Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli.

L’oggetto del reato

“Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo 571 c.p., maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte la reclusione da dodici a venti anni.” ( art. 572 c.p.).

L’inserimento della norma nel Capo IV “Dei delitti contro l’assistenza familiare” è stato soggetto a numerose critiche.

Da un lato vi è chi ritiene corretta la collocazione operata da parte del legislatore, dall’altro chi ha ritenuto che l’inserimento nel Capo III del Titolo XI non risponda a corretti criteri di collocazione scientifica.

Ed infatti, in primo luogo deve rilevarsi che la stessa rubrica dell’articolo “maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli” estende il campo d’azione della norma ben al di là dei limiti familiari, come ben emerge dal testo normativo che indica tra i soggetti attivi del reato, e tra quelli passivi, categorie che non hanno alcun rapporto di parentela.

Ma, ancora, deve osservarsi che l’ipotesi in esame prevede condotte che ledono l’integrità fisica e morale della persona, quindi meglio la si sarebbe collocata tra i reati contro la persona piuttosto che tra quelli contro l’assistenza familiare.

La questione non è nuova: già sotto la vigenza del codice del 1889 la dottrina si era posta tale problema.

Il legislatore dell’epoca, recependo le osservazioni sorte sotto la vigenza del codice postunitario, sia in ordine alla necessità di tutela dei soggetti deboli in quanto tali, sia in relazione al particolare disvalore che azioni già previste come reato assumevano se compiute in contesti familiari, collocò il reato tra quelli contro la persona, ampliando la categoria dei soggetti attivi e passivi dai soli coniugi (così era previsto nei codici previgenti) ai componenti della famiglia.

Si è osservato che, anche se non mancò chi continuò a vedere nella famiglia l’oggetto della tutela, la dottrina più autorevole e prevalente, avallando la classificazione compiuta dal legislatore, ritenne che l’oggetto del reato non dovesse essere individuato nella famiglia in sé considerata, quanto nell’incolumità fisica e morale dell’individuo (1).

Nel 1930 con il codice Rocco, mentre si allarga ulteriormente il novero dei soggetti attivi e passivi del reato, abbandonando quasi completamente i limiti familiari, si ricolloca il reato tra quelli contro la famiglia.

A giustificazione di tale collocazione si sostenne, nella relazione al progetto definitivo del codice penale, che s’intendeva sottolineare la tutela che l’ordinamento giuridico accordava alla famiglia come società coniugale e parentale.

La polemica si è, quindi, riproposta a partire dal come s’interpreta l’oggetto della tutela della norma.

Una parte della dottrina ha ritenuto corretta la classificazione operata dal codice del 1930 sostenendo che oggetto della tutela dell’art. 572 c.p. è sicuramente l’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da tutti quegli eccessi che possono turbare o incrinare la sua corretta vita.

Accanto alla famiglia vi è, poi, la tutela dell’incolumità e del decoro della persona, ma nell’art. 572 c.p. tali elementi sono considerati solo in via subordinata e riflessa.

Si è affermato, ancora, da parte degli assertori della esatta collocazione della norma, che il danno ricevuto dal soggetto passivo del reato di maltrattamenti è tale in quanto viene colpita l’essenza del nucleo familiare nei suoi compiti di assistenza e sostegno dell’individuo.

L’intero capo, quindi, considera tutti i comportamenti che determinano danni ai membri della famiglia in quanto sono causa di gravi disfunzioni della stessa.

Vi è, inoltre, da considerare che esiste una logica di crescente offensività fra il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare ( art. 570, comma 1, c.p.) e quello di maltrattamenti nei suoi vari titoli: il primo consiste, infatti, nel semplice non adempimento degli obblighi di assistenza, mentre il secondo va oltre questa situazione di pura carenza, poiché il suo autore non si limita a non dare l’assistenza di cui è obbligato, ma, di più, sottopone il titolare del diritto all’assistenza a maltrattamenti che lo mortificano nel fisico e nel morale, con effetti negativi, dunque, ancora più gravi (2).

Coloro che, invece, ritengono non corretta la collocazione della norma sostengono non solo che la stessa fa riferimento a soggetti che non hanno tra loro alcun vincolo familiare, ma che difende in particolare l’integrità fisica e morale del soggetto passivo in quanto tale, e non in quanto parte di un più ampio contesto.

Le espressioni richiamate “persona della famiglia, sottoposto all’autorità, a lui affidato …” vogliono significare che il reato si consuma tra soggetti che sono legati da un particolare rapporto di supremazia/soggezione.

Si è osservato che al legislatore non interessa la degenerazione del rapporto in sé considerata, e da chiunque provenga il mancato rispetto delle reciproche posizioni in un rapporto fondato sull’autorità di un soggetto nei confronti dell’altro, ma interessa solo un certo tipo di degenerazione del rapporto, quello che proviene dalla parte più forte e che si esprime attraverso maltrattamenti.

Oggetto del reato, quindi, non è il rapporto in sé e meno che mai “l’autorità” o “la ragione di affidamento”, ma è l’interesse del soggetto al rispetto, più ancora che della propria incolumità fisica e psichica, della propria personalità nello svolgimento del rapporto (3).

Ne consegue, quindi, che la famiglia assume nella formulazione della norma la stessa configurazione che viene data ai rapporti di autorità o di affidamento che, ovviamente, nella famiglia sono presenti in maniera più pregnante.

Deve sottolinearsi che la norma può essere interpretata anche nel senso che tende a tutelare tutti i soggetti di un rapporto familiare che, non necessariamente, devono essere legati tra di loro da rapporti di parentela atteso che i rapporti familiari sono anche quelli determinati da significativi vincoli affettivi.

Di recente si è ritenuto conforme a Costituzione l’inserimento dei maltrattamenti fra i delitti contro l’assistenza familiare, tenuto conto del ruolo che viene assegnato dalla stessa Costituzione alla famiglia, che è considerata società intermedia, destinata alla formazione della personalità dei suoi componenti.(4)

Si, infine affermato che la norma, in definitiva, “la previsione incriminatrice mira a tutelare non solo il familiare ed il fanciullo traditi nella fiducia, ma anche la posizione d’inferiorità del sottoposto ad autorità e dell’affidato rispetto all’agente”.(5)

Va sottolineato che parte della dottrina ritiene cha la norma preveda, se pure in modo unitario, una pluralità di reati: contro una persona della famiglia; contro il minore degli anni quattordici; contro il soggetto sottoposto all’agente per i motivi elencati nell’art. 572 c.p.

La Cassazione, con sentenza sez. VI, n. 1796 del 20 giugno 2012 nel chiarire i differenti interessi tutelati dall’art. 572 c.p. rispetto a quelli tutelati dall’art. 612 bis c.p., atti persecutori, ha sottolineato, ancora una volta che il reato in esame è reato contro l’assistenza familiare.

Ha affermato, ancora la Corte che ” il suo oggetto giuridico è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell’interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica”.

Nella sentenza si sottolinea, tra l’altro, che il reato di cui all’art. 572 può maturare solo in contesti caratterizzati da strette relazioni e consuetudini di vita ove si siano instaurati rapporti di solidarietà e assistenza tra i soggetti e che può essere commesso, nonostante la dizione della legge ” chiunque “, solo da chi ricopra un ruolo o una posizione di autorità nel contesto familiare e solo nei confronti di chi faccia parte della aggregazione come sopra specificata.

Il reato di atti persecutori, invece, è reato contro la persona che non richiede per la sua concretizzazione la sussistenza di specifiche relazioni tra autore e vittima.

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(1) Si veda F. Coppi, “Maltrattamenti in famiglia”, in “Enciclopedia del diritto”, Milano, 1975, vol. XXV, pag. 227.

(2) Si veda T. Delogu, “Dei delitti contro l’assistenza familiare”, in G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi, “Commentario al diritto italiano della famiglia”, Milano, 1995, pag. 643.

(3) Si veda F. Coppi, Op. cit., pag. 232.

(4) M. Meneghello, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in P. Zatti, diretto da , Trattato di diritto di famiglia, Milano, 2002, vol. IV, p. 519.

(5) P. Pomanti, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in F.S.Fortuna, Reati contro la famiglia e i minori, Milano, 2006, p. 162.

Capitolo 3

I soggetti del reato

Perché si concretizzi la fattispecie in analisi è necessario che i soggetti attivi e quelli passivi rivestano determinati ruoli e, nel solo caso del soggetto passivo, abbiano un determinato requisito.

L’art. 572 c.p. indica che i soggetti della fattispecie siano legati tra loro da rapporti familiari, di autorità o di affidamento. Per i soli minori degli anni quattordici non richiede l’esistenza di alcuno dei rapporti indicati, fermo restando il requisito della ripetizione della condotta.

a) La famiglia

Anche nell’analisi dell’articolo in questione si pone il problema di cosa debba intendersi per “famiglia”.

Una dottrina che non tiene conto dell’evoluzione della società e della nuova visione della famiglia come ” luogo degli affetti ” continua a ritenere che debba trattarsi di quella famiglia fondante le sue radici nel matrimonio e ciò considerando anche quanto viene indicato dagli artt. 29 e 30 Cost.

Questa visione della famiglia così tradizionalmente concepita non pone attenzione all’evolversi dei costumi ed alla diffusione della così detta famiglia di fatto.

Va, anche, considerato che la Costituzione, con l’equiparazione dei figli legittimi a quelli naturali, implicitamente prevede forme di legami non fondati sul matrimonio.

Così come, già da tempo, si osserva che nella coscienza sociale la distanza tra la famiglia legittima e quella naturale non basata sul matrimonio tende ad accorciarsi (6).

Ciò dipende dal fatto che al modello di famiglia tipico della nostra cultura se ne stanno aggiungendo altri, propri di culture diverse da quella occidentale, che o ripropongono schemi di rapporti familiari che ormai si ritenevano definitivamente superati, oppure ne delineano di completamente nuovi. Ci riferiamo a modelli di famiglia in cui, ad esempio la moglie è soggetta all’autorità del marito, i figli sono sfruttati ad opera dei padri, che sono titolari nei loro confronti di un potere di disposizione che non accetta limiti, per arrivare ai casi in cui per motivi religiosi si compiono sui minori gravi mutilazioni sessuali.(7)

Sul punto, però, la Giurisprudenza ha affermato che in tali ideologie e ambienti culturali, le azioni integranti condotte – reato (denominate anche reati “culturali” o “culturalmente orientati”) devono confrontarsi con la nostra Costituzione e, se attentano ai diritti essenziali e inviolabili della persona, non sono suscettibili di giustificazione.

Il sistema della Costituzione e delle convenzioni internazionali riguardanti gli aspetti essenziali dei diritti e della dignità dell’uomo rappresenta un argine invalicabile all’introduzione nella nostra società di condotte o prassi “antistoriche”. In altri termini, le diverse culture presenti nella nostra società, che offrono forme di famiglia diverse da quelle tradizionali, ricevono tutela dal nostro ordinamento salvo che in esse non vigano modelli comportamentali lesivi dei diritti essenziali ed inviolabili della persona.

E’ consolidata la giurisprudenza secondo la quale la famiglia è anche quella ove si determina un’unione di persone fra le quali, per intima relazione o consuetudine di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione, dal che consegue che l’art. 572 c.p. è posto a tutela anche di quei nuclei sorti su intime relazioni e consuetudini di vita e concretatisi in rapporti di assistenza e protezione. Cosicché la tutela si estende anche ai conviventi more uxorio (8).

Non deve sottovalutarsi, poi, che nella configurazione del reato entrano rapporti di coabitazione, convivenza e consuetudine di vita che sono determinati proprio da situazioni di natura familiare e che vedono coinvolti soggetti che, pur avendo tra loro legami familiari, non fanno parte della così detta famiglia nucleare.

Vanno, quindi, considerati membri della famiglia, ai fini della fattispecie in questione, il coniuge, i figli (legittimi, naturali e adottati) e tutti coloro che, per ragioni di parentela o affinità, abbiamo tra di loro le suindicate relazioni di convivenza, coabitazione o consuetudine di vita.

Va sottolineato che proprio le relazioni suddette caratterizzano la norma in esame.

Si è anche affermato che la stessa ratio della norma e il suo oggetto giuridico depone a favore di una estensione del termine oltre i limiti angusti della famiglia legittima.

In particolare se la tutela è posta a favore della dignità umana in relazione a determinati rapporti di subordinazione non si vede alcuna ragione perché in tale prospettiva debba costituire un limite la particolare condizione della famiglia di fatto (9).

Con la L. 1 ottobre 2012, n. 172, ratifica della convenzione di Lanzarote, il legislatore, modificando in parte la dizione dell’art. 572 c.p., ha recepito gli indirizzi di dottrina e giurisprudenza che avevano tenuto conto del mutato orientamento della società in relazione a ciò che deve considerarsi rapporto familiare.

Anzitutto è stata modificata la rubrica dell’articolo che da maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli e diventata “maltrattamenti contro i familiari e i conviventi” e, poi, nell’ambito del primo comma in luogo di “maltratta una persona della famiglia ” è disposto: “maltratta una persona della famiglia o comunque convivente”.

In definitiva si è dato definitivo rilievo a quei rapporti di solidarietà e comunione di vita che prescindono dal formale vincolo matrimoniale.

b) Autorità e affidamento

Si è a lungo discusso se nel concetto di autorità debba farsi rientrare solo quella nascente da un rapporto giuridicamente rilevante, ovvero anche quella che si determina a causa di situazioni di fatto.

Deve anzitutto osservarsi che nel concetto di autorità, in relazione all’art. 572 c.p., non si fa rientrare un qualsiasi rapporto di supremazia-soggezione, bensì solo quelli che trovano la loro ragion d’essere in un vincolo che sia anche di natura assistenziale familiare o parafamiliare.

Si afferma che non sempre all’esistenza di un rapporto di dipendenza di una persona all’autorità di un soggetto si accompagna una pretesa ad avere dal titolare dell’autorità un’assistenza familiare o parafamiliare (10).

Tale interpretazione, tuttavia, risente della teoria che vede il reato interamente concepito a tutela di rapporti familiari o che tale natura abbiano.

Chi ritiene in maniera diversa considera il reato posto in essere anche allorché i maltrattamenti si manifestino in rapporti pubblicistici di subordinazione indipendentemente da un dovere-diritto di assistenza (11).

Come accennato, la giurisprudenza è orientata nel ritenere che trovino tutela nell’art. 572 c.p. tutti i rapporti di autorità, anche non derivanti da rapporti giuridicamente rilevanti ma nascenti da situazioni di fatto.

Tale tesi è contrastata da chi, invece, ritiene che perché si possa parlare di un reale rapporto di autorità è necessario che il soggetto passivo sia legato a quello attivo da un rapporto formale. Sarà, infatti, proprio questo formalismo a determinare un ostacolo ulteriore per la vittima a sottrarsi alle vessazioni.

D’altro canto maggiore è il disvalore di chi tradisce il significato ed il valore dell’autorità, che non è certamente conferita per consentire a chi ne è investito di usare prepotenze e vessazioni nei confronti dei sottoposti; è proprio in relazione a queste angolazioni, infine, che acquista rilievo e reclama tutela la personalità del soggetto passivo (12).

Minori problemi pone il concetto di affidamento, che dovrà sempre essere determinato da ragioni di cura, assistenza, istruzione, educazione.

Il rapporto, fondato sul diritto pubblico, ovvero su quello privato, dovrà in ogni caso estrinsecarsi in una continuità e stretta frequentazione tra le parti tali da lasciar sussistere i presupposti perché possa determinarsi una condotta di maltrattamenti.

c) Minore degli anni quattordici

È stato correttamente osservato che l’inserimento di tale categoria di soggetti nella norma deve presupporre che si tratti di un minore che non rientri in alcuna delle categorie di persone offese specificamente determinate, perché, diversamente, la loro separata menzione non avrebbe alcun senso (13).

L’inserimento di tale categoria di soggetti, rileva ancora l’autore indicato, è quanto mai opportuna considerato che il minore degli anni quattordici resta un soggetto particolarmente debole che necessita di protezione.

La sua fragilità fisica e psichica lo rendono particolarmente vulnerabile agli attacchi che gli dovessero, da qualunque parte, provenire e hanno indotto numerosi testi di accordi internazionali a farsi carico di suggerire l’adozione di misure a difesa dei minori.

d) L’autore del reato

Nonostante l’art. 572 c.p. adoperi la dizione “chiunque”, deve pacificamente ritenersi che autore del reato possa essere solo un soggetto che si trovi in una delle condizioni che dalla stessa norma vengono descritte.

Va precisato, però, che non è richiesto un particolare rapporto quando soggetto passivo del reato sia il minore degli anni quattordici.

Negli altri casi e’ necessario che il soggetto attivo abbia, con quello passivo, una consuetudine ed assiduità di frequentazione che consenta l’insorgere dei maltrattamenti, ma soprattutto dovrà trovarsi in una posizione di supremazia, anche di fatto, determinata da rapporti di natura familiare, ovvero di autorità o affidamento, per le ragioni indicate dalla norma in analisi.

Il rapporto di autorità, poi, non necessariamente deve scaturire da una formale investitura giuridica, come è prevalente opinione della dottrina e della giurisprudenza, essendo sufficiente che la supremazia sul soggetto passivo derivi anche da una condizione di fatto venutasi a determinare.

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(6) Si veda De Cupis, “Stato e famiglia”, in “Il Foro Italiano”, 1971, V, pag. 146.

(7) M. Meneghello, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in P. Zatti, diretto da, Trattato di diritto di famiglia, vol. IV, Milano, 2002, p. 520.

(8) Si veda V. Zagrebelsky, “Delitti contro la famiglia”, in F. Bricola, V. Zagrebelsky, “Giurisprudenza sistematica di diritto penale”, Torino, 1996, pag. 508.

(9) Si veda M.A. Ruffo, “La tutela penale della famiglia”, Napoli, 1998, pag. 102.

(10) Si veda T. Delogu, Op. cit., pag. 648.

(11) Si veda V. Manzini, “Trattato di diritto penale”, Torino, 1982, pag. 954.

(12) Si veda F. Coppi, Op. cit., pag. 246.

(13) Si veda T. Delogu, Op. cit., pag. 649.

Capitolo 4

La condotta

In relazione alla condotta l’unico punto sul quale non si sono manifestati contrasti è quello relativo alla non istantaneità del reato.

Perché si possa determinare l’evento del maltrattare è, infatti, necessario che i comportamenti caratteristici del maltrattare si ripetano nel tempo.

A tale conclusione si giunge anche se il legislatore del 1930, adoperando il termine “maltratta”, ha reso meno esplicito il concetto rispetto al codice Zanardelli, che utilizzava l’espressione “usa maltrattamenti”.

Si è discusso se il reato debba qualificarsi come a condotta permanente ovvero abituale.

In realtà si è osservato che la condotta può essere indifferentemente di tipo permanente o abituale, perché la sua efficienza causale offensiva può derivare tanto dal ripetersi ad intervalli ravvicinati di atti offensivi, quanto dal permanere dell’effetto offensivo di un unico atto nel quale essa consista.

La giurisprudenza ha osservato che è necessario e sufficiente che in capo al soggetto passivo si determini, a causa dei comportamenti del soggetto attivo, una stabile condizione penosa senza che abbia rilevanza la natura della permanenza ovvero della abitualità della condotta.

La dottrina si orienta, tuttavia, nel ritenere il reato in esame a condotta plurima e, quindi, abituale considerato che tra le diverse azioni può intercorrere anche un lasso di tempo considerevole.

Tale carattere di abitualità vale a recuperare l’autonomia del delitto di maltrattamenti in famiglia da altre fattispecie di reato, che, assecondando una terminologia non specificamente giuridica, pure potrebbero essere configurati come episodi particolarmente gravi di maltrattamento, di cui la norma prevista dall’art. 572 c.p. non rappresenta neppure la semplice tipizzazione di una realizzazione continuata (14).

Poiché come già accennato il reato si può concretizzare con una pluralità di atti, ci si è chiesti quale debba essere il lasso temporale che deve intercorrere tra un atto lesivo e l’altro.

La giurisprudenza ha ritenuto che non è possibile determinare un preciso lasso di tempo che deve intercorrere tra un atto e l’altro, è necessario, in un’analisi fatta per singoli casi, che tra le diverse azioni vi sia una certa vicinanza che, per altro, si manifesta come uno dei primi indici del maltrattamento.

Dottrina e giurisprudenza prevalenti, poi, hanno ritenuto che per la configurazione del reato in esame non sia necessario che le singole condotte integrino di per sé un reato.

Anche comportamenti che singolarmente considerati abbiano il carattere della liceità possono concorrere a determinare la fattispecie in esame allorché, concatenati gli uni agli altri, determinino quella condizione di sofferenza per il soggetto passivo che diviene dannosa per la sua integrità fisica e morale.

Nell’ambito della vastissima casistica del reato si può giungere alla conclusione che determinano il concretizzarsi della fattispecie di cui all’art. 572 c.p. tutti quei comportamenti che, reiterati nel tempo, diventano lesivi dei diritti fondamentali della persona cagionando alla stessa un danno alla sua integrità fisica o morale.

Naturalmente si dovrà trattare di comportamenti subiti dalla parte offesa e non liberamente scelti e concordati con l’autore del reato, come nel caso di determinate pratiche sessuali (15).

Così, a titolo esemplificativo, dovranno farsi rientrare nel concetto di maltrattamenti tutti quegli atti che determinano condizioni igienico-alimentari non consone alla vita civile, che privino della libertà personale fisica o morale, che offendano la personalità o la dignità della persona.

La condotta di maltrattamenti può manifestarsi tanto mediante comportamenti attivi quanto per effetto di una condotta passiva. Non vi è dubbio, infatti, che anche una condotta omissiva da parte del soggetto tenuto alla protezione ovvero all’assistenza, possa integrare il delitto. Si pensi, a titolo di esempio al minore privato delle cure mediche, di normali manifestazioni affettive, ovvero del cibo.(16)

È bene sottolineare ancora una volta che le condotte costitutive del reato assumono offensività, anche se di per sé non costituiscono reato, ovvero assumono un’offensività particolare, perché provengono da un soggetto che, per la sua particolare posizione nei confronti del soggetto passivo, dovrebbe per quest’ultimo essere guida e sostegno.

Inoltre, nell’analisi della concreta offensività della condotta posta in essere dal soggetto agente si dovrà tenere conto della oggettiva condizione del soggetto passivo, soprattutto allorché il danno derivi da azioni lesive delle libertà immateriali.

Sarà, quindi, necessario valutare la sua cultura, la posizione sociale, l’età, la forza fisica, la sensibilità individuale e quant’altro possa rappresentare un parametro di valutazione in relazione alla capacità di reazione del soggetto passivo e, quindi, alla sua possibilità di sottrarsi da una condizione di soggezione nei confronti del soggetto agente.

Le azioni poste in essere, poi, debbono essere tra loro legate da un fine unico, il maltrattare, così che sarà l’unione delle singole azioni a determinare la condizione di maltrattamento.

Proprio su questo concetto di unione delle singole azioni si è soffermata in particolare la giurisprudenza sostenendo che il delitto è caratterizzato da un dolo unitario. Questo sarebbe, infatti, l’elemento che consente di identificare l’unitarietà delle condotte poste in essere dal soggetto agente.

Parte della dottrina ha ritenuto che il dolo necessario, perché sussista il reato in questione, debba essere simile a quello che viene richiesto nell’ipotesi di reato continuato.

Altra teoria, peraltro già avanzata nella relazione al codice penale, ritiene che il dolo del delitto in esame avrebbe solo una caratteristica particolare in quanto manifestazione di una particolare malvagità.

Ed ancora si è ritenuto che il dolo debba essere caratterizzato dalla previsione e dalla volontà di conseguire offesa all’oggetto giuridico tutelato dalla norma.

In definitiva, tuttavia, non è necessario che il dolo del reato in esame abbia particolari caratterizzazioni o connotazioni.

È sufficiente che l’autore, volontariamente e coscientemente, crei una situazione di continue sofferenze fisiche o morali alla persona che dovrebbe assistere, perché da questa situazione è inseparabile l’offesa all’interesse oggetto della norma (17).

È necessario, cioè, che l’autore, ferma restando la coscienza e volontà dei singoli atti, nel momento in cui la reiterazione degli stessi comincia a prendere consistenza si renda conto che, persistendo nella reiterazione dei cattivi trattamenti, egli offenderà il bene protetto e ciò nonostante, o addirittura per questo motivo, egli continui nel compiere tali atti (18).

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(14) Si veda M.A. Ruffo, Op. cit., pag. 101.

(15) Si veda T. Delogu, Op. cit., pag. 680.

(16) P. Pomanti, Maltrattamenti in famiglia o vero fanciulli, in F.S. Fortuna, Reati contro la famiglia e i minori, Milano, 2006, p. 166.

(17) Si veda T. Delegu, Op. cit., pag. 692.

(18) Si veda F. Coppi, Op. cit., pag. 254.

Capitolo 5

Tentativo e concorso di reati

Qualificato il reato come abituale, le teorie generali del diritto penale tendono a negare che possa identificarsi il tentativo.

Si è, infatti, sostenuto che nel caso di reato abituale i singoli atti, non necessariamente da soli costituenti reato, non sono idonei a determinare la idoneità e, soprattutto la inequivocità degli stessi alla consumazione del reato.

Si è, tuttavia, osservato (19) che allorché gli atti posti in essere dall’autore determinino una condizione di sofferenza nel soggetto passivo che, pur non raggiungendo i livelli d’insopportabilità di vita, in ogni caso, se reiterati sarebbero idonei a determinare l’evento previsto dalla norma, non è da porsi in dubbio che gli stessi siano capaci di configurare il tentativo.

Ma per configurarsi l’ipotesi del tentativo la condotta posta in essere dall’agente deve interrompersi per cause indipendenti dalla sua volontà.

Com’è stato osservato, in ogni caso, il tentativo non sarebbe configurabile nell’ipotesi del secondo comma dell’art. 572 c.p., considerato che sarebbe un controsenso configurare un tentativo del delitto di maltrattamenti in atti idonei e diretti in modo non equivoco a causare lesioni gravi, gravissime o la morte della persona offesa, perché se questa intenzione venisse accertata ma tali eventi non si fossero verificati, si tratterebbe di un comune tentativo di lesioni o di omicidio (20).

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che sia escluso il concorso di reati tra quello in esame e le ingiurie, percosse o minacce considerato che le indicate ipotesi delittuose, spesso, sono proprio gli elementi costitutivi della fattispecie in esame.

Un problema è sorto in relazione al concorso del reato in analisi con le lesioni dolose o colpose.

Si è osservato che le stesse, allorché siano qualificabili come lievi, siano assorbite dal reato di cui all’art. 572 c.p. poiché la legge ha considerato come aggravanti solo le lesioni gravi o gravissime (21).

La giurisprudenza e altra parte della dottrina, invece, ritengono che le lesioni, ancorché lievi, se sorrette dall’elemento doloso o colposo e non siano, quindi, conseguenza meramente obiettiva della condotta, debbano valutarsi come reati concorrenti con quello di maltrattamenti (22).

Tutti gli altri reati, ad esempio la violenza sessuale, il sequestro di persona, la violenza privata, possono concorrere con il reato di maltrattamenti in famiglia.

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(19) Si veda F. Coppi, Op. cit., pag. 257.

(20) Si veda T. Delogu, Op. cit., pag. 693.

(21) Si veda F. Antolisei, “Manuale di diritto penale, parte speciale”, 1, Milano, 1977, pag. 393.

(22) Si veda V. Zagrebelsky, Op. cit., pag. 516.

Capitolo 6

Giurisprudenza

Cassazione Penale

Anche la convivenza more uxorio stabile integra la fattispecie dell’art. 572 c.p.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di persona convivente “more uxorio”, quando si sia in presenza di un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione. (Nell’affermare tale principio, la S.C. ha precisato che, agli effetti del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., deve intendersi come “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo).

Sez. VI, n. 21329 del 24 gennaio 2007.

Cassazione Penale

Gli atti che concretizzano il reato di maltrattamenti in famiglia devono essere sorretti dall’intenzione di avvilire la vittima

La materialità del delitto di maltrattamento in famiglia si concreta in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o della libertà o del decoro del soggetto passivo nei confronti del quale viene così posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica tale da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza; l’elemento psichico, poi si concretizza in modo unitario ed uniforme che deve evidenziare nell’agente una grave intenzione di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i veri episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest’ultima, pur non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante il lasso di tempo considerato siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo.

Sez. VI, sent. n. 8510 del 18 settembre 1996.

Cassazione Penale

Gli atti di disprezzo e di offesa alla dignità configurano il delitto dell’art. 572 c.p.

Nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, fra esse annoverando espressamente la condotta del marito, che costringa la moglie a sopportare la presenza della concubina nel domicilio coniugale. Peraltro, in ordine alla configurabilità del delitto in oggetto, non assume rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, data la natura abituale del delitto in oggetto, l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non fa venir meno l’esistenza dell’illecito.

Sez. VI, sent. n. 8396 del 12 settembre 1996.

Cassazione Penale

I diritti fondamentali della persona umana sono il limite invalicabile alle condotte antistoriche

Sussiste l’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia da parte del padre che picchia la figlia con il manico di scopa perché non sa ripetere a memoria il Corano, perché, nonostante egli possa risultare estraneo all’evoluzione dei costumi e dei sistemi pedagogici italiani, il rispetto e la tutela della persona umana sono presupposti indefettibili per il regolamento dei rapporti umani e sociali ed anche “sbarramento invalicabile” contro l’introduzione nella società civile di consuetudini, prassi e costumi “antistorici”.

Sez. VI, sent. n. 12089 del 30 marzo 2012.

Cassazione Penale

Il clima di sopraffazione e umiliazione è sufficiente ad integrare il reato

Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti siano consapevoli, a prescindere dall’entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi. (Fattispecie relativa alla continua espressione di frasi ingiuriose e a maltrattamenti fisici da parte delle operatrici di un istituto pubblico di assistenza nei confronti di persone anziane ivi ricoverate nel reparto di lunga degenza).

Sez. VI, n. 8592 del 21 dicembre 2009.

Cassazione Penale

Il coinvolgimento in pratiche sessuali concretizza il reato dell’art. 572 c.p.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà o del decoro del soggetto passivo, nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la stessa convivenza particolarmente dolorosa: atti sorretti dal dolo generico integrato dalla volontà cosciente di ledere la integrità fisica o morale della vittima. (Nella specie la Corte ha ritenuto integrare il reato in questione nel coinvolgimento del minore, da parte degli imputati, nei loro giochi amorosi).

Sez. III, sent. n. 4752 del 22 aprile 1998.

Cassazione Penale

Il consenso dell’avente diritto non è scriminante se contrasta con i principi dell’ordinamento giuridico

Il reato di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.) non può essere scriminato dal consenso dell’avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni sub-culturali relative ad ordinamenti diversi da quello italiano. Dette sub-culture, infatti, ove vigenti, si porrebbero in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo sanciti dall’art. 2 Cost., i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli artt. 29-31 Cost. (Fattispecie in cui la scriminante del consenso dell’avente diritto era stata fondata sull’origine albanese dell’imputato e delle persone offese per le quali varrebbe un concetto dei rapporti familiari diverso da quello vigente nel nostro ordinamento).

Sez. VI, sent. n. 3398 del 24 novembre 1999.

Cassazione Penale

Il credo religioso non esclude il reato

Non rileva, per l’integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia, nella specie in danno della moglie, il credo religioso dell’autore delle condotte, non potendo ritenersi che l’adesione ad un credo, che non sancisca la parità dei sessi nel rapporto coniugale, giustifichi i maltrattamenti in danno della moglie.

Sez. VI, n. 32824 del 26 marzo 2009.

Cassazione Penale

Il delitto di violenza sessuale non concorre con quello di maltrattamenti

Il delitto di violenza sessuale continuata non concorre formalmente con il delitto di maltrattamenti, atteso che anch’esso è caratterizzato da un dolo unitario e programmatico, nè il concorso tra i due reati può essere giustificato dalla loro diversa obiettività giuridica, trattandosi di criterio estraneo alla configurazione codicistica del principio di specialità.

Sez. III, sent. n. 3998 del 1 febbraio 2001.

Cassazione Penale

Il dolo richiesto non prevede la preventiva rappresentazione della finalizzazione di ogni singola azione

Il dolo del reato di maltrattamenti in famiglia è unitario e non può confondersi con la coscienza e volontà di ogni singolo atto, tuttavia non richiede la programmatica e preventiva finalizzazione di ogni episodio al raggiungimento del risultato, che è quello di sottoporre la parte lesa ad un intollerabile regime di vita attraverso violenze fisiche e morali, queste ultime costituite anche da manifestazioni di disprezzo e umiliazione.

Il dolo può ben realizzarsi in modo graduale, costituendo il dato unificatore di ciascuna delle condotte oggettive. La valutazione di tale componente soggettiva di difficile connotazione esterna, è rimessa necessariamente al prudente apprezzamento del giudice di merito il quale però, proprio per tale ragione deve fornire del suo convincimento una motivazione priva di vizi logici e ancorata a dati di fatto che costituiscano chiara manifestazione della intima violazione dell’imputato.

Sez. VI, sent. n. 2800 del 16 marzo 1995.

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Il genitore che per fini educativi umilia il figlio commette il reato di “abuso di mezzi di correzione”

Costituisce abuso punibile a norma dell’art. 571 c.p. (che nella ricorrenza dell’abitualità e del necessario elemento soggettivo può integrare anche il delitto di maltrattamenti) il comportamento doloso attivo od omissivo, mantenuto per un tempo apprezzabile, che umilia, svaluta, denigra e sottopone a sevizie psicologiche un bambino causandogli pericoli per la salute, anche se è compiuto con soggettiva intenzione disciplinare. Per l’integrazione della fattispecie prevista dall’art. 571 c.p. è sufficiente il dolo generico, non essendo dalla norma richiesto il dolo specifico, cioè un fine particolare ulteriore rispetto alla consapevole volontà di realizzare il fatto costitutivo del reato, ossia la condotta di abuso che si concretizza con tutti quegli atti che realizzano traumi psicologici per la piccola vittima e, perciò, fatti da cui deriva pericolo di una malattia della mente della parte offesa.

Sez. VI, sent. n. 16491 del 3 maggio 2005.

Cassazione Penale

Il perdono della parte lesa non giustifica le attenuanti

Lì dove risulti provata la sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia l’intervenutoi perdono della parte lesa, di per se stesso, non giustifica la concessione delle attenuanti generiche.

Sez. VI, n. 46324 del 29 novembre 2012.

Cassazione Penale

Il rapporto di lavoro integra quello di autorità dell’art. 572 c.p.

In tema di reato di maltrattamenti, rientra nel rapporto d’autorità di cui all’art. 572 cod. pen. il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato in quanto caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo. (Fattispecie di maltrattamenti rappresentati da molestie sessuali poste in essere sul luogo di lavoro da datore di lavoro nei confronti di propria dipendente).

Sez. III, sent. n. 27469 del 5 giugno 2008 Ud. (dep. 07 luglio 2008 ) Rv. 240337.

Cassazione Penale

Il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche in rapporti di stabile convivenza

In tema di maltrattamenti in famiglia, il reato di cui all’art. 572 c.p. è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima in presenza di un rapporto di stabile convivenza, in quanto suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza. (Nella specie la Corte ha peraltro ritenuto irrilevante, ai fini penali, la circostanza che tra l’imputato e la persona offesa esistesse un matrimonio contratto all’estero nel paese di comune origine non dichiarato efficace in Italia, posto che le disposizioni regolatrici della materia, art. 17 disp. att. c.c., primo comma, e art. 28 della legge n. 218 del 1995, rinviano per la validità del matrimonio alla legge del luogo in cui esso è stato celebrato o alla legge nazionale dei coniugi al momento della celebrazione).

Sez. VI, sent. n. 12545 del 1 dicembre 2000.

Cassazione Penale

Il reato di cui all’art. 572 c.p. è integrato anche dal datore di lavoro che per proprio lucro vessi i dipendenti

Integra il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 c.p.., e non invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina ( art. 571 c.p.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità perseguita dagli agenti non sia la loro punizione per episodi censurabili ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro personale. (Fattispecie relativa a un datore di lavoro e al suo preposto che, in concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi).

Sez. VI, sent. n. 10090 del 12 marzo 2001.

Cassazione Penale

Il reato di cui all’art. 572 c.p. è reato abituale

Il reato di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 c.p.) integra una ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo; esso si perfeziona allorché si realizza un minimo di tali condotte (delittuose o meno) collegate da un nesso di abitualità e può formare oggetto anche di continuazione ex art. 81 c.p., capoverso, come nel caso in cui la serie reiterativa sia interrotta da una sentenza di condanna ovvero da un notevole intervallo di tempo tra una serie di episodi e l’altra.

Sez. VI, sent. n. 4636 del 27 aprile 1995.

Cassazione Penale

Il reato di cui all’art. 572 c.p. non assorbe la violenza sessuale

Il delitto di maltrattamenti non può ritenersi assorbito in quello di tentata violenza carnale: il carattere unitario, che è tipico del delitto di maltrattamenti, vale a distinguere la condotta di tale delitto da quella di tentata violenza carnale poiché, se le minacce integrano, di volta in volta, gli estremi del tentativo di violenza carnale, costituisce, rispetto a siffatte azioni, elemento specificante e distintivo il dolo unitario e programmatico del delitto di maltrattamenti, riconducibile alla coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze fisiche e morali in modo continuo e abituale. (Nella specie la Suprema Corte ha considerato che le minacce e le vessazioni non si esaurivano nel perseguimento del piano delittuoso, limitato al reato di tentata violenza carnale contro la figlia, ma coinvolgevano anche la moglie dell’imputato e, in ogni caso, la reiterazione di tali comportamenti minacciosi e vessatori, pur se fossero stati circoscritti alla persona della figlia, non si configuravano come un mero cumulo di azioni, in sé illecite, ma, a causa della abitualità della condotta, assumevano il carattere unitario che è tipico del delitto di maltrattamenti).

Sez. III, sent. n. 3111 del 27 marzo 1996.

Cassazione Penale

Il reato di maltrattamenti in famiglia deve valutarsi considerando gli episodi collegati armonicamente tra loro

Nella valutazione della prova il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto ed il loro insieme non in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica e consonante che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di attingere la verità processuale, cioè la verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile del caso concreto.

Viola tale principio il giudice che, dovendo giudicare in tema di maltrattamenti da parte di un insegnante nei confronti degli alunni, abbia smembrato i singoli episodi sottoposti alla sua valutazione rinvenendo per ciascuno giustificazioni sommarie od apodittiche e omettendo di considerare se nel loro insieme la condotta non fosse tale da realizzare un metodo educativo fondato sull’intimidazione e la violenza. L’abuso dei mezzi di correzione da parte di un insegnante è sicuramente integrato dall’uso di sanzioni corporali, vietato espressamente dal R.D. 26 aprile 1928, n. 1297, e da qualunque condotta di coartazione fisica o morale che renda dolorose e mortificanti le relazioni tra l’insegnante e la classe attuata consapevolmente, fosse anche per finalità educative astrattamente accettabili.

Sez. VI, sent. n. 8314 del 5 settembre 1996.

Cassazione Penale

Il reato di maltrattamenti in famiglia richiede relazioni familiari non richieste dal reato di atti persecutori

Il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone che lo stesso sia commesso tra soggetti legati da rapporti di solidarietà e assistenza tipici dell’istituzione familiare e può essere commesso solo da chi ha un ruolo nel contesto familiare o ha una posizione di supremazia ai danni di chi è parte dell’aggregazione familiare.

Il reato di atti persecutori, invece, reato contro la persona non presuppone alcun vincolo particolare tra autore e vittima.

Sez. VI, n. 1796 del 20 giugno 2012.

Cassazione Penale

Il reato di maltrattamento è sorretto dal dolo generico di sottoporre la vittima a sofferenze che ne ledono la personalità

Il reato di maltrattamento consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà o del decoro del soggetto passivo nei cui confronti viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendergli la vita e l’esistenza particolarmente dolorose ed è sorretto dal dolo generico costituito dalla coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuativo e abituale, si da lederne la personalità.

Sez. III, sent. n. 26830 del 20 giugno 2003.

Cassazione Penale

Il reato di violenza privata può concorrere con quello di maltrattamenti in famiglia

Il reato di violenza privata può concorrere materialmente con il reato di maltrattamenti in famiglia quando le violenze e le minacce del soggetto attivo siano adoperate, oltre che con la coscienza e volontà di sottoporre la vittima a sofferenze fisiche e morali in modo continuativo e abituale, anche con l’intento di costringerlo ad attuare un comportamento che altrimenti non avrebbe volontariamente posto in essere. (Nel caso di specie, il marito, oltre che sottoporre la moglie, continuativamente e abitualmente, a ingiurie, minacce e percosse, l’aveva anche costretta a sottoscrivere numerosi effetti cambiari).

Sez. VI, sent. n. 8193 del 24 giugno 1999.

Cassazione Penale

Integra l’aggravante di cui all’art. 572 l’abbandono di una persona bisognosa di cure per un periodo tale da determinare l’aggravamento della condizione e la morte

Integra la circostanza aggravante di cui all’art. 572, comma secondo, cod. pen. la condotta di colui che, incaricato di prestare assistenza ad una persona anziana, abbandoni quest’ultima senza cure ed assistenza per un lungo periodo, aggravandone le già precarie condizioni di salute, in quanto ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra maltrattamenti e morte non è necessario che i fatti di maltrattamento costituiscano la causa unica ed esclusiva degli eventi più gravi, stante il principio della equivalenza delle cause o della “conditio sine qua non” (art. 41 cod. pen.).

Sez. V, n. 28509 del 13 aprile 2010.

Cassazione Penale

La consapevolezza di compiere attività vessatoria è sufficiente a integrare il reato di maltrattamenti

La sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia non implica l’intenzione di sottoporre il convivente, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria.

Sez. VI, n. 16836 del 18 febbraio 2010.

Cassazione Penale

La continuità di atti vessatori integra il reato di cui all’art. 572 c.p.

Integra gli estremi del reato di cui all’art. 572 c.p. la sottoposizione dei familiari, ancorché non conviventi, ad atti di vessazione continui e tali da cagionare agli stessi sofferenze, privazioni, umiliazioni, che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. Ed invero, comportamenti abituali caratterizzati da una serie indeterminata di atti di molestia, di ingiuria, di minaccia e di danneggiamento, manifestano l’esistenza di un programma criminoso di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costituiscono l’espressione ed in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole in sommo grado e per quanto possibile penosa l’esistenza dei familiari.

Sez. VI, sent. n. 3570 del 18 marzo 1999.

Cassazione Penale

La convivenza non è elemento necessario per la configurabilità dell’art. 572 c.p.

Il reato di cui all’art. 572 c.p. si può configurare anche in assenza di un rapporto di convivenza, e cioè quando questa sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto, restando integri anche in tal caso i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione.

Sez. VI, sent. n. 3570 del 18 marzo 1999.

Cassazione Penale

L’art. 572 c. p. assorbe ingiurie, minacce e violenza privata

Il reato di maltrattamento in famiglia assorbe i reati di ingiuria, minacce e violenza privata che rientrano nella materialità di detto delitto.

Sez. V, n. 22790 del 14 maggio 2010.

Cassazione Penale

La separazione legale non impedisce il configurarsi del reato di cui all’art. 572 c.p.

In tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di separazione legale, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie criminosa in questione, il suddetto stato di separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata.

Sez. VI, sent. n. 282 del 24 febbraio 1998.

Cassazione Penale

L’intento educativo non esclude il reato di maltrattamenti

Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia e non quello di abuso dei mezzi di correzione la consumazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore.

Sez. VI, sent. n. 48272 del 7 ottobre 2009 Ud. (dep. 17 dicembre 2009 ) Rv. 245329.

Cassazione Penale

L’ipotesi dell’art. 572 c.p. si realizza anche attraverso omissioni

Il delitto di maltrattamenti di minore ( art. 572 c.p.) si consuma non soltanto attraverso azioni, ma anche mediante omissioni giacché “trattare” un figlio (per di più minore degli anni 14) da parte di un padre implica almeno il rispetto della norma di cui all’art. 147 c.c. che impone l’obbligo di “mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” e, per converso, “maltrattare” vuol dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità né materiale, né morale di risolvere da solo.

Sez. VI, sent. n. 4904 del 16 maggio 1996.

Cassazione Penale

L’uso della violenza riferito ai bambini non configura l’abuso dei mezzi di correzione

Con riguardo ai bambini il termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di connivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice. Ne consegue che l’eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell’art. 571 c.p. (abuso di mezzi di correzione) giacché intanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l’uso.

Sez. VI. sent. n. 4904 del 16 maggio 1996.

Cassazione Penale

L’utilizzare un minore per accattonaggio concretizza il reato

Configura il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. la condotta di chi, avuto in consegna un minore allo scopo di accudirlo, educarlo ed avviarlo ad una istruzione, consente che viva in stato di abbandono in strada, per vendere piccoli oggetti e chiedere l’elemosina, appropriandosi poi del ricavato e disinteressandosi del suo stato di malnutrizione e delle situazioni di pericolo fisico e morale cui egli si trovi esposto: si tratta infatti di una condotta lesiva dell’integrità fisica e morale del minore, idonea a determinare una situazione di sofferenza, di cui va ritenuto responsabile chiunque ne abbia l’affidamento

Sez. VI, n. 3419 del 9 novembre 2006.

Cassazione Penale

Nel reato di cui all’art. 572 c.p. il dolo è generico

Nel delitto di maltrattamenti in famiglia il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuo e abituale, in modo da lederne complessivamente la personalità.

Sez. VI, sent. n. 11476 del 15 dicembre 1997.

Cassazione Penale

Non è la convivenza e la coabitazione a caratterizzare la famiglia

Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione. È sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi anche assistenziali.

Sez. III, sent. n. 8953 del 3 ottobre 1997.

Cassazione Penale

Perché si concretizzi l’ipotesi di cui all’art. 572 c.p. è necessario s’instauri uno stabile rapporto di assistenza e protezione

L’articolo 572 c.p. punisce tutti coloro che maltrattano una persona che con il reo abbia uno stabile rapporto di convivenza fondato sulla comunione di vita e sulla reciproca solidarietà indipendentemente dalla sussistenza del vincolo matrimoniale.

Sez. VI, n. 22915 del 27 maggio 2013.

Cassazione Penale

Può esservi concorso formale tra violenza sessuale e maltrattamenti

È configurabile il concorso formale tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di violenza sessuale quando la condotta integrante il reato di cui all’art. 572 cod. pen. non si esaurisca negli episodi di violenza sessuale, ma s’inserisca in una serie d’atti vessatori e percosse tipici della condotta di maltrattamenti.

Sez. III, n. 46375 del 12 novembre 2008.

Cassazione Penale

Può esservi concorso tra il reato di maltrattamenti e la riduzione in schiavitù

Non sussiste rapporto di specialità (art.15 cod. pen.) tra il delitto di maltrattamenti in famiglia ( art. 572 cod. pen.) e quello di riduzione in schiavitù ( art. 600 cod. pen.), trattandosi di reati che tutelano interessi diversi – la correttezza dei rapporti familiari nella prima ipotesi, lo status libertatis dell’individuo nella seconda – e che presentano un diverso elemento materiale, in quanto nell’ipotesi dell’art. 572 cod. pen. è necessario che un componente della famiglia sottoponga un altro a vessazioni, mentre nel caso di riduzione in schiavitù è necessario che un soggetto eserciti su un altro individuo un diritto di proprietà, con la conseguenza che le due ipotesi di reato, sussistendone i presupposti, possono concorrere.

Sez. V, sent. n. 32363 del 30 settembre 2002.

Cassazione Penale

Sistema di vita abitualmente doloroso e avvilente

In tema di maltrattamenti familiari ( art. 572 c.p.), correttamente il giudice di merito desume dalla ripetitività dei fatti di percosse e di ingiurie l’esistenza di un vero e proprio sistema di vita di relazione abitualmente doloroso ed avvilente, consapevolmente instaurato dall’agente, a seguito di iniziali stati di degenerazione del rapporto familiare. Per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima all’autore del reato, in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità e al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza.

Sez. VI, sent. n. 4015 del 17 aprile 1996.