Minacce rivolte alla madre del suo debitore: condannato anche se la donna non ha sporto querela (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 23 febbraio 2023, n. 8139).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZAZA Carlo – Presidente –

Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –

Dott. SESSA Renata – Rel. Consigliere –

Dott. BIFULCO Daniela – Consigliere –

Dott. FRANCOLINI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) MASSIMILIANO nato a ROMA il 19/07/19xx;

avverso la sentenza del 09/05/2022 della CORTE APPELLO di ANCONA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere dott.ssa RENATA SESSA;

il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, dott. GIOVANNI DI LEO, ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso;

il difensore dell’imputato, ha insistito nell’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 9.5.2022 la Corte di Appello di Ancona ha confermato la pronuncia emessa in primo grado nei confronti di (OMISSIS) Massimiliano, che lo aveva dichiarato colpevole del reato di minaccia grave.

2. Ricorre per cassazione l’imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo quanto segue.

Nel caso di specie la condotta dell’imputato, (OMISSIS) Massimiliano, non integra il delitto di cui all’art. 612, comma 2, c.p. in quanto la frase accertata in sentenza, quant’anche pronunciata, integra al più la fattispecie dell’art. 612, comma 1, c.p. nei confronti della sola sig.ra (OMISSIS) Natalia la quale non ha sporto querela.

Affinché le circostanze contestuali fossero tali per attribuire l’aggravante del comma secondo, la Corte distrettuale avrebbe dovuto in sentenza descrivere compiutamente tali circostanze e spiegare come potessero aggravare il reato.

Al contrario la Corte distrettuale ha ritenuto sufficiente la frase indicata nella sentenza di primo grado, attribuita all’imputato, del tutto difforme rispetto a quella contestata – “[….] minacce con cui veniva affermato che se teneva al proprio figlio doveva aprire la porta e soprattutto veniva minacciata che avrebbero bruciato la casa” – senza ulteriormente indagare, laddove ciò sarebbe stato necessario per ritenere l’applicabilità del secondo comma nel caso di specie ove non si configurano aggravanti ex art. 339 c.p., in ultimo anche per l’applicazione della congrua pena.

Tale lacuna processuale deve condurre — come precisato in sede di conclusioni rassegnate con la memoria in atti – all’assoluzione perché il fatto non sussiste, in subordine alla declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela da parte di (OMISSIS) Natalia, in ulteriore subordine al rinvio ad altra corte di appello per supplemento di istruttoria sulle circostanze contestuali del fatto affinché possa stabilirsi se sussistano le circostanze per definire il reato aggravato, e di stabilire quindi l’equa pena.

3. Il ricorso è stato trattato, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n.176, senza l’intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso; il difensore dell’imputato ha insistito nell’accoglimento del ricorso, precisando ulteriormente le precedenti conclusioni.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

Il ricorso estrapola una parte della motivazione della sentenza di primo grado e sulla base di essa assume che la minaccia attribuita in sentenza è diversa da quella contestata, assumendo tra l’altro che essa era stata rivolta nei confronti della madre della persona offesa che non ha proposto querela; laddove la Corte di appello ha spiegato come la minaccia fosse in realtà in maniera evidente diretta soprattutto nei confronti del figlio di (OMISSIS) Natalina, (OMISSIS), debitore dell’imputato, che sebbene non presente al momento della pronuncia della frase minacciosa, ne era l’effettivo destinatario; di fatto era minacciata anche la madre convivente proprietaria della casa che si era minacciato di incendiare, ma il Tribunale in sede di determinazione della pena non faceva alcun riferimento alla duplicità della valenza della minaccia, né alla duplicità delle persone offese, sicché il motivo è nel suo complesso generico.

La Corte di Appello ha invero anche precisato che il fatto che la minaccia non sia stata direttamente percepita dalla persona offesa non rilevi, tenuto conto che, secondo l’orientamento di questa Corte, “ai fini della configurabilità del delitto di minaccia non è necessario che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest’ultima venirne a conoscenza anche attraverso altri, in un contesto dal quale possa desumersi la volontà dell’agente di produrre l’effetto intimidatorio”; ed ha opportunamente aggiunto che risulta del resto evidente che l’imputato — unitamente al suo correo — abbia espresso le minacce nei confronti della madre di (OMISSIS) affinché la donna le riferisse al figlio.

Quanto alla gravità della minaccia, è vero che ai fini della sua configurabilità rileva l’entità del turbamento psichico determinato dall’atto intimidatorio sul soggetto passivo, che va accertata avendo riguardo non soltanto al tenore delle espressioni verbali profferite ma anche al contesto nel quale esse si collocano (Sez. 5, n. 8193 del 14/01/2019, Rv. 275889 — 01), è altrettanto vero che sia il tenore che il contesto non possono ritenersi pretermessi nella valutazione dei giudici di merito che hanno fatto espresso riferimento non solo alla gravità del male minacciato — insita nella minaccia di bruciare la casa — ma anche alle circostanze di fatto che hanno accompagnato la sua realizzazione, avendo tra l’altro la Corte di Appello, in premessa, evidenziato come quella riportata non fosse, tra l’altro, stata l’unica profferita dall’imputato e dal suo complice e come essa non poter ricondursi a un mero sfogo di due creditori insoddisfatti.

2. Dalle ragioni sin qui esposte deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal medesimo atto impugnatorio, al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000, in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 25/1/2023.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.