Non appartiene al clan ma ha l’avvallo del boss, sussiste l’aggravante del c.d. metodo mafioso (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 21 giugno 2022, n. 23935).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PAOLA Sergio – Presidente –

Dott. TUTINELLI Vincenzo – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Rel. Consigliere –

Dott. PELLEGRINO Andrea – Consigliere –

Dott. RECCHIONE Sandra – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) ATANASIO, nato a Palermo il 06/08/19xx;

avverso l’ordinanza del 11/10/2021 del Tribunale di Palermo;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NICASTRO;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. LUIGI CUOMO, che ha concluso chiedendo che ricorso sia dichiarato inammissibile.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 11/10/2021, il Tribunale di Palermo, pronunciando sulla richiesta di riesame di Atanasio (OMISSIS) avverso l’ordinanza del 15/09/2021 del G.i.p. del Tribunale di Palermo – che aveva disposto, nei confronti dello stesso Alcamo, la misura coercitiva della custodia cautelare in carcere per il delitto estorsione pluriaggravata – la accoglieva parzialmente, riqualificando il fatto come tentata (e non consumata) estorsione pluriaggravata, confermando, nel resto, l’ordinanza del G.i.p.

La misura veniva confermata in relazione al delitto di cui agli artt. 56, 81, secondo comma, 110, 629, primo e secondo comma, quest’ultimo comma in relazione all’art. 628, terzo comma, n. 3), e 416-bis.1 cod. pen., nonché all’art. 71 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.

Il delitto – compiuto in concorso con Alessandro (OMISSIS), Antonio (OMISSIS), Gioacchino (OMISSIS), Vincenzo (OMISSIS) e Giuseppe (OMISSIS) e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso – era consistito nel compiere atti idonei, segnatamente minacce, diretti in modo non equivoco a costringere Giovanni (OMISSIS) e Simone (OMISSIS) a restituire un assegno bancario postdatato emesso da Giuseppe (OMISSIS), ricevuto dal (OMISSIS) e dal (OMISSIS) a garanzia di un prestito usurario, così procurandosi un ingiusto profitto con altri danno.

2. Avverso tale ordinanza del Tribunale di Palermo, Attanasio (OMISSIS), per il tramite del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione, in relazione agli artt. 56, 81, secondo comma, 110, 629, primo e secondo comma, quest’ultimo comma in relazione all’art. 628, terzo comma, n. 3), e 416-bis.1 cod. pen., nonché all’art. 71 del d.lgs. n. 159 del 2011, con riguardo alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del delitto di tentata estorsione.

Sotto un primo profilo, deduce l’insussistenza di elementi idonei a comprovare che la richiesta di restituzione dell’assegno sia stata fatta con minaccia, atteso che: «nulla è dato sapere su quale sia il contenuto della richiesta avanzata dall’indagato a (OMISSIS) e (OMISSIS)»; dal contenuto della conversazione tra Alessandro (OMISSIS) e Antonio (OMISSIS) captata con l’intercettazione ambientale n. 1596 del 14 giugno 2018, utilizzata dal Tribunale quale conferma della condotta minacciosa, «non è possibile evincere alcunché»; premesso che l'(OMISSIS) «non risulta indagato per il reato associativo» e non ha mai riportato condanne per lo stesso reato né per reati aggravati ai sensi dell’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. con modif. dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, «il fatto che la richiesta di intervenire sia pervenuta all'(OMISSIS), dallo (OMISSIS) [Giuseppe, capo del mandamento mafioso di Bagheria], attraverso il (OMISSIS), non può fare traslare sull’indagato l’aggravante contestata, in assenza di ogni elemento da cui dedurre che l’intervento dell'(OMISSIS) sia stato effettuato con la minaccia, compiuta da un soggetto appartenente all’organizzazione criminale».

Sotto un secondo profilo, il ricorrente deduce l’insussistenza degli elementi dell’ingiusto profitto e dell’altrui danno.

In proposito, rappresenta che, poiché l’assegno era detenuto illecitamente dal (OMISSIS) e dal (OMISSIS), in quanto essi lo avevano ottenuto a seguito della commissione del delitto di usura ai danni dell’emittente del titolo Giuseppe (OMISSIS), questi «aveva diritto alla restituzione dell’assegno, in quanto soggetto passivo del reato di usura e nessun profitto avrebbe avuto, né giusto né ingiusto, dal rientrare in possesso del proprio titolo di credito»; «nessun danno si può ipotizzare a carico di chi deteneva il titolo di credito esclusivamente a fronte della commissione del reato di usura».

2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione, in relazione agli artt. 56, 81, secondo comma, 110, 629, primo e secondo comma, e 610 cod. pen., con riguardo alla mancata considerazione, da parte del Tribunale di Palermo, della qualificazione del fatto come violenza privata (art. 610 cod. pen.), atteso che, «[n]el caso di specie, come [l detto sopra, non vi è stata alcuna diminuzione patrimoniale per gli estortori».

2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione, in relazione all’art. 416-bis.1 cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza dell’aggravante prevista da quest’ultimo articolo. In proposito, rappresenta che, premesso che «non solo non vi sono indizi tali da suffragare che l’intervento dell'(OMISSIS) sia stato effettuato con la minaccia ma non vi è alcun elemento che possa far ritenere che il ricorrente sia un soggetto vicino a Cosa Nostra» e che «non risulta dagli atti e, conseguentemente, dal provvedimento impugnato che al (OMISSIS) e al (OMISSIS) fosse stato comunicato un interessamento dello (OMISSIS)», «la richiesta da parte di un soggetto non intraneo all’associazione mafiosa, né mai condannato per reati aggravati dall’art. 7 L. 203/91, non può integrare l’aggravante contestata».

2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione, in relazione agli artt. 273 e 275, comma 3, cod. proc. pen., con riguardo alle ritenute sussistenza delle esigenze cautelari e applicazione della custodia cautelare in carcere.

In proposito, rappresenta che l’ordinanza impugnata «ha omesso di considerare la riqualificazione della fattispecie delittuosa nella forma tentata e il ruolo assolutamente marginale dell'(OMISSIS), il quale […] non è assolutamente un soggetto mafioso e non ha mai riportato condanne per il reato associativo», con la conseguenza che «non vi è alcun elemento che possa dimostrare la perdurante pericolosità alla luce della scarsa rilevanza della condotta dell'(OMISSIS), tale da non consentire l’applicazione di una misura meno afflittiva».

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo e il secondo motivo — i quali, per lo loro stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente — sono formulati per ragioni non consentite, oltre che manifestamente infondati.

1.1. Occorre preliminarmente rammentare che le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo chiarito che, «[i]n tema di misure cautelari personali, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie» (Sez. U., n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828-01).

Tale orientamento, dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi e al quale intende, perciò, dare continuità, è stato ribadito anche in pronunce più recenti di questa Corte (tra le altre: Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, Tiana, Rv. 255460- 01; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, Terranova, Rv. 237012-01).

Da ciò consegue che «[I]’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art.273 cod. proc. pen. e delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 stesso codice è rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge od in mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato (In motivazione, la S.C. ha chiarito che il controllo di legittimità non concerne né la ricostruzione dei fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e concludenza dei dati probatori, onde sono inammissibili quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito)» (tra le altre: Sez. F, n. 47748 del 11/08/2014, Contarini, Rv. 261400-01).

1.2. Ciò rammentato, il Tribunale di Palermo ha fondato la ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell'(OMISSIS) per il reato di tentata estorsione sulle risultanze di numerose intercettazioni telefoniche e ambientali.

A tale proposito, si deve ricordare che, «[i]n materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite» (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337-01; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D’Andrea, Rv. 268389- 01; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784-01).

Nel caso di specie, dalle intercettazioni era emerso che:

– Giuseppe (OMISSIS) aveva concordato con Alessandro (OMISSIS) e con Gioacchino (OMISSIS) un prestito a condizioni usurarie;

– in particolare, (OMISSIS) doveva ottenere il prestito di € 1.100,00, che aveva garantito mediante l’emissione di un assegno post-datato di € 2.900,00; tuttavia, la somma di denaro, consegnata da Giovanni (OMISSIS) ad Alessandro (OMISSIS), non veniva ricevuta dal (OMISSIS) perché veniva trattenuta in parte dallo stesso (OMISSIS) e in parte da Gioacchino (OMISSIS); pertanto, il (OMISSIS) pretendeva dal (OMISSIS) la restituzione dell’assegno dato in garanzia, prospettando, in caso contrario, una denuncia per usura;

– il (OMISSIS), spaventato da ciò (conversazione tra lo stesso (OMISSIS) e Gioacchino (OMISSIS) del 21 maggio 2018), individuava una soluzione nell’intervento di Atanasio (OMISSIS), che veniva avallato da Giuseppe (OMISSIS), noto esponente mafioso capo del mandamento di Bagheria (conversazione tra Alessandro (OMISSIS) e Antonio (OMISSIS); affermazioni di Gioacchino (OMISSIS): «Pino (OMISSIS) si è messo di mezzo»);

– Atanasio (OMISSIS) si impegnò a intervenire (successive conversazioni tra Alessandro (OMISSIS) e Antonio (OMISSIS): «(OMISSIS) s’impegnò», «entro l’una risolvono il problema») e intervenne effettivamente (ulteriore conversazione tra Alessandro (OMISSIS) e Antonio (OMISSIS): «sono stati chiamati da (OMISSIS) loro» [cioè Giovanni (OMISSIS) e Simone (OMISSIS)]) per ottenere la restituzione dell’assegno.

Quanto al contenuto minaccioso dell’intervento dell'(OMISSIS), il Tribunale di Palermo l’ha ritenuto sulla base degli effetti di tale intervento sulle persone offese, in particolare, su Simone (OMISSIS), come emergeva dall’intercettazione ambientale della conversazione del 14 giugno 2018 (n. 1596) tra Alessandro (OMISSIS) e Antonio (OMISSIS), dalla quale risultava la paura suscitata nel (OMISSIS) dalla chiamata dell'(OMISSIS) ((OMISSIS): «mio cugino Simone si è spaventato»), effettuata su avallo del noto esponente mafioso Giuseppe (OMISSIS).

Tale interpretazione dell’indicata conversazione, per la quale la paura della persona offesa si doveva spiegare con il fatto che le era stata rivolta una minaccia di un male (qualora non avesse restituito l’assegno emesso dal (OMISSIS)), costituisce un apprezzamento del giudice di merito evidentemente non manifestamente illogico né irragionevole, sicché esso non può essere sindacato in questa sede di legittimità.

Quanto al secondo profilo del primo motivo, si deve rilevare che il diritto alla restituzione dell’assegno emesso dal (OMISSIS) a garanzia del prestito usurario spettava, appunto, al (OMISSIS) e non certo all'(OMISSIS).

Lo stesso (OMISSIS) risulta avere chiesto alle persone offese, mediante minaccia, la restituzione dell’assegno non esercitando il suddetto diritto del (OMISSIS), ma per evitare che questi sporgesse denuncia nei confronti degli usurai.

Ne discende l’ingiustizia del profitto costituito dalla restituzione dell’assegno, in quanto profitto conseguito sine iure, con correlativo danno patrimoniale per le persone offese, il cui patrimonio veniva a esserne diminuito.

Da ciò la manifesta infondatezza sia del secondo profilo del primo motivo, sia del secondo motivo, atteso che la preordinazione della coartazione a procurarsi un ingiusto profitto comporta l’integrazione del delitto di tentata estorsione e non di violenza privata (Sez. 6, n. 53429 del 05/11/2014, Galdieri, Rv. 261800-01).

2. Il terzo motivo è manifestamente infondato.

2.1. Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, la circostanza aggravante dell’utilizzo del cosiddetto “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7, comma 1, del d.l. n. 152 del 1991 (ora dall’art. 416.bis.1, comma 1, cod. pen.), ha la funzione di reprimere il “metodo delinquenziale mafioso” ed è connessa non alla struttura e alla natura del delitto rispetto al quale la circostanza è contestata, quanto, piuttosto, alle modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso (Sez. 5, n. 22554 del 09/03/2018, Marando, Rv. 273190- 01).

Pertanto, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante, è necessario l’effettivo ricorso, nell’occasione delittuosa contestata, al “metodo mafioso”, il quale deve essersi concretizzato in un comportamento oggettivamente idoneo a esercitare sulle vittime del reato la particolare coartazione psicologica evocata dalla norma menzionata (e non può essere desunto dalla mera reazione delle stesse vittime alla condotta tenuta dall’agente) (Sez. 2, n. 45321 del 14/10/2015, Capuozzo, Rv. 264900-01; Sez. 6, n. 28017 del 26/05/2011, Mitidieri, Rv. 250541-01; Sez. 6, n. 21342 del 02/04/2007, Mauro, Rv. 236628-01).

Cioè quella coartazione ben più penetrante energica ed efficace che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti (Sez. 2, n. 2204 del 31/03/1998, Parreca, Rv. 211178- 01).

Peraltro, l’aggravante è ritenuta configurabile anche in presenza dell’utilizzo di un messaggio intimidatorio “silente“, cioè privo di un’esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia (Sez. 3, n. 44298 del 18/06/2019, Di Caprio, Rv. 277182-01; Sez. 2, n. 26002 del 24/05/2018, Pizzimenti, Rv. 272884-01; Sez. 2, n. 20187 del 03/02/2015, Gallo, Rv. 263570-01; Sez. 5, n. 38964 del 21/06/2013, Nobis, Rv. 257760-01).

L’aggravante, de quo, è configurabile nel caso di condotte che presentano un nesso eziologico immediato rispetto all’azione criminosa, in quanto logicamente funzionali alla più pronta e agevole perpetrazione del crimine (non essendo pertanto integrata dalla sola connotazione mafiosa dell’azione o dalla mera ostentazione, evidente e provocatoria, dei comportamenti di tale organizzazione) (Sez. 1, n. 26399 del 28/02/2018, Barbra, Rv. 273365-01).

La giurisprudenza di legittimità ha altresì statuito che la circostanza aggravante del cosiddetto “metodo mafioso”:

– è configurabile anche a carico di un soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga a un sodalizio del genere anzidetto (Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013, De Paola, Rv. 257065-01; Sez. 1, n. 4898 del 26/11/2008, dep. 2009, Cutolo, Rv. 243346-01);

– non necessita che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia richiamino alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo (Sez. 2, n. 27548 del 17/05/2019, Gallelli, Rv. 276109-01; Sez. 2, n. 16053 del 25/03/2015, Campanella, Rv. 263525-01).

2.2. Il Tribunale di Palermo ha ritenuto la configurabilità dell’aggravante del “metodo mafioso” in quanto: dalla già citata intercettazione ambientale della conversazione del 14 giugno 2018 (n. 1596) tra Alessandro (OMISSIS) e Antonio (OMISSIS) emergeva come l’intervento dell'(OMISSIS) fosse avvenuto con l’avallo del boss Giuseppe (OMISSIS); dall’intercettazione ambientale della conversazione del 4 luglio 2018 (n. 116) tra Alessandro (OMISSIS) e Simone (OMISSIS) risultava che quest’ultimo era pienamente consapevole di tale avallo («con Pino (OMISSIS) mi devo andare a litigare?»).

Pertanto, premesso che, contrariamente a quanto mostra di ritenere il ricorrente, come ricordato sopra, per la sussistenza dell’aggravante non era necessario che l'(OMISSIS) appartenesse all’associazione di tipo mafioso, il Tribunale di Palermo ha ritenuto che, considerata la piena consapevolezza del (OMISSIS) che l’intervento dell'(OMISSIS) nei suoi confronti era avvenuto con l’avallo del boss Giuseppe (OMISSIS), la minaccia posta in essere dall'(OMISSIS), che aveva impaurito il (OMISSIS), fosse stata posta in essere in modo tale da richiamare alla mente dello stesso (OMISSIS) la forza intimidatrice mafiosa dell’associazione di cui lo (OMISSIS) era un boss.

Tale motivazione, oltre che rispettosa dei principi sopra ricordati, appare coerente e priva di illogicità, sicché si sottrae a censure in questa sede di legittimità.

3. Il quarto motivo è manifestamente infondato.

3.1. Si deve anzitutto evidenziare che, come correttamente affermato dal Tribunale di Palermo, per il reato di tentata estorsione aggravata dal “metodo mafioso” opera la doppia presunzione relativa – di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere – prevista dall’art. 275, comma 3, terzo periodo, cod. proc. pen.

La Corte di cassazione ha infatti chiarito che la doppia presunzione prevista, per determinate fattispecie incriminatrici, dal combinato disposto gli artt. 275, comma 3, terzo periodo, e 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., deve intendersi riferita anche ai delitti tentati in caso di contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 (ora art. 416-bís.1, comma 1, cod. pen.), atteso che il generico riferimento ai «delitti» in tal guisa aggravati, indipendentemente dallo specifico titolo di reato, è comprensivo di ogni fattispecie delittuosa, sia consumata che tentata (Sez. 2, n. 22096 del 03/07/2020, Chioccarelli, Rv. 279771-01; successivamente, nello stesso senso, Sez. 1, n. 38603 del 23/06/2021, Cannistrà, Rv. 282049-01).

Nella prima di tali sentenze, relativa a una fattispecie di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, la Corte ha precisato che si deve, invece, escludere l’operatività delle presunzioni ex art. 275, comma 3, cod. proc. pen., per i delitti tentati in relazione alle ipotesi di reato indicate in modo specifico dal legislatore.

3.2. Ciò precisato, con riguardo alla menzionata doppia presunzione relativa nel caso di delitti aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1, comma 1, cod. pen., la Corte di cassazione ha affermato i seguenti principi, che il Collegio condivide:

– in tema di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti di indagato per delitto aggravato dall’art. 7, comma 1, del d.l. n. 152 del 1991, la presunzione relativa di pericolosità sociale di cui all’art. 275, comma 3, terzo periodo, cod. proc. pen., può essere superata solo quando dagli elementi a disposizione del giudice emerga che l’associato abbia stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa. In assenza di tali elementi, il giudice della cautela non ha l’onere di argomentare in ordine alla sussistenza o permanenza delle esigenze cautelari ancorché sia decorso un notevole lasso di tempo tra i fatti contestati in via provvisoria all’indagato e l’adozione della misura cautelare (Sez. 5, n. 35847 del 11/06/2018, C., Rv. 274174-01; in senso analogo: Sez. 1, n. 23113 del 19/10/2018, dep. 2019, Fotia, Rv. 276316-01; Sez. 5, n. 35848 del 11/06/2018, Trifirò, Rv. 273631-01);

– in tema di misure cautelari, la presunzione relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, operante – ai sensi del terzo comma dell’art. 275 cod. proc. pen. – per i delitti aggravati ex art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, può essere superata soltanto quando, in relazione al caso concreto, siano acquisiti elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, non essendo idonea, allo scopo, la mera allegazione del tempo trascorso e della durata della restrizione sofferta (Sez. 2, n. 6574 del 02/02/2016, Cuozzo, Rv. 266236-01; Sez. 1, n. 29530 del 27/06/2013, De Cario, Rv. 256634-01);

– la regola generale contenuta nell’art. 275, comma 3- bis, cod. proc. pen., secondo cui il giudice, nel disporre la custodia in carcere, deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo elettronico, non trova applicazione quando la custodia in carcere venga disposta per uno dei delitti per i quali opera la presunzione relativa di adeguatezza di tale misura, ai sensi del comma 3 del predetto art. 275 (Sez. 2, n. 3899 del 20/01/2016, Martinelli, Rv. 265598-01; Sez. 2, n. 4951 del 12/01/2016, Soleti, Rv. 266152-01; Sez. 1, n. 19234 del 22/12/2015, dep. 2016, Rotari, Rv. 266692-01).

3.3. Nel caso di specie, il Tribunale di Palermo ha sottolineato la vicinanza dell'(OMISSIS) a Giuseppe (OMISSIS), reggente del mandamento mafioso di Bagheria, quale era emersa dai fatti, nonché i precedenti penali, anche specifici, dello stesso (OMISSIS), con ciò senz’altro assolvendo, senza incorrere in illogicità, all’onere motivazionale gravante sul giudice della cautela nelle ipotesi in cui proceda per un reato aggravato ai sensi del comma 1 dell’art. 416-bis.1 cod. pen.

4. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e al pagamento, in favore della cassa delle ammende, della somma di euro tremila.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila  in favore della cassa delle ammende.

Manda la Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.

Così deciso il 4/5/2022.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.