Mette la moglie in auto per appartarsi e la costringe a un rapporto intimo. Violenza sessuale.

(Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 10 marzo 2016, n. 9937)

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa in data 21/01/2015, depositata in data 13/05/2015, la Corte d’appello di GENOVA, confermava la sentenza del tribunale di GENOVA del 30/05/2014 che aveva condannato G.F. per il reato di violenza sessuale, lesioni aggravate e sequestro di persona ai danni della moglie, escludendo l’aggravante contestata dei nesso teleologico, con il concorso di atte­nuanti generiche equivalenti alle contestata aggravanti e ritenuta la continuazio­ne tra i reati ascritti (fatti contestati come commessi in data 17/01/2014 con le modalità esecutive e spazio – temporali meglio descritte nelle imputazioni), alla pena di 6 anni di reclusione, oltre le pene accessorie di legge.

2. Ha proposto ricorso G.F. a mezzo dei difensori fiduciari cassazionisti, impugnando la sentenza predetta con cui deduce quattro motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., sotto il profilo della violazione di legge in relazione all’art. 609 bis cod. pen. In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricor­rente, la sentenza impugnata avrebbe anzitutto errato nella qualificazione giuridica del fatto come integrante gli estremi dei reato di violenza sessuale; dopo aver ricordato i principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità al fine di ritene­re configurati gli estremi del reato in questione, il ricorrente sostiene che nel ca­so in esame difetterebbe il requisito della minaccia, mancando non solo la prova della stessa – peraltro fondata sulle inattendibili e contraddittorie dichiarazioni ella p.o. – ma anche la idoneità della minaccia a coartare la volontà della vittima; secondo la tesi accusatoria, l’uomo avrebbe concretizzato la minaccia verso la moglie costringendola a subire gli atti sessuali mediante l’utilizzo di due siringhe perfettamente sigillate una delle quali con l’ago spezzato; tale modalità sarebbe dei tutto inidonea a concretizzare il requisito della minaccia, attesa l’inoffensività di tali strumenti ed essendo gli stessi inidonei a creare in capo alla p.o. alcun turbamento; altro errore commesso dai giudici di merito consisterebbe nell’aver gli stessi scorrettamente ritenuto esistente il dissenso esplicito della p.o. all’atto sessuale (sul punto il ricorrente sostiene, anzi, che i due coniugi, dopo aver rag­giunto con l’autovettura la località Piani di Paglia avrebbero iniziato a scambiarsi effusioni che escludevano in radice la esistenza di un dissenso, aggiungendo i­noltre che la moglie avrebbe addirittura “apparecchiato” i sedili posteriori dell’autovettura per congiungersi carnalmente con il marito); la mancanza del dissenso rispetto all’atto sessuale, poi, sarebbe desumibile dall’assenza di lesioni in sede dì visita medica, assenza che avrebbe riguardato sia l’organo genitale della moglie che l’ano, ciò a dimostrazione della totale assenza di coercizione, tenuto conto anche dell’età della vittima dalla quale sarebbe conseguita “una fi­siologica e scarsa lubrificazione” che, ove la violenza vi fosse stata, avrebbe ne­cessariamente reso visibili le tracce.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., sotto il profilo della violazione di legge in relazione all’art. 605 cod. pen.

In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricor­rente, la sentenza impugnata avrebbe poi errato nella qualificazione giuridica dei fatto come integrante gli stremi del reato di sequestro di persona; dopo aver ri­cordato i principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità per ritenere configu­rabile tale delitto, sostiene il ricorrente che dalla ricostruzione processuale del fatto storico non emergerebbero elementi tali da ritenere sussistente il requisito, anzitutto, della mancata capacità di movimento della p.o., avendo infatti la don­na ha sempre mantenuto la propria libertà, come dimostrato dal fatto che la stessa, durante una sosta ad un semaforo, era scesa dall’auto senza dunque che vi fosse stata alcuna sudditanza rispetto al marito; inoltre, difetterebbe l’ulteriore requisito per il quale la libertà personale debba protrarsi per un intervallo temporale apprezzabile; infine, ove si ritenessero integrati gli stremi di tale delitto, quest’ultimo avrebbe dovuto ritenersi assorbito in quello di violenza sessuale, posto che il breve tratto di tempo era meramente strumentale alla consumazione dei delitto di violenza sessuale.

2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. d), cod. proc. pen., sotto il profilo della mancata assunzione della prova decisiva costituita dal­le dichiarazioni di due testi (D. P. e M. B.).

In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente negato l’assunzione di due prove testimoniali che apparivano decisive; in particolare, i giudici avevano negato l’ammissione di detti testi affermando che le prove non attenessero ai fatti di causa, né si vede quale diversa lettura della vicenda avrebbero dovuto apportare le loro dichiarazioni, nella tesi difensiva rivolte a dimostrare la credibi­lità dell’imputato; diversamente, sostiene il ricorrente, la loro audizione avrebbe avuto risvolti consistenti nella valutazione dei fatti, in quanto gli stessi avrebbero dovuto deporre non solo sulla partecipazione dei ricorrente alle gare di automodellismo, ma avrebbero soprattutto confermato che le siringhe rinvenute nell’autovettura dell’imputato si trovavano lì in quanto solitamente utilizzate per iniettare il collante sulle gomme dei modellini di automobili, e che pertanto le stesse non erano state riposte nell’autovettura dal ricorrente al fine di essere uti­lizzate come mezzo atto ad intimidire la moglie per costringerla all’atto sessuale.

2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., sotto il profilo del vizio di mancanza di motivazione in ordine alla negata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in merito alla testimonianza della p.o. In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricor­rente, la sentenza impugnata, nel rigettare la richiesta di rinnovazione istruttoria dell’esame della p.o., non avrebbe tenuto conto della diverse e abbondanti con­traddizioni in cui la stessa era incorsa; i giudici si sarebbero appiattiti sulle risul­tanze della prima sentenza, attraverso il richiamo integrale della motivazione in punto di attendibilità e credibilità della p.o., senza produrre alcuno sforzo argo­mentato sul punto e, quindi, senza alcuna argomentazione esaustiva sulle ragio­ni per le quali la p.o. fosse credibili, soggettivamente ed oggettivamente.

Considerato in diritto

3. II ricorso è manifestamente infondato.

4. Seguendo la struttura dell’impugnazione proposta in sede di legittimità, dev’essere anzitutto esaminato il primo motivo, con cui si censura la sentenza per aver ritenuto configurabile il reato di violenza sessuale, in particolare con ri­ferimento all’idoneità delle “siringhe” a determinare la coartazione della volontà della vittima nonché quanto alla manifestazione del dissenso della donna agli ap­procci sessuali dei marito.

Sul punto, la Corte d’appello motiva puntualmente ed adeguatamente, lungi dal procedere mediante mero rinvio per relationem alla motivazione della sentenza del primo giudice, chiarisce le ragioni per le quali il reato era da ritenersi confi­gurabile; in particolare, vengono qui in rilievo le considerazioni espresse a pag. 7 della sentenza impugnata nonché quanto chiarito, sempre alla medesima pagina, a proposito della confutazione della tesi difensiva dell’inverosimiglianza del ten­tativo di fuga della persona offesa. I giudici, segnatamente, evidenziano come la donna fosse stata indotta all’acquiescenza dalle minacce palesate anche dalla presenza delle siringhe che il marito le aveva riferito contenere veleno per cani (siringhe il cui contenuto poi ebbe a rivelare la presenza di un farmaco di libera vendita, circostanza che ovviamente la donna non poteva conoscere); ciò, sotto­linea la Corte, non poteva certamente togliere valenza intimidatoria al fatto, data l’apparenza creata dalle dichiarazioni dell’uomo alla presenza del veleno all’interno delle siringhe che avrebbe usato per uccidere la moglie e il suocero (osservando peraltro la Corte d’appello come fosse del tutto priva di pregio la te­si dei ricorrente secondo cui il contenuto delle siringhe, costituito da un farmaco, fosse utilizzato come collante delle gomme di modellini di automobili); analoga­mente quanto al tentativo di fuga della donna, merita qui di precisare che la vi­cenda aveva avuto inizio con quanto oggetto di diretta percezione da parte di due automobilisti che avevano notato la donna tentare dì fuggire ai marito scen­dendo dall’auto, all’interno della quale veniva ricondotta a forza da quest’ultimo, tanto da avvisare i carabinieri di quanto stesse accadendo; l’uomo, peraltro, do­po aver costretto la moglie a risalire in auto, l’aveva condotta in un luogo isolato e, sotto minaccia, l’aveva costretta a consumare un rapporto sessuale con lui, nonostante il dissenso della donna.

La sentenza, sul punto, dunque, ricostruisce con linearità e precisione lo svolgimento cronologico – fattuale della vicenda, in­dividuando poi gli elementi a riscontro dell’attendibilità della p.o. e confutando puntualmente tutti gli argomenti dedotti dalla difesa a sostegno della tesi (inve­rosimiglianza tentativo di fuga della vittima; assenza di lesioni vaginali).

Trattasi, quindi, all’evidenza di motivo generico in quanto non si confronta criti­camente con la motivazione della sentenza impugnata, che aveva risposto ade­guatamente e con motivazione immune da vizi logici alle doglianze difensive svolte nell’atto di appello.

Ed è pacifico, sul punto, che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate e ritenute infondate dal giudice dei gravame o che risultano carenti della necessaria corre­lazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).

II motivo, inoltre, si presenta manifestamente infondato, perché si risolve nel tentativo di chiedere a questa Corte una rivaluta­zione in fatto della vicenda, censurando la ricostruzione fattuale operata dai giu­dici di appello e l’approdo valutativo cui gli stessi sono pervenuti, con motivazio­ne non manifestamente illogica.

Le censure del ricorrente, conclusivamente, più che censurare un vizio di motivazione o di violazione di legge, in realtà si risol­vono nella manifestazione di un dissenso sulla ricostruzione dei fatti e sulla valu­tazione probatoria operata dalla Corte d’appello, operazione non consentita in questa sede di legittimità.

Sul punto non va infatti dimenticato che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di veri­ficare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni pro­cessuali.

Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettu­ra” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vi­zio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più a­deguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997 – dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999 – dep. 16/12/1999, Spina, Rv. 214794, quanto ai limiti di deducibili­tà del vizio di illogicità della motivazione; Sez. U, n. 47289 dei 24/09/2003 – dep. 10/12/2003, Petrella, Rv. 226074).

5. Non miglior sorte merita il secondo motivo, con cui si svolgono censure affe­renti al difetto dei requisiti per ritenere configurabile il delitto di sequestro di persona.

La Corte d’appello, sul punto, motiva adeguatamente richiamando anche corret­tamente la giurisprudenza di questa Corte a sostegno della configurabilità dei concorso con il reato di violenza sessuale. In particolare, come si legge alle pagg. 8 e 9 dell’impugnata sentenza, la donna venne costretta per tre volte dal marito, con spinte e trascinamento, a risalire sull’auto con cui venne poi condot­ta sul luogo di consumazione della violenza sessuale; l’unica possibilità di assor­bimento dei reato di cui all’art. 605, cod. pen. in quello di violenza sessuale è collegato al dato temporale dell’assoluta contestualità delle due condotte e al rapporto di strumentalità esistente tra di esse, nel senso che la limitazione della libertà di movimento della vittima è funzionale al compimento degli atti di costri­zione attraverso cui si realizza la violenza sessuale, nei casi in cui sia perpetrata con violenza e non con minaccia.

Orbene, osservano correttamente i giudici di appello, nel caso in esame a nulla vale il rilievo che il trasporto forzato della vit­tima nel luogo appartato in cui si è consumata la violenza sessuale fosse comun­que preparatorio della stessa e, dunque, suscettibile di esserne assorbito: nelle fasi che hanno preceduto la costrizione del rapporto, infatti, il trasporto in auto della donna per raggiungere il luogo isolato in cui è stata violentata costituisce lesione di un bene giuridico diverso e non sovrapponibile a quello della libertà sessuale, ossia la libertà di movimento, lesione suscettibile di concorrere con la violenza sessuale.

Trattasi, come detto, di motivazione del tutto immune da vizi logici e giuridica­mente corretta, mostrando i giudici di appello di fare buon governo del principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui in tema di concorso di reati, il delitto di sequestro di persona concorre con quello di violenza sessuale di grup­po, allorquando la privazione della libertà di movimento della vittima si protrae oltre il tempo strettamente necessario al compimento degli atti di violenza ses­suale, a nulla rilevando che l’impedimento ad allontanarsi sia precedente, conte­stuale o successivo allo svolgersi delle violenze (da ultimo: Sez. 3, n. 967 del 26/11/2014 – dep. 13/01/2015, P. e altro, Rv. 261638).

6. Possono essere, infine, esaminati congiuntamente – attesa l’omogeneità dei profili di doglianza ad essi sottesi – gli ultimi due motivi di ricorso.

6.1. Quanto all’omessa valutazione delle prove testimoniali ritenute asseritamente decisive ad escludere dei tutto la fondatezza dell’accusa, rileva quanto ar­gomentato dalla Corte d’appello a pag. 9 dell’impugnata sentenza. I giudici di appello evidenziano sul punto come dette prove non attingono ai fatti di causa né si vede quale diversa lettura della vicenda avrebbero dovuto apportare le loro dichiarazioni, senso la tesi difensiva rivolte a dimostrare la credibilità dell’imputato.

Non può, a giudizio del Collegio, ritenersi censurabile tale argo­mentazione, essendo all’evidenza palese l’assoluta inconsistenza del tema, og­getto di esame su cui i testi avrebbero dovuto deporre, laddove si consideri che, quand’anche gli stessi avessero confermato che le due siringhe si trovavano all’interno dell’auto dei ricorrente, ciò non avrebbe avuto alcuna incidenza sulla valenza intimidatoria del loro uso da parte dell’imputato in quel contesto spaio – temporale sopra descritto, come del resto bene spiegato a pag. 7 della sentenza e, comunque, essendo condivisibili le argomentazioni dei giudici territoriali quan­to all’inattendibilità della spiegazione da parte del ricorrente circa l’uso di un me­dicinale come collante per le gomme dei modellini di automobili.

Si rileva, in ogni caso, come dette testimonianze difettassero del requisito della decisività, non potendo certo definirsi le stesse come prove che, confrontate con le argomentazioni contenute nella motivazione, si rivelino tale da dimostrare che, ove esperite, avrebbero sicuramente determinato una diversa pronuncia.

Deve, infatti, essere qui ribadito che II ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l’o­messa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’i­nammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fat­tuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motiva­zione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo dei provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 45036 dei 02/12/2010 – dep. 22/12/2010, Damiano, Rv. 249035).

Nulla di tutto ciò si rileva nel caso in esame, donde il motivo si appalesa inammissibile.

6.2. Quanto, infine, alla censura di omessa rinnovazione istruttoria in relazione alla deposizione della vittima, oltre a condividersi sul punto quanto sottolineato a pag. 10 della sentenza impugnata a confutazione dell’identica censura sollevata nei motivi di appello (nel senso che la pretesa incompletezza dell’istruttoria di­battimentale riposerebbe sull’affermazione del mancato apprezzamento, da parte del primo giudice, delle contraddizioni in cui sarebbe incorsa la p.o. e della sua conseguente inattendibilità, circostanza smentita dalle risultanze processuali) è sufficiente in questa sede rilevare l’assoluta genericità del motivo di ricorso che si limita a svolgere una censura puramente contestativa in ordine alle ragioni per le quali la Corte d’appello avrebbe ritenuto la persona offesa credibile, senza svolgere invece – come sarebbe stato necessario una critica puntuale su “speci­fici” punti della sentenza, in relazione alle doglianze sollevate.

E’ dunque ravvisabile, in relazione a tale motivo, il vizio di genericità per aspecificità; in ogni caso, rileva il Collegio, trattasi di motivo manifestamente infondato, attesa l’esistenza di plurimi elementi di riscontro al narrato della persona of­fesa, in particolare quanto all’episodio della violenza sessuale, essendo già suffi­ciente a sorreggerne l’attendibilità quanto riferito dai due testi oculari che, assistendo alla violenta aggressione dell’uomo ai danni della p.o. e alla costrizione da questi esercitata all’indirizzo della vittima per farla risalire in macchina, ve­dendo la donna chiedere aiuto, avvisarono i carabinieri che intervennero poi perquisendo l’autovettura e rinvenendo le siringhe, una delle quali con l’ago rotto, piene di liquido bianco, elementi questi che non lasciano alcun dubbio sulla ri­spondenza al vero di quanto dichiarato dalla vittima nella ricostruzione dell’episodio, relegando al rango di labiale e incredibile affermazione il vano ten­tativo del ricorrente di sostenere che la donna avesse addirittura “apparecchiato” il sedile posteriore dell’auto per rendere più agevole il rapporto sessuale, a con­ferma dell’assenza di qualsiasi dissenso della stessa all’atto o, ancora, che l’assenza di lesioni anali o vaginali sarebbe stata incompatibile con una violenza e con l’età e la scarsa lubrificazione delle parti intime della donna.

Non deve, sul punto, essere dimenticato che il giudice dei fatto può liberamente valutare, nella sfera della propria discrezionalità, anche la sola deposizione della persona offesa e fondare su di essa la propria decisione, sempreché abbia cura di fornire le ragioni della sua attendibilità.

E, quando il giudice, come nel caso di specie, abbia indicato gli elementi logici e giuridici per i quali l’abbia ritenuta ve­ritiera e degna di credibilità, il relativo giudizio è insindacabile in sede di legitti­mità, in quanto il suo esame verterebbe sulla valutazione della prova, operazione vietata davanti alla Corte di Cassazione.

7. II ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile.

All’inammissibilità segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricor­rente al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di somma che si stima equo fissare, in euro 1000,00 (mille/00).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.