Morte del prossimo congiunto: il danno da lesione del rapporto parentale è un danno c.d. presuntivo, non in re ipsa (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 30 agosto 2022, n. 25541).

REPUBBLICA ITALIANA 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 

SEZIONE TERZA CIVILE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere

Dott. SPAZIANI Paolo – Consigliere

Dott. PELLECCHIA Antonella – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23056/2020 proposto da:

(OMISSIS) Paolo, elettivamente domiciliato in Roma Via (OMISSIS) 5 presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) Andrea che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) Liborio;

-ricorrente-

contro

(OMISSIS) Clara;

-intimata-

nonché contro

(OMISSIS) Anna, (OMISSIS) Diego, (OMISSIS) Massimiliana, elettivamente domiciliati ex lege in Roma, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’Avvocato (OMISSIS) Patrizia;

-controricorrenti-

avverso la sentenza n. 1463/2020 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 29/05/2020;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/02/2022 dalla Dott.ssa PELLECCHIA ANTONELLA;

FATTI DI CAUSA

1. La questione trae origine dalla denuncia penale da parte dei familiari di Attilio (OMISSIS) nei confronti del dott. Paolo (OMISSIS), medico di turno al pronto soccorso, per aver errato la diagnosi ed il piano terapeutico, che ha causato il decesso del loro congiunto.

1.1. Il Tribunale di Rimini e la Corte d’Appello di Bologna assolsero l’imputato ritenendo, il primo, insussistente il fatto contestato, la seconda, assente il nesso causale tra la condotta omissiva, sia pure colposa, dell’imputato e la morte del (OMISSIS).

La Corte di Cassazione, investita dei soli capi civili, con sentenza n. 1043 del 15 giugno 2011, annullò la pronuncia del giudice di seconde cure per illogicità della motivazione, rinviando ex art. 622 c.p.p. al giudice civile competente.

2. La causa, pertanto, venne riassunta da Clara (OMISSIS), Anna (OMISSIS), Diego (OMISSIS) e Massimiliana (OMISSIS) dinanzi alla Corte d’Appello civile di Bologna al fine di sentir condannare il Paolo (OMISSIS) al risarcimento dei danni morali, esistenziali e biologici da ciascuno subiti per il decesso del loro familiare.

Istruita la causa mediante CTU medico legale, la Corte d’Appello di Bologna, con sentenza n. 1463/2020 del 29 maggio 2020 ha dichiarato inammissibile la domanda proposta da Chiara (OMISSIS) per difetto di legittimazione attiva, non avendo quest’ultima impugnato né la sentenza del Tribunale di Rimini né quella della Corte d’Appello penale di Bologna; ha, invece, accolto le domande proposte dagli altri attori condannando il (OMISSIS) al pagamento di € 211.216,48 ciascuno a titolo di danno iure proprio da lesione del rapporto parentale, oltre interessi dalla pubblicazione della sentenza al saldo, nonché alla refusione delle spese del relativo giudizio e di quello dinanzi alla Corte di Cassazione penale.

  1. Avverso tale pronuncia Paolo (OMISSIS) propone ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.

Anna, Diego e Massimiliana (OMISSIS) resistono con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 392, co. 1, c.p.c. come novellato dagli artt. 46 co. 21 e 58 della 69 del 2009, nonché dell’art. 622 c.p.p., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.

Sostiene il ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe errato nell’aver applicato per la riassunzione della causa il termine dell’art. 392 c.p.c. ante riforma (un anno dalla pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione), e non quello, di tre mesi, introdotto dalla l. n. 69 del 2009.

Il (OMISSIS) fonda la sua tesi sulla autonomia del giudizio in riassunzione rispetto a quello svolto in sede penale.

Da ciò deriverebbe l’applicabilità ex art. 58 L. 69/2009 della sopravvenuta disciplina dell’art. 392 c.p.c., trattandosi di giudizio instaurato dopo l’entrata in vigore della predetta legge.

4.2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 c.c.; 40 e 41 c.p. e 622 c.p.p. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.

Sostiene che, diversamente da quanto sostenuto dalla Corte d’Appello, nel giudizio di rinvio andrebbero applicate le regole sulla casualità tipiche della fase penale esauritasi a seguito della pronuncia della Cassazione, in quanto “la causalità” non sarebbe una semplice regola probatoria ma parte integrante del fatto storico.

Denuncia inoltre che le CTU avrebbero ritenuto esistente il nesso causale tra condotta omissiva colposa e l’evento senza però indicare le operazioni potenzialmente salvifiche che avrebbe dovuto adottare il (OMISSIS) per evitare il decesso del (OMISSIS).

4.3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente censura la violazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c. per illogicità sotto il profilo della contraddittorietà della motivazione.

Sostiene che la Corte d’Appello sarebbe incorsa in una illogica ed insanabile contraddizione in quanto avrebbe contemporaneamente qualificato il giudizio in riassunzione come “nuovo ed autonomo” ai fini sostanziali, processuali e probatori, e al tempo stesso lo avrebbe qualificato come “mero proseguio del pregresso giudizio” ai fini del riconoscimento del danno morale e della individuazione della disciplina applicabile ratione temporis.

5. I primi tre motivi di ricorso, da trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono infondati.

Ai fini dell’individuazione del termine di riassunzione ex art. 392 c.p.c., la Corte territoriale ha applicato i principi di questa Corte (cfr. da ultimo Cass. Sez. III, n. 15859 del 12 giugno 2019).

Ai fini dell’individuazione del termine di riassunzione ex art. 392 c.p.c., il “giudizio instaurato” rilevante ai sensi dell’art. 58 L. 69 nel 2009 è necessariamente quello penale (rectius l’esercizio dell’azione in sede penale) conclusosi con l’ordine della Corte di cassazione di rimessione al giudice civile competente.

Come chiarito dalla sopracitata sentenza è indispensabile distinguere tra il profilo formale-processuale e quello sostanziale-processuale dell’istituto.

Non v’è dubbio, infatti, che il giudizio riassunto ai sensi dell’art. 392 c.p.c., sotto un profilo formale-processuale, postuli necessariamente un antecedente, il quale altro non è che il giudizio già instaurato in altra sede e giunto fino a quella pronuncia della Corte di Cassazione che, per l’appunto, ha richiesto e reso possibile la sua riassunzione ex art. 392 c.p.c.

Si tratta, invero di un concetto apprezzabile ancor prima che sotto un profilo logico, sotto quello terminologico.

Alla luce dell’inscindibile legame tra le due cause (riassumente e riassunta) è evidente che l’instaurazione del giudizio, rilevante ai sensi dell’art. 581. l. 69 del 2009, non può essere avvenuta, come correttamente rilevato dal giudice di merito, che con la costituzione della parte civile nel giudizio penale.

In conclusione, nel caso di specie l’azione civile, coincidente, appunto con il deposito dell’atto di costituzione di parte civile nel giudizio penale di primo grado, avvenuto sin dall’udienza preliminare del 6 maggio 2004, è precedente alla novella del 2009.

Pertanto il termine di riassunzione quello di un anno dal deposito della sentenza della corte di cassazione e nel caso è tempestivo essendo stata la sentenza depositata il 3 ottobre 2011 e l’atto di citazione in riassunzione notificato il 26 giugno 2012.

Diverse sono invece gli interrogativi che l’istituto pone sotto il profilo processuale sostanziale quando l’ordine di riassunzione provenga da un giudizio instauratosi e conclusosi in sede penale e che attengono all’oggetto del processo, al rapporto tra l’azione civile esercitata nel processo penale ed i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno individuati in quella sede, all’attività difensiva svolta dalle parti nel processo penale, alla connessione tra il fato storico con il reato penale ecc.

Dette questioni sono state oggetto di numerose pronunce (v. Cass. pen. Sez. IV, li ottobre 2016, n. 45786; Cass. Sez. IV, 16 novembre 2018; Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 18-04-2019) 12-06-2019, n. 15859), le quali, fermo restando il legame formale tra i due giudizi, si sono interrogati su quale dovesse essere la disciplina e le regole probatorie applicabili e cioè se, anche da un punto di vista sostanziale, il giudizio riassunto dovesse ritenersi mera prosecuzione del suo antecedente, o se, al contrario, esso acquistasse, una volta introdotto dinanzi al giudice civile competente, una sua autonomia.

Come noto, tali interrogativi sono stati definitivamente risolti con la pronuncia di questa Corte n. 15859 del 12 giugno 2019, la quale, ha enunciato i seguenti principi:

“a) il diritto al risarcimento del danno è un diritto eterodeterminato, sicché l’identificazione della domanda è conseguenza esclusiva dell’individuazione del relativo petitum e della relativa causa petendi, così come rappresentata dal danneggiato in sede di costituzione di parte civile;

b) i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno prescindono dall’identificazione del fatto come reato: è pertanto legittima, in sede di giudizio dinanzi alla Corte d’appello civile, una eventuale, diversa valutazione degli stessi;

c) all’esito della trasmigrazione del procedimento dalla sede penale, è diverso l’ambito entro il quale l’attività difensiva delle parti viene a svolgersi, dovendo le relative questioni essere trattate in base alla prospettazione del fatto sotto il profilo (non del reato, ma) dell’illecito civile ex art. 2043 c.c.: all’esito del rinvio al giudice civile, il fatto perde la sua originaria connessione con il reato per riacquistare i caratteri dell’illecito civile, seguendo i canoni probatori propri di quel processo, essendo ormai venuta meno, con l’esaurimento della fase penale del giudizio, la ragione stessa di attrazione dell’illecito nell’ambito delle regole della responsabilità penale;

d) conseguentemente, il giudice civile in sede di rinvio dovrà applicare, in tema di nesso causale, il canone probatorio del “più probabile che non” e non quello dell’alto grado di probabilità logica e di credenza razionale” (Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 18-04-2019) 12-06-2019, n. 15859).

In caso di annullamento agli effetti civili della sentenza che, in accoglimento dell’appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l’imputato al risarcimento dei danni senza procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello (Cass. S.U. n. 22065 del 28 gennaio 2021).

4.4. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 nonché nullità della sentenza per vizio di motivazione ex art. 360 n. 4 c.p.c.

Sostiene che la Corte d’Appello avrebbe errato nel riconoscere agli attori il diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale per la sola esistenza del legame di parentela con il (OMISSIS).

Osserva in particolare che, per consolidata giurisprudenza, detto danno, lungi dal poter essere considerato in re ipsa, richiede una puntuale allegazione. Il motivo è infondato.

Nel procedere alla sua disamina occorre preliminarmente ripercorrere i più recenti principi elaborati da questa Corte in tema di danno da lesione del rapporto parentale.

Come noto, a fronte della morte o di una gravissima menomazione dell’integrità psicofisica di un soggetto causata da un fatto illecito di un terzo, il nostro ordinamento riconosce ai parenti del danneggiato un danno iure proprio, di carattere patrimoniale e non patrimoniale, per la sofferenza patita in conseguenza all’irreversibile venir meno del godimento del rapporto parentale con il congiunto.

Tale voce risarcitoria intende ristorare il familiare dal pregiudizio subito sotto il duplice profilo morale, consistente nella sofferenza psichica che questi è costretto a sopportare a causa dell’impossibilità di proseguire il proprio rapporto di comunanza familiare, e dinamico-relazionale, quale sconvolgimento di vita destinato ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto che l’ha subita (Cass. civ. sez. III n. 28989 dell’11 novembre 2019).

Quanto alla prova del danno, non v’è dubbio che, in linea generale, spetti alla vittima dell’illecito altrui dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa e, dunque, l’esistenza del pregiudizio subito: onere di allegazione che in alcuni casi potrà essere soddisfatto anche ricorrendo a presunzioni semplici e massime di comune esperienza.

Ebbene, nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), è orientamento unanime di questa Corte che l’esistenza stessa del rapporto di parentela faccia presumere, secondo l’ id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza e, di norma, connaturale all’essere umano (Cass. civ. sez. III n. 11212 del 24 aprile 2019; Cass. civ. sez. III n. 31950 dell’11 dicembre 2018; Cass. civ. sez. III n. 12146 del 14 giugno 2016).

Naturalmente, trattandosi di una praesumptio hominis sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra vittima e superstite (Cass. civ. sez. VI — 3 n. 3767 del 15 febbraio 2.018).

La Corte d’appello, dunque, ha correttamente richiamato ed applicato l’insegnamento di questa Corte ritenendo che il fatto illecito costituito dalla uccisione del congiunto abbia dato luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché ha colpito soggetti (i figli del (OMISSIS)), legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare.

Giova a tal proposito osservare che il c.d. danno presuntivo è concetto autonomo e distinto rispetto al c.d. danno in re ipsa: se, infatti, per quest’ultimo non è richiesta alcuna allegazione da parte del danneggiato, sorgendo il diritto al risarcimento del danno per il sol fatto del ricorrere di una determinata condizione, il primo richiede un’allegazione, seppur presuntiva, che è sempre suscettibile di essere superata da una eventuale prova contraria allegata da controparte.

In altri termini, affermare, come ha fatto la Corte d’Appello, che la presenza di un legame di parentela qualificato sia elemento idoneo a fondare la presunzione, secondo l’ id quod plerumque accidit, dell’esistenza del danno in capo ai familiari del defunto, è cosa distinta dal riconoscere a quest’ultimi la risarcibilità del danno in re ipsa, per il sol fatto della sussistenza di un legame familiare.

Ciò posto, diversa è la questione allorquando si passi alla determinazione equitativa del danno, in quanto, al fine di consentire una personalizzazione dello stesso, è necessario che il danneggiato fornisca la prova di circostanze concrete che consentano di aumentare il valore tabellare rilevante ai fini della quantificazione del danno.

Sebbene, infatti, sia stato affermato che “ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale mediante il criterio tabellare il danneggiato ha esclusivamente l’onere di fare istanza di applicazione del detto criterio, spettando poi al giudice di merito di liquidare il danno non patrimoniale mediante la tabella conforme a diritto” è altrettanto vero che eventuali correttivi saranno ammissibili solo in ragione della particolarità della situazione di cui sia stata fornita adeguata motivazione (Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 05-05-2021) 10-11-2021, n. 33005).

Nel caso di specie, non avendo i familiari allegato alcuna circostanza ulteriore, il giudice ha correttamente liquidato il danno, alla luce di una valutazione equitativa che ha tenuto adeguatamente in considerazione la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, l’età della vittima, l’età dei superstiti, il grado di parentela).

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

6. Infine, poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono i presupposti processuali (a tanto limitandosi la declaratoria di questa Corte: Cass. Sez. U. 20/02/2020, n. 4315) per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 (e mancando la possibilità di valutazioni discrezionali: tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dell’obbligo di versamento, in capo a parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.200 oltre 200 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della 1. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile della Corte Suprema di cassazione in data 2 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.