rileva una attività integrante il reato di cui all’art. 615 bis« cod. pen; in ogni caso, essendo stata prodotta la copia di una registrazione effettuata con un telefono cellulare, si tratta di prova illegittimamente acquisita, in assenza di un accertamento peritale.

2.2. Ulteriore motivo di doglianza riguarda la violazione dell’art. 595 cod. pen..

Ci si duole dell’assenza del contenuto diffamatorio nelle parole incriminate, espressive solo di un giudizio critico, pur formulato con parole colorite, tuttavia, di uso comune, con cui si tendeva a stigmatizzate il comportamento datoriale di strumentalizzazione del dipendente; mancherebbe anche l’elemento soggettivo; d’altro canto, non v’è prova della presenza di più persone al momento in cui furono pronunciate le parole incriminate, emergendo, invece, dalla registrazione, l’assenza di terzi, oltre al dichiarante e al lavoratore che effettuò la registrazione.

3. Il 18 aprile 2019 la parte civile ha depositato memoria con la quale ha confutato, alla luce di richiamati orientamenti giurisprudenziali, la tesi del ricorrente sia con riguardo alla dedotta violazione di legge nella acquisizione della registrazione fonica sia in ordine alla riconducibilità del atto nello schema della diffamazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non è fondato.

2. Con riguardo al primo motivo, il reato di cui all’art. 615 bis cod. pen. punisce chiunque, mediante l’utilizzo di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati dall’art. 614 cod. pen., ovvero che si svolgano nell’abitazione altrui o in altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di esso.

Nel pronunciarsi con riguardo alla configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., le Sezioni Unite hanno affermato che rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D’Amico, Rv. 270076).

Sulla scia di tale direttrice si è ritenuto luogo di privata dimora la toilette di uno studio professionale, trattandosi di locale il cui accesso è riservato al titolare ed ai dipendenti dello studio ed è consentito a clienti e fornitori solo in presenza di positiva volontà del personale, (Sez. 5, n. 4669 del 07/11/2017 Rv. 272279), nonché lo spogliatoio di un circolo sportivo (Rv 262815), o le docce di una piscina comunale (Sez. 5, n. 28174 del 14/05/2015,Rv. 265310), o, ancora, l’ambulatorio di un ospedale, essendo il suo uso riservato al personale e ai singoli pazienti che vi sono ammessi ed essendo irrilevante la circostanza che ad usare il locale sia anche l’autore dell’indebita interferenza in quanto il reato di cui all’art. 615 bis mira a tutelare la riservatezza domiciliare della persona offesa (Sez. 3, n. 47123 del 24/05/2018, Rv. 274419).

La nozione in questione include, dunque, ogni luogo in cui la persona si trattenga per compiere anche in modo transitorio e contingente atti della vita privata, dalla quale vanno escluse le zone che non assolvono alla funzione di consentire l’esplicazione della vita privata al riparo di sguardi indiscreti, essendo destinati all’uso di un numero indeterminato di soggetti (Sez. 5, n. 34151 del 30/05/2017 Rv. 270679).

Così è stata esclusa tale connotazione, ad esempio, con riguardo alle scale condominiali e ai relativi pianerottoli, o alle riprese dell’area condominiale destinata a parcheggio e del relativo ingresso, trattandosi di luoghi destinati all’uso di un numero indeterminato di persone e, pertanto, esclusi dalla tutela di cui all’art. 615 bis cod. pen., la quale concerne, sia che si tratti di “domicilio”, di “privata dimora” o “appartenenze di essi”, una particolare relazione del soggetto con l’ambiente in cui egli vive la sua vita privata, in modo da sottrarla ad ingerenze esterne indipendentemente dalla sua presenza (Sez. 5, n. 44701 del 29/10/2008, Rv. 242588).

Poiché ciò che rileva ai fini della configurabilità del reato è la violazione della riservatezza domiciliare della persona offesa, indipendentemente dalla disponibilità di quel domicilio anche da parte dell’autore dell’indebita intercettazione, in applicazione del principio, sono considerate inutilizzabili, in quanto acquisite in violazione della norma dell’art. 615 bis cod. pen., le prove ottenute attraverso una interferenza illecita nella vita privata (Sez. 5, n. 35681 del 30/05/2014, Rv. 261445); anche se effettuate dal coniuge in danno dell’altro, nella comune abitazione (Sez. 5, n. 39827 del 08/11/2006, Rv. 234960).

2.1. Facendo corretta applicazione di tali principi, deve escludersi che l’Ufficio del Nucleo Ispettorato del Lavoro, in cui è avvenuto il colloquio nel corso del quale l’imputato ha pronunciato le parole incriminate, possa costituire un luogo di privata di dimora, poiché in esso si compiono abitualmente attività di rilievo pubblico; nella specie, il colloquio informativo con un lavoratore costituiva diretta esplicazione della funzione pubblicistica svolta proprio dal ricorrente, il quale non aveva neppure la disponibilità esclusiva dell’ufficio, condividendolo con i suoi colleghi che, infatti, erano presenti in quell’occasione.

2.2. Correttamente, il giudice gravato ha escluso che si sia trattato di una captazione illecita, anche richiamando l’orientamento secondo cui la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi, non è riconducibile, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, poiché, invece, costituisce una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, (Sez. 6, n. 31342 del 16/03/2011, Rv. 250534; Sez. 2, n. 50986 del 06/10/2016 ,Rv. 268730) della quale l’autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo, secondo la disposizione dell’art. 234 cod. proc. pen., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa (Sez. U. n. 36747 del 28/05/2003, Torcasio e altro, Rv. 225465), nel caso di specie non ricorrenti.

Nella sentenza impugnata si rinviene, peraltro, il richiamo alla pronuncia di questa Sezione che ha affermato che è legittimamente acquisito ed utilizzato, ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, un filmato effettuato con un telefonino, in quanto l’art. 234 cod. proc. pen. consente l’acquisizione non solo di scritti ma anche di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo ed, al riguardo, è del tutto irrilevante che le registrazioni siano effettuate in conformità alla disciplina della privacy, la quale non costituisce sbarramento all’esercizio dell’azione penale. (Sez. 5, n. 2304 del 28/11/2014 dep. 2015 Rv. 262686).

Deve, quindi, escludersi anche che una tale registrazione costituisca intercettazione “ambientale” soggetta alla disciplina degli artt. 266 e ss. cod. proc. pen., avendo, piuttosto, la specifica finalità di precostituire una prova da far valere in giudizio (Sez. 2, n. 3851 del 21/10/2016 dep. 2017 Rv. 269089).

2.4. Del pari infondata è la questione della acquisizione di una copia, anziché dell’originale, della registrazione del colloquio, effettuata mediante il telefono cellulare, sia perchè tale violazione di legge (art. 234 cod. proc. pen.) non è stata dedotta con l’appello, sia perché, nel merito, la deduzione è infondata in quanto, in tema di prova documentale, la copia fotostatica di un documento, per il principio di libertà della prova, quando sia idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti, ha valore probatorio anche al di fuori del caso di impossibilità di recupero dell’originale (Sez. 2, n. 52017 del 21/11/2014, Rv. 261627), pur se essa sia priva di certificazione ufficiale di conformità e sia stata disconosciuta dall’imputato, non essendo stata neppure dedotta una manipolazione (Sez. 6 n. 15838 del 20/12/2018 (dep. 2019) Rv. 275541).

Per l’efficacia probatoria delle copie fotostatiche, infatti, non è richiesta la certificazione ufficiale di conformità, vigendo, al contrario, nel nostro sistema processuale il principio di libertà della prova sia per i fatti-reato che per gli atti del processo, come può evincersi dall’art. 234 cod. proc. pen. e dalla stessa direttiva n. 1 della legge delega per il nuovo codice di rito, che impone la massima semplificazione processuale con eliminazione di ogni atto non essenziale. (Sez. 4, n. 18454 del 26/02/2008 Rv. 240159).

3. E’ infondato anche il secondo motivo.

3.1. Quanto alla questione della assenza del presupposto oggettivo del reato di diffamazione, costituito dalla comunicazione con più persone, dalla sentenza di appello (pag. 9) si evince che la espressione incriminata (“testa di cazzo”) venne pronunciata dal ricorrente, alla presenza di due funzionari dell’ Inail e dell’INPS.

La deduzione è, pertanto, manifestamente infondata, anche perché sviluppa censure sul piano del fatto e tese a sovrapporre un’interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai decidenti di merito, più che a rilevare un vizio rientrante nella rosa di quelli delineati nell’art. 606 cod. proc. pen..

3.2. In ordine al profilo della offensività della condotta – contestato sul rilievo che si sia trattato di un escamotage per vincere la resistenza del dichiarante ed evidenziare la spregiudicatezza del comportamento datoriale, attraverso l’utilizzo di espressioni colorite e di uso comune – la sentenza impugnata ha considerato che, in assenza dei parametri della verità del fatto, della continenza delle espressioni, e della correttezza, le parole pronunciate dal ricorrente erano idonei a ledere la reputazione della persona offesa.

La valutazione è condivisa dal Collegio in quanto coerente con consolidati principi in tema di diritto di critica, risolvendosi la prospettazione del ricorrente in una mera petizione di principio, non confortata da alcun elemento di fatto in ordine alla tesi del comportamento datoriale scorretto che avrebbe legittimato la propalazione critica del ricorrente.

3.3. Occorre, invero, considerare che l’esternazione è avvenuta all’interno di un ufficio pubblico, mentre si svolgeva un attività investigativa, e che le parole incriminate sono state pronunciate da un ufficiale di polizia.

E’ vero che si tratta di parole che possono considerarsi acquisite nel linguaggio comune – ex sè significative di un impoverimento del linguaggio e dell’educazione – ma, è altrettanto accreditato l’orientamento secondo cui, ai fini della offensività della condotta, occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell’offeso e dell’offensore nonché al contesto nel quale detta espressione sia pronunciata (Sez. 5″, n. 32907 del 30/06/2011, Di Coste, Rv. 250941).

In tema di tutela penale dell’onore, cioè, la valenza offensiva di una determinata espressione, per essere esclusa o comunque scriminata con il riconoscimento di una causa di non punibilità, deve essere riferita al contesto nel quale è stata pronunciata (Sez. 5, n. 50969 del 16/09/2014 Rv. 261310 ; conf. Sez. 5, n. 17672 del 08/01/2010 Rv. 247218).

Nel contempo è necessario considerare che l’uso di un linguaggio meno corretto, più aggressivo e disinvolto di quello in uso in precedenza è accettato o sopportato dalla maggioranza dei cittadini determinando un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale (Sez. 5″, n. 39454 del 03/06/2005, Braconi, Rv. 232339; Sez. 5^, n. 21264 del 19/02/2010, Saroli, Rv. 247473; Sez. 5″, n. 32907 del 30/06/2011, Di Coste, Rv. 250941; Sez. 5″, n. 15710 del 24.1.2014).

Compito del giudice è, dunque, di verificare se il negativo giudizio di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell’ambito di un contesto critico e funzionale all’argomentazione, così da escludere la invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario (Sez. 5 n. 31669 del 14/04/2015, Rv. 264442), con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti (Sez. 5 n. 15060 del 23/02/2011, Rv. 250174).

In effetti, il significato delle parole – trovando una legittimazione di tipo convenzionale – dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto comunicativo in cui esse si inseriscono, ed è innegabile che l’evoluzione del costume, nonché la progressiva semplificazione del lessico adoperato dai consociati nei rapporti interpersonali (Sez. 5, n. 51093 del 19/09/2014 Rv. 261421) ha portato, per alcune parole o espressioni, a un diffuso utilizzo secondo significati formalmente impropri, anche nell’ambito dei settori della società più evoluti culturalmente (Sez. 5, n. 19223 del 14/12/2012 – dep. 03/05/2013, Fracasso, Rv. 256240; Sez. 5, n. 50969 del 16/09/2014, Rv. 261310).

Tale china culturale – anche enfatizzata particolarmente dallo strumento televisivo, spesso veicolo di diffusione di pratiche linguistiche meno ortodosse, inclini alla banalizzazione del linguaggio – ha determinato un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale e una innegabile corruzione del significato letterale, rectius, tradizionale riconosciuto alle parole, o comunque ad alcune di esse, legittimando, nell’attualità, accenti semantici, un tempo certamente giudicati inappropriati, oggi, invece, ammessi in ragione di un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale che ne ha attenuato fortemente la portata offensiva, con riferimento alla sensibilità dell’uomo medio (Sez. 5^, n. 19223 del 14/12/2012 dep. 03/05/2013, Fracasso, Rv. 256240).

3.4. Ebbene, la contestualizzazione della condotta impone di considerare che le parole incriminate sono state pronunciate nel corso dell’espletamento di un accertamento amministrativo, in un ambito istituzionale che rivelava posizioni non paritarie tra il propalante e il destinatario dell’esternazione, che si ricordi, era un lavoratore, dipendente dell’imprenditore in siffatto modo apostrofato e persona direttamente assoggettata all’accertamento ispettivo.

Tale peculiare contesto fattuale non può essere considerato neutro ai fini della lesività della condotta, poiché l’avere pronunciato le richiamate parole (sottolineando anche che il destinatario era un ex poliziotto) nell’esplicazione del ruolo istituzionale conferisce all’esternazione una non ignorabile connotazione spregiativa, non giustificata dalla situazione di fatto, e, pertanto, in quanto non dotate di continenza, esse rendono la condotta penalmente rilevante.

La situazione concreta nella quale l’esternazione si è manifestata può essere, sostanzialmente, assimilabile a quella tipica di contesti connotati da rapporti di gerarchia, in relazione al quale, nella giurisprudenza di questa Corte, si è affermato che, affinché una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell’insulto a quest’ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale trasgressione realizzata.

Se invece le frasi usate, sia pure attraverso la censura di un comportamento, integrino disprezzo per l’autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, non può sostenersi che esse, in quanto dirette alla condotta e non al soggetto, non hanno potenzialità ingiuriosa (Sez. 1, n. 185 del 23/10/1997 (dep. 1998) Rv. 209439, nonché Sez. 1, n. 12997 del 10/02/2009, Rv. 243545, in un caso di ingiuria a un inferiore, reato previsto dall’art. 196 cod. pen. mil., in cui si è fatto riferimento alla posizione di supremazia gerarchica dell’autore rispetto alla persona offesa, che non consente di considerare prive di contenuto lesivo espressioni volgari, in quanto esse, se rivolte a un sottoposto, in violazione delle regole di disciplina e dei principi che devono ispirarle in forza dell’art. 53, comma terzo, Cost., riacquistano appieno il loro specifico significato spregiativo, penalmente rilevante).

3.5. Giova, qui, ricordare che il bene giuridico tutelato dall’art. 595 cod.pen. è l’onore di ciascuna persona, nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (la reputazione, intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera), e l’evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino (Sez. 5 n. 5654 del 19/10/2012; Sez. 5 n. 34178 del 10/02/2015, Rv. 264982).

Si tratta di evento, non fisico, ma, psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte di terzi, dell’ espressione offensiva (Sez. 5 n. 47175 del 04/07/2013, Rv. 257704).

3.6. Alla luce di tali criteri ermeneutici, osserva il Collegio che, nel descritto contesto, non solo non vi è alcuna giustificazione per un siffatto eloquio volgare, piuttosto censurabile sul piano deontologico in ragione della funzione svolta dal ricorrente, ma neppure vi è spazio per considerare l’espressione utilizzata per qualificare la persona offesa priva di contenuto lesivo, in quanto non può ravvisarsi il requisito della continenza espressiva.

Al contrario, le parole pronunciate dal ricorrente risultano, oggettivamente, pregiudizievoli della reputazione della persona offesa, perché oggettivamente dirette a screditarla sia professionalmente che nella sua vita di relazione sociale.

4. Al rigetto del ricorso segue, ex lege, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla costituita parte civile nel giudizio di legittimità, da liquidarsi come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in Euro 1800 oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.