Mandato di arresto Europeo – esecuzione – rifiuto (Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 10 aprile 2018, n. 15866).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROTUNDO Vincenzo – Presidente

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere

Dott. VILLONI Orlando – Consigliere

Dott. GIORDANO Emilia Anna – Consigliere

Dott. CALVANESE Ersilia – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 06/03/2018 della Corte di appello di Napoli;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Ersilia Calvanese;

udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. De Masellis Mariella, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al motivo di rifiuto di cui alla L. n. 69 del 2005, articolo 18, lettera p);

udito il difensore, avv. (OMISSIS), anche in sostituzione del codifensore avv. (OMISSIS), che ha concluso insistendo nei motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Napoli disponeva la consegna, condizionata al rinvio a norma della L. n. 69 del 2005, articolo 19, lettera c), e sospesa ai sensi dell’articolo 24 della stessa legge, del cittadino italiano (OMISSIS), richiesta dalle autorita’ giudiziarie spagnole con mandato di arresto Europeo per il suo perseguimento per i reati di partecipazione ad associazioni dedite al narcotraffico e al riciclaggio.

La Corte di appello esponeva che al predetto era stato contestato di aver fatto parte di un’associazione operante in Spagna, autonoma anche se collegata al clan camorristico “(OMISSIS)”, nella quale si era occupato di dirigere personalmente il traffico internazionale di droga tra la Spagna e l’Italia, nonche’ il riciclaggio e il reinvestimento in Spagna di rilevanti capitali acquisiti dal suddetto clan attraverso la propria attivita’ criminale.

La Corte distrettuale riteneva che in ordine ai suddetti fatti non ricorressero le ipotesi ostative previste dalla L. n. 69 del 2005, articolo 18, lettera o) e p).

Relativamente alla ipotesi di cui alla lettera o) del citato articolo, secondo la Corte di appello, era emerso che i fatti per i quali era stata richiesta la consegna risultavano essere diversi da quelli per i quali lo stesso (OMISSIS) era stato condannato, in via non ancora definitiva, in Italia per il reato di cui all’articolo 416-bis c.p., in qualita’ dei partecipe del clan (OMISSIS) (reato in ordine al quale aveva riportato la condanna, confermata in appello, ad anni 12 di reclusione): l’associazione operante in Spagna, anche se collegata al clan dei (OMISSIS), era infatti autonoma nell’organizzare le attivita’ criminali (lo (OMISSIS), pur ricevendo ordini e danaro dal (OMISSIS), gestiva poi in autonomia le attivita’ illecite).

Non era neppure ravvisabile la fattispecie ostativa di cui alla lettera p) del suddetto articolo, in quanto, pur essendo ravvisabili elementi di collegamento tra l’associazione operante in Italia e quella oggetto del mandato di arresto Europeo, doveva prevalere un’esegesi della disposizione “conforme” alla decisione quadro sul mandato di arresto Europeo del 2005, che consentisse di prevedere il motivo di rifiuto come facoltativo e non obbligatorio.

Secondo la Corte di appello, la disposizione ora richiamata doveva essere disapplicata in quanto in “insanabile contrasto” con “la norma Europea direttamente efficace” per una serie di motivi. In primis, l’articolo 4, par. 7, lettera a), della decisione quadro del 2002 relativa al mandato d’arresto Europeo prevedeva il “potere” e non il “dovere” di rifiutare la consegna se la richiesta riguarda reati che secondo la legge dello Stato membro di esecuzione sono commessi in tutto o in parte nel suo territorio; e la disciplina dell’obbligatorieta’ del rifiuto nel caso previsto dall’articolo 18, comma 1, lettera p), cit. era stata espressamente criticata nel rapporto della Commissione Europea del 23 febbraio 2005 sull’attuazione della decisione quadro.

In secondo luogo, la disciplina introdotta dal Decreto Legislativo 15 febbraio 2016, n. 29, recante disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro del 2009 del 30 novembre 2009, concernente la prevenzione e la risoluzione di conflitti di giurisdizione penale tra i Paesi dell’Unione Europea, prevedeva l’applicazione, in caso di giurisdizioni concorrenti, del criterio del luogo in cui si e’ verificato prevalentemente il fatto costituente reato, ovvero altri criteri residuali.

Secondo la Corte di appello, quindi, doveva ritenersi il giudice spagnolo nella migliore posizione per giudicare i fatti in contestazione.

La Corte di appello respingeva infine anche le istanze difensive in ordine al motivo di rifiuto previsto dalla L. n. 69 del 2005, articolo 18, comma 1, lettera m), in quanto la sentenza emessa in Italia nei confronti dello (OMISSIS) per il reato ex articolo 416-bis c.p. non era ancora irrevocabile.

2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’interessato, a mezzo dei suoi difensori di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’articolo 173 disp. att. c.p.p.:

– violazione della L. n. 69 del 2005, articolo 1, comma 3 e articolo 6, comma 1, lettera e), in quanto, come evidente da una mera lettura del provvedimento spagnolo, il mandato risulta del tutto generico in ordine alla descrizione delle condotte illecite, limitandosi all’indicazione del nomen juris dei reati;

– violazione della L. n. 69 del 2005, articolo 16, non avendo la Corte di appello disposto l’acquisizione di informazioni aggiuntive per meglio comprendere le condotte incriminate;

– violazione della L. n. 69 del 2005, articolo 18, comma 1, lettera m), in quanto i fatti attribuiti al ricorrente risulterebbero del tutto sovrapponibili a quelli per i quali e’ stato condannato in Italia (in particolare, gia’ risultava il ruolo di mediatore di (OMISSIS) tra l’Italia e la Spagna, cosi’ come la sua attivita’ di imprenditore colluso al clan, l’episodio della societa’ (OMISSIS) s.r.l., dedita al riciclaggio, la costruzione di 25 villini in Spagna);

– violazione della L. n. 69 del 2005, articolo 18, comma 1, lettera p), poiche’ la Corte di appello non avrebbe considerato che per altri coimputati del clan (OMISSIS) ( (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)) era stata in passato rifiutata la consegna per il suddetto motivo ostativo; inoltre, pur volendo considerare facoltativo il motivo di rifiuto, avrebbe in modo frettoloso ed illogico ritenuto preferibile la consegna alla Spagna, quando invece il giudice italiano era in possesso di tutti gli elementi di prova per procedere in ordine ai fatti di cui al mandato di arresto Europeo, che avevano avuto la loro origine ed evoluzione criminosa in Italia (era pur sempre (OMISSIS), capo incontrastato di entrambe le consorterie).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non puo’ essere accolto per le ragioni di seguito indicate.

2. I primi due motivi sono inammissibili.

A fronte della sentenza impugnata che ha attestato che il mandato di arresto Europeo si presentava sufficientemente circostanziato in ordine alla descrizione dei fatti illeciti, la censura proposta dal ricorrente e’ stata formulata in modo del tutto generico, trovando comunque smentita ictu oculi non solo nella motivazione della sentenza – la’ dove la Corte di appello ha proceduto ad un’analisi specifica delle incolpazioni provvisorie mosse dalle autorita’ giudiziarie spagnole al fine di verificare la sussistenza delle ipotesi ostative invocate dalla difesa – ma anche dalle stesse critiche mosse dal ricorrente nei motivi versati nel presente ricorso, che si diffondono in un’analisi comparativa tra la condotta commessa in Spagna e quella oggetto del procedimento penale in Italia.

3. Il terzo motivo e’ manifestamente infondato e vieppiu’ aspecifico, avendo la Corte di appello rilevato in via assorbente che la sentenza di condanna emessa in Italia non era irrevocabile, come invece richiede la norma evocata dal ricorrente (l’articolo 18, comma 1, lettera m, prevede il rifiuto della consegna se “risulta che la persona ricercata e’ stata giudicata con sentenza irrevocabile per gli stessi fatti da uno degli Stati membri dell’Unione Europea purche’, in caso di condanna, la pena sia stata gia’ eseguita ovvero sia in corso di esecuzione, ovvero non possa piu’ essere eseguita in forza delle leggi dello Stato membro che ha emesso la condanna”).

4. Il quarto motivo non puo’ trovare accoglimento anche se per ragioni diverse da quelle indicate dalla Corte territoriale.

Ancorche’ il ricorrente non abbia sottoposto a specifica censura lâEuroËœesegesi accolta dalla Corte di appello, che ha ritenuto di ravvisare nell’ipotesi di cui alla L. n. 69 del 2005, articolo 18, comma 1, lettera p) della un motivo di rifiuto facoltativo della consegna, appare opportuno preliminarmente affrontare questa questione per verificare se la soluzione interpretativa fatta propria dalla sentenza impugnata sia corretta.

4.1. Il cit. articolo 18, lettera p) prevede due distinte ipotesi di rifiuto obbligatorio della consegna, ispirate da differenti ratio: la prima, riguarda il caso in cui il mandato di arresto Europeo sia stato emesso in relazione a “reati che dalla legge italiana sono considerati reati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo assimilato al suo territorio”; la seconda, attiene invece alla distinta fattispecie in cui i reati oggetto del mandato di arresto Europeo “sono stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro di emissione” e “la legge italiana non consente l’azione penale per gli stessi reati commessi al di fuori del suo territorio”.

Entrambi i motivi ostativi corrispondono a tradizionali casi di rifiuto dell’estradizione, peraltro disciplinati in sede pattizia in chiave solamente facoltativa (cfr. articolo 7 della Convezione Europea di estradizione), che mirano alla tutela del principio di territorialita’ della legge penale secondo differenti angolature: il primo e’ funzionale alla riserva di giurisdizione a favore dello Stato di rifugio su fatti commessi sul suo territorio; il secondo, invece, risponde all’esigenza di alcune legislazioni che non perseguono i reati commessi in territorio estero.

Orbene, mentre quest’ultima ipotesi prevista dalla seconda parte dell’articolo 18, lettera p) appare non avere di fatto alcuna rilevanza nel sistema penale italiano che consente in via generale la punibilita’ di reati commessi all’estero, attraverso l’articolo 7 c.p. e ss.gg. (non potendosi tener conto, nella suddetta valutazione, della sussistenza in concreto delle condizioni di procedibilita’, cfr. in senso analogo, in materia estradizionale, Sez. 6, n. 21251 del 01/04/2003, Schumann, Rv. 226042), piu’ problematica e’ risultata l’applicazione della prima delle suddette cause di rifiuto della consegna.

Invero, nel regolare i rapporti tra l’ordinamento italiano e gli ordinamenti stranieri, l’articolo 6 c.p., comma 2, si ispira al principio della forza espansiva dell’applicazione della legge italiana (cfr. la Relazione ministeriale al codice penale; Sez. 6, n. 7478 del 09/12/1992, dep. 1993, Carnana, Rv. 195046), secondo cui e’ sufficiente che sia avvenuta in Italia anche una minima parte dell’azione o della omissione, pur se priva dei requisiti di idoneita’ e di inequivocita’ richiesti per il tentativo, per far ritenere commesso in Italia il reato che, considerando anche i collegati atti commessi all’estero, viene poi concretamente individuato nella sua unitaria fisionomia in un reato consumato o tentato (in senso conforme, tra le tante, Sez. 4, n. 6376 del 20/01/2017, Cabrerizo Morillas, Rv. 269062).

Come e’ stato piu’ volte evidenziato dalla dottrina, questa interpretazione della citata disposizione del codice e’ funzionale ad evitare che l’applicazione del principio di territorialita’ della legge penale implichi una mutilazione dell’azione o dell’omissione delittuosa, a causa dell’esistenza delle frontiere internazionali, e quindi la sola punibilita’ di quella parte di un fatto eseguita al di qua dei confini nazionali.

Il legislatore ha infatti considerato il reato un’entita’ indivisibile, avendo riguardo sia alla parte che si e’ verificata nel territorio nazionale sia a quella verificatasi all’estero (cfr. la Relazione al re sul codice penale, n. 92: “costituirebbe un’aberrante finzione quello di considerarlo tentato, mentre in realta’ esso fu consumato “).

Nell’interpretazione quindi della norma codicistica in un’ottica soltanto funzionale alla punibilita’ di reati commessi in parte all’estero, la giurisprudenza, in assenza peraltro di disposizioni sul punto, si e’ preoccupata soltanto di ricercare un elemento di collegamento con il territorio dello Stato che giustificasse l’attrazione del fatto illecito nell’ambito della giurisdizione italiana, spesso individuato anche solo in un apprezzabile “frammento” della condotta in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero.

Il legislatore non si e’ invece curato di coordinare questa disposizione con la concorrente giurisdizione di altro Stato, il cui territorio sia stato parimenti interessato dall’iter criminoso (a differenza invece della ipotesi del reato commesso interamente all’estero, disciplinata dagli articoli 9 e 10 c.p., le cui previsioni, che se pur ispirate ad una tendenza universalistica della legge penale, ne condizionano il perseguimento nello Stato al bilanciamento tra le diverse esigenze del rispetto di impegni internazionali e della repressione penale).

Anzi, la prospettiva del codice relativamente ai reati commessi in parte sul territorio dello Stato, come dimostra plasticamente l’articolo 11 c.p., e’ quella della irrilevanza giuridica dell’esercizio della concorrente giurisdizione (Sez. 1, n. 708 del 08/04/1970, Tognolini, Rv. 115576).

E’ evidente che questa interpretazione dell’articolo 6 c.p., comma 2, risulti inadeguata quando vengano in considerazione esigenze di cooperazione internazionale, ponendosi in frizione con il mutato quadro internazionale ed in particolare con il contesto dello spazio giudiziario Europeo, nel quale la punibilita’ di taluni gravi reati, tipicamente transnazionali, costituisce un obiettivo “comune” delle politiche repressive degli Stati.

Queste considerazioni hanno ispirato talune interpretazioni ristrettive della portata dell’articolo 18, lettera p), cit., che tuttavia non appaiono condivisibili.

Da un lato, e’ parso possibile addivenire ad una nozione di “parte” del reato diversa (e meno espansiva) da quella fornita dall’articolo 6 c.p., comma 2. Tuttavia, tanto la norma Europea quanto la suddetta disposizione rinviano alla nozione interna di parte del reato.

Dall’altro, come dimostra la sentenza impugnata, si e’ cercato di attenuare l’impatto della disposizione, conferendo alla ipotesi in essa descritta soltanto l’effetto di ostacolare facoltativamente la consegna.

Questa Corte di recente ha gia’ avuto modo di pronunciarsi sulla natura obbligatoria di questa ipotesi di rifiuto in un caso in cui il giudice di merito, accedendo ad un’interpretazione adeguatrice della citata norma nei medesimi termini esposti nella sentenza ora in esame, aveva rifiutato la consegna (Sez. 6, n. 5549 del 01/02/2018, Manco, non ancora massimata).

In tal caso, la Suprema Corte ha escluso che si potesse accogliere una siffatta esegesi, sul rilievo che la formulazione del motivo di rifiuto in questione nella legge sul mandato di arresto Europeo, in termini espressamente obbligatori, non evidenziava alcun “insanabile contrasto” con la disposizione contenuta nella decisione quadro del 2002, che ha invece adottato una formula di tipo “elastico” (“L’autorita’ giudiziaria dell’esecuzione puo’ rifiutare di eseguire il mandato d’arresto Europeo… se il mandato d’arresto Europeo riguarda reati.. che dalla legge dello Stato membro di esecuzione sono considerati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in un luogo assimilato al suo territorio”), cosi’ consentendo ad ogni Stato, in sede di adattamento, di optare per il regime ritenuto piu’ compatibile con il proprio ordinamento.

Piuttosto, secondo la Corte di legittimita’, la diretta applicazione della norma Europea avrebbe avuto l’effetto di lasciare del tutto indefinita la facolta’ di rifiuto attribuita al giudice italiano, stante la totale assenza di specificazioni circa l’ambito di discrezionalita’ da riconoscere all’autorita’ giudiziaria dello Stato di esecuzione.

Nel citato arresto, la Suprema Corte ha infatti escluso che l’interpretazione proposta dai giudici di merito potesse trovare accoglimento, facendo leva sulla disciplina concernente la prevenzione e la risoluzione di conflitti di giurisdizione penale tra i Paesi dell’Unione Europea, intervenuta successivamente alla decisione quadro del 2002 in tema di mandato di arresto Europeo (ed alla L. n. 69 del 2005), posto il Decreto Legislativo n. 29 del 2016, contenente la relativa normativa di adattamento, prevede sia specifiche competenze, di natura giurisdizionale ma anche politica, sia lo svolgimento di un articolato iter procedimentale ai fini della decisione di concentrare il procedimento penale in altro Stato membro, da concludere con una sentenza di improcedibilita’ dell’azione penale in Italia.

La decisione di “trasferire” il procedimento penale per il quale sussiste anche la giurisdizione italiana con la sentenza che decide sulla richiesta di consegna in esecuzione di mandato di arresto Europeo verrebbe pertanto ad implicare una violazione delle competenze, delle procedure e delle articolate valutazioni previste dal Decreto Legislativo n. 29 del 2016 in presenza di procedimenti penali paralleli.

Coerentemente a questo quadro normativo, un limite al divieto di consegna di cui alla L. n. 69 del 2005, articolo 18, comma 1, lettera p), e’ stato individuato dalla Suprema Corte piuttosto nel caso in cui, nel rispetto delle competenze e procedure previste dal Decreto Legislativo n. 29 del 2016, sia stato raggiunto un accordo sulla concentrazione dei procedimenti penali e sia stata pronunciata, dal giudice del procedimento o del processo, sentenza di improcedibilita’ dell’azione penale in Italia.

4.2. Nel ribadire che il motivo di rifiuto in esame ha natura obbligatoria, il Collegio intende peraltro effettuare alcune precisazioni, a corollario dei principi ora esposti.

Come si e’ accennato poc’anzi e come ha piu’ volte evidenziato la giurisprudenza di legittimita’, il suddetto motivo di rifiuto corrisponde ad una tradizionale ipotesi di rifiuto dell’estradizione prevista dai trattati in materia.

Non si e’ mancato di osservare che costituiva ius receptum nell’esegesi di legittimita’ che la commissione del reato in Italia non escludeva la concorrente giurisdizione straniera, ne’ impediva l’estradizione fondata sulla Convenzione Europea del 1957, in virtu’ della quale siffatta ipotesi puo’ dar luogo solo al rifiuto facoltativo di estradizione (ex articolo 7), che non e’ di competenza dell’autorita’ giudiziaria, ma che rientra nelle attribuzioni esclusive del Ministro della Giustizia (tra tante, Sez. 6, n. 9119 del 25/01/2012, Topi, Rv. 252040).

Quindi la tutela della riserva di giurisdizione, in ambito estradizionale, restava confinata in una dimensione squisitamente politica, rilevando in sede giurisdizionale soltanto i casi in cui fosse gia’ pendente nello Stato un procedimento penale per i medesimi fatti ovvero che lo stesso si fosse concluso con sentenza irrevocabile (ex articoli 8 e 9 della Convenzione Europea cit. e articolo 705 c.p.p., comma 1), entrambi costituenti ipotesi necessariamente ostative alla estradizione.

La scelta operata dal codice di rito di non annoverare tra le ipotesi ostative all’estradizione anche quella del reato commesso nel territorio dello Stato trovava la sua ratio nei rapporti tra giurisdizioni statuali, che non impediva in via di principio la creazione di procedimenti penali “paralleli” per il medesimo fatto.

Pertanto, era rimesso alle valutazioni di opportunita’ da effettuarsi in relazione al caso concreto stabilire l’esistenza di un vulnus all’esercizio della giurisdizione italiana derivante dalla disposta estradizione di una persona per un reato commesso sul territorio dello Stato.

Invero, in linea generale la mancata materiale disponibilita’ della persona non impedisce di perseguirla in ordine a tale fatto, potendo farsi luogo ad un processo di tipo contumaciale, salvo poi pervenire ad un giudicato di condanna a pena detentiva non eseguibile senza la presenza fisica dell’interessato.

Il quadro in sede Europea e’ mutato con il riconoscimento del principio del ne bis in idem con la Convenzione di Schengen del 19 giugno 1990: nell’assetto dei rapporti tra Stati dell’Unione Europea, una volta giudicata una persona con sentenza definitiva in uno Stato membro, la stessa non puo’ essere piu’ sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in altro Stato a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente di condanna, non possa piu’ essere eseguita (articolo 54).

Il che significa che, una volta consegnata la persona perche’ sia giudicata per un reato commesso in parte sul territorio dello Stato richiedente e dello Stato richiesto (situazione questa che non legittima alcuna riserva al principio del ne bis in idem, ai sensi dell’articolo 55 della Convenzione di Schengen), quest’ultimo Stato avra’ ben limitate chance per esercitare la propria giurisdizione concorrente, potendo la stessa essere paralizzata, ancor prima della conclusione del giudizio, dalla preclusione derivante dal giudicato nel frattempo formatosi all’estero.

In questa prospettiva, la scelta operata dal legislatore in sede di adattamento alla decisione quadro sul mandato di arresto Europeo di prevedere in forma obbligatoria il rifiuto della consegna in siffatte ipotesi appare coerente con il diverso assetto dei rapporti tra giurisdizioni concorrenti derivante dalla disciplina suddetta, in funzione di una tutela “avanzata” del principio di sovranita’.

Peraltro, il rifiuto della consegna non impedisce allo Stato di emissione di procedere egualmente in ordine al fatto commesso nel territorio italiano, ben potendo, come si e’ detto, perseguire l’imputato in contumacia (nulla impedisce infatti al suddetto Stato di procedere alle notifiche a mezzo posta, come prevedono le fonti pattizie applicabili in ambito Europeo, ne’ le notificazioni eseguite per altra via sono ostacolabili a motivo della litispendenza, come si evince dall’articolo 726-bis c.p.p.) e pervenire ad un giudicato che rischia comunque di inibire la prosecuzione del procedimento penale nazionale.

Va a tal riguardo rammentato che l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che ha riconosciuto il principio del ne bis in idem quale garanzia generale da invocare nello spazio giuridico Europeo (Sez. 6, n. 54467 del 15/11/2016, Resneli, Rv. 268931), ogni qualvolta il caso sottoposto al giudice nazionale presenti un elemento di collegamento con il diritto dell’Unione, ha una portata piu’ ampia della norma pattizia sopra indicata, sancendo il diritto di non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso reato (“nessuno puo’ essere perseguito o condannato per un reato per il quale e’ gia’ stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”), eliminando quindi tanto la condizione della esecuzione (anche in corso) della pena quanto le riserve previste dalla precedente normativa.

Conseguentemente, in presenza di reati, quali quelli di criminalita’ organizzata, la cui repressione trova la sua fonte nel diritto dell’Unione Europea (cfr. la decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio del 24 ottobre 2008 relativa alla lotta contro la criminalita’ organizzata) e che si realizzano tipicamente in una dimensione transnazionale, il mero rifiuto della consegna non viene di per se’ a tutelare la riserva di giurisdizione dello Stato di rifugio, con l’effetto perverso di poter disporre fisicamente dell’imputato, ma di non poterlo poi giudicare o sottoporre a sanzione a causa del ne bis idem. In tal modo, il rischio dell’applicazione generalizzata della causa di rifiuto potrebbe condurre paradossalmente all’impunita’ di fatto della persona.

La esigenza di coordinare l’esercizio dell’azione penale in presenza di reati coinvolgenti piu’ Stati dal punto di vista territoriale era stata gia’ avvertita dall’Unione Europea, tanto da gia’ prevedere in nuce nella ora citata decisione quadro del 2008 un meccanismo per consentire di “accentrare” il procedimento penale in un unico Stato membro.

Meccanismo che ha trovato poi nella decisione quadro del 2009 sulla prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali la sua puntuale disciplina.

4.3. Orbene, tirando le fila del discorso, lâEuroËœesegesi della disposizione di cui alla L. n. 69 del 2005, articolo 18, comma 1, lettera p), non puo’ prescindere da un lato dall’incidenza del principio del ne bis in idem e dall’altro dalla disciplina dettata dalla decisione del 2009 ora citata.

Invero, come si visto, una indiscriminata tutela della riserva di giurisdizione in presenza di quel “frammento” della condotta sufficiente, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimita’, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana, ai sensi dell’articolo 6 c.p., comma 2, potrebbe non sortire alcun effetto sul concreto esercizio della giurisdizione stessa, a causa del ne bis in idem, con l’effetto tuttavia di paralizzare tout court il meccanismo di consegna.

Inoltre, la soluzione prefigurata da precedenti arresti di legittimita’, secondo cui ogni qual volta il giudice italiano rifiuti la consegna, a tutela della giurisdizione territoriale, sia tenuto a trasmettere conseguentemente gli atti alla Procura della Repubblica territorialmente competente per i seguiti di competenza in ordine ai suddetti fatti, risulta contraria alle finalita’ della citata decisione quadro del 2009, nella misura in cui il rifiuto della consegna viene esso stesso a costituire il presupposto per dar vita ad un procedimento penale parallelo “superfluo”, nell’ottica dell’Unione Europea.

Come ha chiarito la suddetta decisione quadro, “nello spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia il principio di obbligatorieta’ dell’azione penale, che informa il diritto processuale in vari Stati membri, dovrebbe essere inteso e applicato in modo da ritenerlo soddisfatto quando ogni Stato membro garantisce l’azione penale in relazione ad un determinato reato”.

Invero, la decisione quadro si prefigge non solo di indicare le modalita’ per risolvere consensualmente il conflitto di giurisdizione tra Stati membri in presenza di “procedimenti paralleli” gia’ in corso, ma anche significativamente si rivolge agli Stati membri affinche’ siano evitati “procedimenti penali paralleli superflui che potrebbero determinare la violazione del principio del ne bis in idem”.

Quindi, deve ritenersi che anche la applicazione della disciplina sul mandato di arresto Europeo, in conformita’ di quanto stabilisce la decisione quadro del 2009, “non dovrebbe dar luogo ad un conflitto nell’esercizio della giurisdizione che altrimenti non si verificherebbe”, non potendo la mera esecuzione del mandato di arresto Europeo dar vita essa stessa ad un procedimento penale che si riveli superfluo, in quanto gia’ lo Stato membro di emissione garantisce l’azione penale in relazione a quel determinato reato.

Il che significa, coerentemente con quanto gia’ affermato da questa Corte con la sentenza n. 5549 del 01/02/2018, Manco, cit., che solo l’esistenza nello Stato di un procedimento penale parallelo per il fatto, oggetto del mandato di arresto Europeo, commesso in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo assimilato al suo territorio, giustifica il rifiuto della consegna ai sensi dell’articolo 18, lettera p), in quanto in tal caso la soluzione del conflitto (gia’ esistente e non meramente potenziale) deve trovare necessaria soluzione nel meccanismo disciplinato dalla decisione quadro del 2009 e dal Decreto Legislativo n. 29 del 2016.

In tal caso il rifiuto della consegna viene effettivamente a tutelare le prerogative dello Stato di esecuzione in funzione della composizione del conflitto (non impedendo, e’ bene precisare, una successiva richiesta di consegna per il medesimo fatto, nel caso di accordo sulla concentrazione del procedimento nello Stato membro di emissione).

La lettura ora proposta della norma non verrebbe in ogni caso a duplicare l’ipotesi di rifiuto prevista dalla lettera o) dell’articolo 18 cit., che riguarda la diversa ipotesi di reato non commesso neppure in parte nello Stato (in tal senso si era espresso il Consiglio di Europa con riferimento all’analogo motivo di rifiuto previsto dall’articolo 8 della Convenzione Europea di estradizione, cfr. Rapporto esplicativo, pag. 8) e comunque di reato del tutto sovrapponibile a quello oggetto del mandato di arresto Europeo, nel caso in cui sia “in corso un procedimento penale in Italia”. Evenienza questa che si realizza, a differenza della ipotesi di cui alla lettera p) cit., solo quando e’ stata esercitata l’azione penale ovvero e’ stata emessa un’ordinanza applicativa della custodia cautelare (cfr. in tema di estradizione, tra le tante, Sez. 6, n. 26290 del 28/05/2013, Paredes Morales, Rv. 256565).

4.4. Va infine aggiunto un ulteriore tassello a giustificazione dell’esegesi ora accolta dell’articolo 18, lettera P).

La Corte di giustizia, con riferimento alle ipotesi di rifiuto della consegna previste dalla decisione quadro del 2002, ha avuto modo di chiarire (sentenza 29 giugno 2017, C-579/15) che, laddove sia previsto il rifiuto della consegna in funzione della priorita’ data alla giustizia nazionale (nella specie, per consentire l’esecuzione nello Stato della pena oggetto del mandato di arresto Europeo), lo Stato di esecuzione non puo’ rifiutare la consegna solo sulla astratta possibilita’ di esercitare la suddetta opzione, ovvero senza aver proceduto prima del rifiuto alla verifica in concreto della “presa in carico” dell’azione (nella specie esecutiva). Diversamente, si verrebbe a creare un rischio di impunita’ del ricercato, che non puo’ essere considerato conforme alla citata decisione quadro.

Invero, la ipotetica ed astratta rappresentazione al giudice della consegna della commissione nel territorio dello Stato di quel “frammento” della condotta sufficiente, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimita’, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana, ai sensi dell’articolo 6 c.p., comma 2, porterebbe quindi anche ad un’interpretazione che non assicura la piena efficacia della decisione quadro nel senso ora precisato.

Ne’ la verifica richiesta dalla Corte di giustizia puo’ trasformare la natura del controllo affidato allo Stato di esecuzione che, considerati anche i tempi contratti che la contraddistinguono, non puo’ sfociare giammai nell’esame del merito dei fatti contestati (Sez. U, n. 4614 del 30/01/2007, Ramoci, Rv. 235348), con l’acquisizione dell’intero dossier processuale straniero al fine di stabilire con affidabile certezza l’effettiva consumazione anche parziale del reato sul territorio dello Stato.

Invero l’unico riferimento in possesso del giudice nazionale per valutare la territorialita’ del reato resta pur sempre la relazione trasmessa dallo Stato richiedente (o gli atti ad essa equipollenti, tra le tante, Sez. 6, n. 38850 del 20/10/2011, Estrada Ortiz, Rv. 250793), nella quale sono contenute sintetiche informazioni, funzionali a consentire il “controllo sufficiente” richiesto dalla decisione quadro, in ordine alle quali, come osservato dalla dottrina, lo Stato di emissione non ha vieppiu’ spesso alcun interesse a far emergere dati fattuali idonei a far radicare all’estero la commissione di parte della condotta illecita.

4.5. Venendo quindi al caso in esame, la censura del ricorrente non puo’ essere accolta, in quanto, come emerge dalla sentenza impugnata e dalle stesse allegazioni difensive, la applicazione dell’articolo 6 c.p., comma 2 e’ stata prospettata in termini solamente astratti, senza che risulti alcuna iniziativa investigativa in atto in Italia sui fatti (diversi da quelli per i quali si procede in Italia) oggetto del mandato di arresto Europeo.

5. Sulla base di quanto premesso, il ricorso va rigettato con le conseguenze di legge.

La Cancelleria provvederà alle comunicazioni di rito.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, articolo 22, comma 5.