Maglietta con la scritta “Auschwitzland”, scatta il reato di odio razziale (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 12 dicembre 2023, n. 49346).

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

PRIMA SEZIONE PENALE

composta da

Dott. MONICA BONI -Presidente-

Dott. PAOLA MASI -Consigliere-

Dott. RAFFAELLO MAGI -Consigliere-

Dott. DANIELE CAPPUCCIO -Consigliere-

Dott. CARMINE RUSSO -Relatore-

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI FORLI’

nel procedimento a carico di:

(omissis) (omissis) nata a (omissis) il xx/xx/19xx;

con parti civili:

(omissis) (omissis) (omissis);

avverso la sentenza del 12/01/2023 del TRIBUNALE di FORLI’;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. CARMINE RUSSO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa GIUSEPPINA CASELLA, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

udito il difensore delie parti civili (omissis) e (omissis) (omissis) avv. (omissis). che, per ii tramite del sostituto processuale, ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

uditi i difensori dell’imputata, avv. (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis), che hanno chiesto l’inammissibilità del ricorso.

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 12 gennaio 2023 il Tribunale di Forlì, in rito immediate derivante da opposizione a decreto penale di condanna, ha assolto (omissis) (omissis) dal reato dell’art. 2 I. 25 giugno 1993, n. 205, perché nel corso della manifestazione per la commemorazione del 96° anniversario della marcia su Roma, ostentava simboli propri delle organizzazioni di cui all’art. 3 I. 13 ottobre 1975, 654, in quanta indossava una maglietta con una scritta in cui il nome e l’immagine di (omissis) erano stati modificati in quelli del campo di concentramento di Auschwitz. Il fatto é stato commesso a (omissis) il 28 ottobre 2018.

II giudice ha assolto l’imputata in quanta ha rilevato che nulla e stato riferito in giudizio sulla portata distintiva del segno grafico esibito sulla maglietta, sulla genesi della scritta “omissis)” che la stessa recava sulla maglietta, sull’uso che ne viene fatto e sulla sua diffusione; sarebbe assente, inoltre, la prova della riferibilità del segno grafico ad una organizzazione attualmente esistente che propugni idee fondate sull’odio razziale.

2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso diretto per cassazione ii pubblico ministero, con unico motivo di seguito descritto nei limiti strettamente necessari ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen., in cui deduce erronea applicazione delta legge penale, in quanta ii campo di sterminio, ed in particolare l’immagine del suo ingresso che era riportata sulla maglietta, é diventato simbolo indiscusso dei gruppi nazifascisti che fondano la propria ideologia dell’odio razziale e sull’apologia della Shoah; non sarebbe corretto sostenere, pertanto, che sia un segno grafico privo di portata distintiva, per cui l’associazione dello stesso con il logo della (omissis) avrebbe avuto un evidente carattere denigratorio, e la valenza simbolica di tale associazione deriverebbe anche dal contesto in cui la maglietta e stata indossata.

3. La difesa dell’imputata ha chiesto la discussione orale.

Con requisitoria orale il Procuratore generale della Cassazione, dr.ssa Giuseppina Casella, ha concluso per il rigetto del ricorso.

II difensore delle parti civili (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis) avv. (omissis) (omissis), per il tramite del sostituto processuale, ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

I difensori dell’imputata, avv. (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis) hanno chiesto l’inammissibilità del ricorso.

Considerato in diritto

1. Il ricorso é fondato, sia pure nei limiti di quanto indicato in motivazione.

Il reato contestato all’imputata, previsto dall’ art. 2 I. n. 205 del 1993, punisce “chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654”.

Nel caso in esame, all’imputata era contestato in particolare di aver ostentato un emblema, o simbolo, proprio o usuale di una organizzazione di cui all’art. 3 I. n. 654 del 1975, ovvero di una “organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

II giudice del merito ha ritenuto che la scritta (omissis) con l’immagine stilizzata dei cancelli del campo di concentramento non sia noto per essere un simbolo di una “organizzazione, associazione, movimento o Gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

II pubblico ministero ricorrente contesta questa conclusione e sostiene che il campo di concentramento di Auschwitz sia divenuto un simbolo indiscusso dei gruppi nazifascisti che fondano la propria ideologia sull’odio raziale e sull’apologia della Shoah, ma si tratta di una affermazione piuttosto generica (quale associazione, o movimento, in particolare?) che ii pubblico ministero introduce nel processo senza allegare a sostegno alcun atto da cui si dovrebbe ricavare la illogicità, sotto questo profilo, della motivazione della sentenza impugnata, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso.

In realtà, il campo di concentramento di Auschwitz é divenuto negli anni, proprio per l’enormità dell’evento che vi é accaduto, piuttosto un simbolo delle persone o dei gruppi che rifiutano la violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e tende, invece, ad essere rimosso nella comunicazione pubblica dalle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi cui si riferisce il pubblico ministero nel ricorso.

La stessa tesi sostenuta dalla difesa dell’imputata nel corso dell’udienza di legittimità (ovvero, che l’uso della maglietta incriminata avrebbe avuto lo scopo di criticare lo sfruttamento commerciale del dolore causato dal campo di concentramento) mostra il fastidio, di chi aderisce alla posizione politica in cui si riconosce l’imputata, per l’utilizzo ripetuto del nome e della immagine del campo di concentramento nella comunicazione pubblica, fastidio di chi preferirebbe calasse l’oblio su un luogo, ed un evento, che e quindi lontano dall’essere un simbolo di tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi.

In definitiva, la contestazione formulata dal pubblico ministero a (omissis) (omissis) di aver ostentato un simbolo di una organizzazione avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, era fondamentalmente non corretta.

Ciò nonostante, la sentenza deve comunque essere annullata, perché, in realtà, a fronte di una contestazione di questo tipo, il giudice del merito non avrebbe dovuto limitarsi ad assolvere l’imputata, ma avrebbe dovuto verificare se il fatto non poteva essere sussunto in altra fattispecie penale non contestata ed, all’esito di tale giudizio, pronunciare ordinanza ex art. 521, comma 2, cod. proc. pen. di trasmissione degli atti al pubblico ministero per aver accertato che il fatto é diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio.

Infatti, la scritta ed il logo di (omissis) modificato in quello 8omissis), e con il profilo del castello delle favole modificato in quello dei cancelli del campo di concentramento, crea una associazione di immagini e concetti che e denigratoria dell’evento storico conosciuto come Shoah.

Un comportamento di questo tipo potrebbe astrattamente rientrare in quello dell’art. 604-bis, ultimo comma, cod. pen. che, nel testo modificato dall’ art. 2, comma 1, lett. i), d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21, già vigente al momento di commissione del fatto per cui si procede, punisce, in presenza di un concreto pericolo di diffusione, la cui sussistenza dovrà essere accertata dal giudice del merito, chi propaganda idee fondate “sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contra l’umanità e dei crimini di guerra”.

2. La diversità del fatto accertato in giudizio rispetto a quello contestato può essere rilevata d’ufficio dal  giudice dell’impugnazione (Sez. 6, Sentenza n. 43336 del 09/09/2016,  PG  e  Pc  in  proc.  Stizanin, Rv. 268441).

3. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio (Sez. 4, Sentenza n. 18135 Giel 09/02/2010, PG in proc C., Rv. 247534) e gli atti trasmessi al pubblico ministero per l’eventuale esercizio dell’azione penale per il reato dell’art. 604-bis, ultimo comma, cod. pen(1).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto é diverso da come contestato e dispone  trasmettersi gli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Forlì per l’eventuale esercizio dell’azione penale in ordine al fatto di reato diverso di cui all’art. 604-bis, ultimo comma, codice penale.

Così deciso in Roma, il 21 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria, oggi 12 dicembre 2023.

SENTENZA

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art. 604 bis Codice Penale (1)

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito:

a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni.

Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale.