Nella preparazione di alimenti e/o bevande da somministrare/vendere ai clienti, molteplici sostanze alimentari detenute in cattivo stato di conservazione (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 5 agosto 2020, n. 23581).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAMACCI Luca – Presidente

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere

Dott. GENTILI Andrea – Rel. Consigliere

Dott. NOVIELLO Giuseppe –  Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

BRAVI Gettulio, nato a Cortona (Ar) il 2 maggio 1941;

avverso la sentenza n. 1497/2019 del Tribunale di Ravenna del 27 giugno 2019;

letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;

lette le conclusioni scritte del PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Giuseppe CORASANITI, il quale ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

Il Tribunale di Ravenna ha, con sentenza del 27 giugno 2019, condannato Bravi Gettulio alla pena ritenuta di giustizia in quanto, secondo quanto risultante dalla sentenza stessa, il medesimo sarebbe stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 5, lettera b), della legge n. 283 del 1962, in quanto, secondo quanto riportato nel capo di imputazione a lui contestato, avrebbe utilizzato, presso il ristorante gestito dalla società della quale egli era legale rappresentante, nella preparazione di alimenti e/o bevande da somministrare/vendere ai propri clienti sostanze alimentari detenute in cattivo stato di conservazione.

Nel ricostruire la vicenda processuale che ha condotto alla emissione della sentenza in questione il Tribunale di Ravenna ha riferito che, in data 31 luglio 2017, a carico del Bravi era stato emesso un decreto penale di condanna alla pena di euro 2.000,00 in relazione alla violazione dell’art. 5, lettera b), della legge n. 283 del 1962.

Avendo l’ingiunto proposto opposizione, era stato emesso decreto di citazione a giudizio per l’udienza del 25 ottobre 2018; in tale data, essendo stato revocato dal Tribunale l’originario decreto penale, il Pm, secondo quanto riferito in sentenza, modificava la precedente imputazione, relativa agli artt. 56 e 515 cod. pen. (tentativo di frode in commercio), contestando la violazione della normativa in materia di alimenti. In esito a giudizio dibattimentale in tal modo celebratosi, il Tribunale emetteva sentenza di condanna relativamente al reato di cui all’art. 5, lettera b), della legge n. 283 del 1962.

Ha interposto ricorso per cassazione l’imputato, contestando la legittimità del procedimento, sostenendo che, essendo stato emesso decreto penale di condanna per la ipotesi di tentativo di violazione dell’art. 5 della legge n. 283 del 1962, una volta intervenuta opposizione avverso di esso, il Gip, nell’emettere l’atto di citazione a giudizio, avrebbe modificato la imputazione, indicando quali norme violate gli artt. 56 e 515 cod. pen.

Solo alla udienza del 25 ottobre 2018, il Pm avrebbe rettificato la imputazione, richiamando nuovamente, senza però più alcun riferimento all’art. 56 cod. pen., la norma precettiva di cui alla legge n. 283 del 1962.

In tale modus procedendi la difesa dell’imputato avrebbe ravvisato sia la illegittimità della modifica del capo di accusa da parte del Gip in occasione della emissione del decreto penale, sia, in ogni caso, la violazione dell’art. 520 cod. proc. pen., in quanto la successiva modifica della imputazione introdotta dal Pm nel corso del giudizio dibattimentale non è stata comunicata, tramite notificazione del relativo verbale di udienza, all’imputato assente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso, per come lo stesso è stato formulato è inammissibile.

Ritiene il Collegio di dovere, preliminarmente, precisare che, stante la natura esclusivamente processuale delle doglianze formulate dalla difesa del ricorrente, esso ha preso ampia visione degli atti del procedimento, come gli è, d’altra parte consentito, posto che, laddove la censura proposta di fronte a questa Corte abbia natura processuale, questo organo è, nei limiti della doglianza di fronte a lui devoluta, anche giudice del fatto (nel senso ora indicato, fra le altre: Corte di cassazione, Sezione III penale, 5 giugno 2018, n. 24979; idem Sezione I penale, 21 febbraio 2013, n. 8521).

Da tale indagine il Collegio ha potuto ricavare, in parziale rettifica sia di quanto riportato in sentenza che di quanto dedotto in sede di impugnazione, quanto segue:

– in data 8 febbraio 2016 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna ebbe a formulare richiesta di emissione di decreto penale di condanna alla pena di euro 2.000,00 di ammenda, a carico di Bravi Gettulio essendo questi imputato per avere, secondo quanto testualmente riportato nella predetta richiesta, nella sua qualità di legale rappresentante della GRA srl, presso l’esercizio commerciale comprensivo di attività di ristorazione denominato Grand Hotel Terme, impiegato, nella preparazione di alimenti e/o bevande da somministrare/vendere ai clienti, molteplici sostanze alimentari detenute in cattivo stato di conservazione;

– la richiesta come sopra formulata riportava, inopinatamente laddove la stessa fosse stata confrontata con i dati rivenienti sia dalla descrizione del fatto contestato sia dalla indicazione del tipo di pena richiesta (si trattava dell’ammenda, pena pecuniaria propria delle sole contravvenzioni) che con riferimento ai criteri adottati per la sua determinazione (non vi era alcun riferimento all’abbattimento di pena ex art. 56 cod. pen. né all’aumento di essa per effetto della continuazione), quali disposizioni violate gli artt. 56, 81 e 515 cod. pen.;

– con successivo atto del 31 luglio 2017, aderendo alla riportata richiesta, il Gip del Tribunale di Ravenna emetteva, per la citata condotta, a carico del Bravi decreto penale di condanna alla pena di euro 2.000,00 di ammenda, pena determinata in totale adesione alla richiesta del Pm;

– il Gip, che, come detto, ripeteva testualmente per il resto il capo di imputazione formulato dal Pm, tuttavia aveva sostituto in parte le norme violate, indicando, singolarmente, gli artt. 81 e 56 cod. pen. oltre all’art. 5, lettera b), della legge n. 283 del 1962, senza considerare che, trattandosi di un reato contravvenzionale, esso non tollera la ipotesi del reato tentato;

– essendo stata proposta ad opera del Bravi, in data 14 agosto 2017, opposizione avverso il citato decreto penale, il Gip del Tribunale ravennate emetteva decreto di citazione a giudizio a carico dell’opponente, invitandolo a comparire per l’udienza del 25 ottobre 2018, per rispondere del reato materialmente sempre descritto nei termini dianzi ricordati, ma con la indicazione delle disposizioni violate che rinviava nuovamente agli artt. 56, 81 e 515 cod. pen., sebbene questa ultima indicazione risulti, non è chiaro da chi e in quale occasione, interlineata e sostituita con quella dell’art. 5, lettera b), della legge n. 283 del 1962;

– infine, per quanto emerge dalla lettura del verbale di udienza del 25 ottobre 2018, celebratasi nell’assenza dell’imputato, ma di fronte al suo difensore fiduciario, il Pm rilevava che “per mero errore materiale nel capo di imputazione contenuto nel decreto di citazione a giudizio si è fatto riferimento all’art. 515 c.p., anziché all’art. 5 lett. B) della L. 283/62 come indicato nel decreto penale di condanna”;

– a conclusione del processo in tal modo introdotto il Tribunale di Ravenna ha condannato il Bravi alla pena di euro 15.000,00 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali, avendolo ritenuto responsabile della violazione della norma contravvenzionale da ultimo indicata;

– a tale pena, si osserva da ultimo, il Tribunale è pervenuto senza né applicare alcun aumento ai sensi dell’art. 81 cpv cod. pen. né alcuna diminuzione ai sensi dell’art. 56 cod. pen.

Ciò posto, osserva il Collegio che, pur nella peculiare descritta situazione in cui è maturata la decisione ora impugnata, ambedue le doglianze del ricorrente sono del tutto prive di pregio.

Egli, infatti, lamenta, in via logicamente alternativa, o che il Gip nell’emettere il decreto di citazione a giudizio a suo carico abbia illegittimamente modificato, sostituendosi all’organo promotore della azione penale, la imputazione sulla base della quale era stato emesso il decreto di condanna successivamente opposto, ovvero che il Pm, nel modificare nel corso del giudizio a sua volta la imputazione contestata al Bravi, abbia omesso di darne comunicazione a questo, assente in dibattimento, tramite notificazione del relativo verbale di udienza.

Ambedue le doglianze hanno come logico presupposto che la imputazione mossa al prevenuto sia stata oggetto di modificazione.

Circostanza, questa, che, a ben riflettere, non corrisponde alla realtà dei fatti quale direttamente apprezzata da questa Corte attraverso il consentito, per le ragioni sopra esposte, esame degli atti. Invero, non ignora questo Collegio come corrisponda al prevalente indirizzo giurisprudenziale di questa stessa Corte il rilievo secondo il quale, una volta emesso il decreto penale di condanna – ma il principio pare applicabile anche alla fase di rilascio del decreto penale di condanna – non sia consentito al giudice di modificare la imputazione che a tal fine era stata formulata dal Pm in sede di richiesta di emissione di detto provvedimento giurisdizionale e che, appunto, era stata recepita in sede di emissione (cfr. infatti: Corte di cassazione, Sezione III penale, 7 maggio 2018, n. 19689; idem Sezione I penale, 31 ottobre 2012, n. 42467).

Ma, si osserva, tale principio vale laddove sia stata modificata sostanzialmente la imputazione; cioè laddove sia stato, in altre parole, modificato il fatto, in ipotesi costituente reato, ascritto all’imputato o, comunque la descrizione del fatto naturalistico dalla attribuzione della commissione del quale l’imputato deve difendersi.

Come, infatti, questa Corte ha, anche in tempi recenti, più volte chiarito, in tema di contestazione dell’accusa, si deve avere riguardo alla specificazione del fatto più che all’indicazione delle norme di legge violate, per cui ove il fatto sia descritto in modo puntuale, la mancata o erronea individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità, salvo che non si traduca in una compressione dell’esercizio del diritto di difesa (Corte di cassazione, Sezione I penale, 9 luglio 2019, n. 30141; idem Sezione V penale, 25 maggio 2018, n. 23609).

Parimenti si ha una rilevante modificazione della contestazione, non allorché vi sia la mera modificazione della disposizione che si assume contestata, ma in quanto vi sia una modificazione della descrizione del fatto che è stato oggetto di contestazione tale da incidere sulla materiale possibilità di compiutamente esercitare il diritto di difesa, essendo, peraltro onere della parte che intenda fare valere siffatta lesione indicare compiutamente i termini in cui essa si è realizzata (cfr., infatti, di recente: Corte di cassazione, Sezione III penale, 5 luglio 2019, n. 29405).

Ciò posto osserva, conclusivamente, il Collegio che nel caso di specie tale lesione non risulta essersi realizzata, posto che il fatto storico costituente reato contestato al Bravi mai è stato oggetto, pur nella ripetuta variazione dei dati normativi presenti nella rubrica elevata nei suoi confronti, di alcuna variazione, sicché per un verso il prevenuto ha sempre perfettamente saputo quale fosse stata la accusa mossagli e, per altro verso, di conseguenza mai si è posta la esigenza di informarlo di una nuova contestazione a suo carico;

infine, lo stesso ricorrente, al di là della doglianza articolata su di un piano squisitamente formale, ma ha effettivamente lamentato, né tantomeno concretamente dimostrato, l’esistenza di un’effettiva lesione della possibilità di esercizio da parte sua del diritto di difesa.

Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile ed il ricorrente va condannato, visto l’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000,00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.