Nonnismo. Pisa, morte del militare dell’esercito avvenuta all’interno del Caserma. La Cassazione attribuisce la giurisdizione al Giudice ordinario (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 4 maggio 2021, n. 17091).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IASILLO Adriano – Presidente

Dott. BIANCHI Michele – Consigliere

Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio – Consigliere

Dott. BINENTI Roberto – Rel. Consigliere

Dott. CENTONZE Alessandro – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul conflitto di competenza sollevato da:

GIP TRIBUNALE MILITARE ROMA

nei confronti di:

GUP TRIBUNALE PISA

MINISTERO DELLA DIFESA

con l’ordinanza del 18/09/2020 del GIP TRIB. MILITARE di ROMA;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Roberto Binenti;

udite le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa Maria Francesca Loy, che ha chiesto di dichiarare la giurisdizione del Tribunale ordinario di Pisa;

udite le conclusioni dell’avvocato Maurizio Greco, per l’Avvocatura generale dello Stato, in difesa del Ministero della difesa, nonché quelle dell’avvocato Maria Alessandra Furnari per la parte civile Isabella Guarino, dell’avvocato Ivan Antonio Albo per la parte civile Francesco Scieri, dell’avvocato Fiorenzo Alessi per l’imputato Andrea Antico e dell’avvocato Ivan Antonio Maria per l’imputato Luigi Zabara, che si sono associati alla richiesta del Pubblico ministero.

RITENUTO IN FATTO

1. In data 5 settembre 2020 i difensori di Luigi Zabara presentavano denuncia di conflitto di giurisdizione nella cancelleria del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Roma, davanti al quale era stata fissata l’udienza preliminare per decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal Procuratore generale militare della Repubblica (dopo l’avocazione delle indagini) nei confronti di Luigi Zabara, Alessandro Panella e Andrea Antico, imputati del reato previsto dagli artt. 195, primo e secondo comma, c.p.m.p. (in relazione agli artt. 575 n. 4 e 61 n. 4 cod. pen.), 61 n. 5 cod. pen. e 47 n. 2 c.p.m.p.

L’imputazione del reato di violenza contro l’inferiore addebitava ai predetti di avere, in concorso, il 13 agosto 1999, all’interno del caserma “Gamerra”, quali militari con il grado di caporale presso il Reparto corsi del Centro Addestramento Paracadutismo, cagionato la morte dell’allievo paracadutista Emanuele Scieri, ponendo in essere contro tale inferiore, per cause non estranee al servizio e alla disciplina militare, atti di violenza e omettendo, dopo i gravi traumi in tal modo cagionatogli, di attivare i necessari soccorsi così da potere evitare il decesso.

La denuncia di conflitto di cui sopra rilevava che per il medesimo fatto era stata avanzata nei confronti degli stessi imputati richiesta di rinvio a giudizio dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pisa e che in relazione a tale richiesta era stata già fissata in data 9 novembre 2020 la trattazione dell’udienza preliminare da parte del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pisa, al quale era attribuibile la giurisdizione in ordine allo stesso fatto contestato.

Nel procedimento davanti all’Autorità giudiziaria ordinaria di Pisa ai medesimi Antico, Panella e Zabara si contestava il reato previsto dagli artt. 110 c.p., 575 e 577, primo comma n. 4) cod. pen. in relazione all’art. 61 n. 1) cod. pen., per avere cagionato, agendo in concorso fra loro, la morte di Emanuele Scieri nelle stesse circostanze di tempo e di luogo di cui sopra, attraverso condotte di violenza poste in danno dell’allievo, la cui descrizione, di contro, escludeva ogni derivazione da cause inerenti al servizio e alla disciplina militare.

All’udienza preliminare celebrata davanti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Roma in data 18 settembre 2020, l’Avvocatura dello Stato, in rappresentanza e difesa del Ministero della difesa (citato quale responsabile civile), depositava memoria, con la quale chiedeva di dichiarare inammissibile la denuncia di conflitto di cui sopra, in ragione dell’insussistenza dei presupposti previsti dall’art. 28 cod. proc. pen., non potendosi ravvisare la contemporaneità della cognizione del procedimento da parte dei due giudici investiti (il G.U.P. di Pisa aveva solo fissato l’udienza preliminare), né l’identità del fatto (non coincidendo le contestazioni mosse nelle diverse sedi) e degli imputati (la richiesta di rinvio a giudizio davanti al giudice ordinario vedeva altresì imputati, dei reati di cui all’art. 378 cod. pen., Enrico Celentano e Salvatore Romondia, loro rispettivamente contestati al capo b) e al capo c).

Con ordinanza emessa alla suddetta udienza del 18 settembre 2020, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Roma, ravvisando il conflitto denunciato, rimetteva gli atti per la risoluzione alla Corte di cassazione.

Osservava che, diversamente quanto esposto nella denuncia di conflitto non poteva far ritenere la giurisdizione del giudice ordinario, in luogo di quella del giudice militare, non sussistendo le “cause estranee al servizio o alla disciplina militare” contemplate dall’art. 199 c.p.m.p., che avrebbero potuto fare escludere l’integrazione della fattispecie speciale configurata dall’art. 195, c.p.m.p.

A ragione, illustrava che il limite negativo di cui sopra all’applicazione delle fattispecie incriminatrici speciali di insubordinazione e di abuso di autorità, rispettivamente previste dal capo terzo e dal capo quarto (contenente quest’ultimo il reato di violenza contro l’inferiore), codice penale militare di pace, può operare solo quando i fatti non coinvolgano in alcun modo la funzione che un militare, con il proprio grado, è chiamato a svolgere, senza che sia richiesta la prova positiva dell’inerenza del fatto criminoso a motivi di servizio e di disciplina.

Tanto evidenziato, aggiungeva che nella specie non risultava alcun genere di conoscenza o di contatto personale prima del fatto fra gli imputati e la persona offesa Emanuele Scieri, giunto nella caserma soltanto poche ore prima.

Anzi, la descrizione dell’intera condotta risultava di difficile, se non impossibile, realizzazione al di fuori dello specifico contesto militare, all’interno del quale era emersa l’esistenza della disdicevole e criminogena prassi di sottoporre le reclute a costanti richiami e a vessazioni da parte dei graduati (“nonnismo”), a mezzo di condotte che strumentalizzavano il rapporto di subordinazione gerarchica.

Sicché, andava ritenuta la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria militare in ordine al reato previsto dall’art. 195 c.p.m.p. come contestato agli imputati.

Con atto del 5 ottobre 2020, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pisa rappresentava le sue osservazioni, ex art. 31, comma 2, cod. proc. pen., a supporto dell’attribuzione della giurisdizione all’Autorità giudiziaria ordinaria.

Rilevava che la tesi contraria si fondava sulla ricostruzione secondo cui il fatto sarebbe stato preceduto dalla contestazione operata dai caporali – quali superiori – della violazione da parte di Scieri della prescrizione di non adoperare il telefono cellulare all’interno della caserma, quando nella prassi tale regola, dopo un certo orario, non aveva vigenza e lo stesso uso del telefonino ad opera dell’allievo era rimasto una mera congettura contrastante con alcune risultanze.

Aggiungeva che in capo agli imputati non esisteva un rapporto gerarchico funzionale e diretto rispetto alla persona offesa.

Gli stessi non erano effettivi nel reparto di addestramento delle reclute e al momento del fatto non erano in servizio, cosicché neppure indossavano la divisa. E anche Scieri si trovava in libera uscita e perciò portava gli abiti civili.

Non solo gli imputati posero in essere atti di violenza fisica nei confronti della vittima, ma la stessa “arrampicata a sole braccia del palco di salita”, configurata come conseguenza di tali atti, non era un esercizio contemplato per la formazione dell’allievo paracadutista.

Ed ancora, il riferimento alla violazione dell’obbligo di prestare soccorso, pure contenuto nell’imputazione davanti all’Autorità giudiziaria militare, traeva spunto da un assunto smentito da precise risultanze: quello secondo cui Scieri, dopo essere precipitato al suolo, si sarebbe trovato nelle condizioni di potere essere salvato.

Tutto ciò, dunque, secondo il GUP di Pisa, dimostrava l’assenza nei fatti di ogni profilo attinente al servizio e alla tutela della disciplina militare, di talché, esclusa la possibilità di ritenere il reato militare ascritto davanti al giudice speciale, la giurisdizione per quello di omicidio spettava al giudice ordinario.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il conflitto, sollevato dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Roma, va risolto attribuendo la giurisdizione al giudice ordinario, ossia al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pisa, per le seguenti ragioni.

2. Va anzitutto osservato che il conflitto risulta ammissibile, sussistendo tutti i presupposti previsti dall’art. 28, comma 1 lett. a), cod. proc. pen.

In primo luogo è rilevabile, in termini concreti e attuali, la contemporaneità della presa di cognizione da parte del giudice speciale e di quello ordinario del medesimo fatto contestato ai medesimi imputati Antico, Panella e Zabara, nello stesso stato del giudizio di primo grado.

Infatti, il giudice ordinario ha tenuto l’udienza fissata a seguito della richiesta di rinvio a giudizio e non ha declinato la propria giurisdizione.

Anzi ancor prima ha trasmesso articolate deduzioni ai sensi dell’art. 31, comma 2, cod. proc. pen., con le quali ha rappresentato le ragioni per cui ha inteso trattenere la propria cognizione quale giudice titolare della giurisdizione.

La stessa discussione davanti a questa Corte ha confermato che il conflitto non è cessato, secondo quanto previsto dall’art. 29, cod. proc. pen.

Quanto al requisito del medesimo fatto, deve ricordarsi che esso nella materia dei conflitti va individuato secondo gli stessi parametri operanti ai fini dell’applicazione della preclusione processuale del “ne bis in idem” che previene il contrasto di giudicati, cioè sotto il profilo della corrispondenza storico- naturalistica, considerando gli elementi costitutivi del reato (condotta, evento, nesso causale) e le circostanze di tempo, luogo e persona (Sez. U., n. 18621 del 23/06/2016, dep. 2017, Zimarmani, Rv. 269586, che, a sua volta, ha richiamato i principi indicati da Sez. U., 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799).

Tale corrispondenza nella specie è chiaramente ravvisabile, poiché le contestazioni mosse nei due procedimenti si riferiscono alle stesse condotte di violenza poste in essere dagli stessi imputati nei confronti della stessa persona, aventi un diretto nesso eziologico rispetto all’evento morte di quest’ultima, nelle stesse circostanze di tempo e di luogo.

Le “frazioni eccedenti” o “difformi” della contestazione rimangono così sullo sfondo, costituendo semplicemente le ragioni del conflitto, poiché da esse deriva solo la diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto secondo il significato storico-naturalistico sopra precisato.

3. Giova, altresì, premettere che in materia di risoluzione dei conflitti, la Corte di cassazione può e deve procedere al di fuori dei limiti propri del giudizio di legittimità, con piena conoscenza degli atti e delle vicende processuali pendenti innanzi ai giudici in conflitto, esercitando, ove necessario, autonomi poteri di integrazione alla stregua di quanto previsto dall’art. 32, comma 1, cod. proc. pen.

Sicché, la Corte di cassazione viene ad operare quale giudice del merito “fattuale”, rimanendo non condizionata nella sua decisione dalle prospettazioni e dalle argomentazioni giuridiche devolute e dalle stesse contestazioni e qualificazioni delle accuse formulate nei procedimenti ove è sorto il conflitto (fra le altre, Sez. 1, n. 43236 del 01/10/2009, Mendico, Rv. 245122).

Come precisato dalla Sezioni Unite, proprio in materia di conflitto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice militare (sentenza Zimarmani sopra citata), la Corte di cassazione, esercitando detti poteri, all’esito della preliminare delibazione in ordine alle risultanze processuali consentita nel particolare caso, deve accertare se la definizione giuridica attribuita al fatto nell’una o nell’altra sede sia corretta, procedendo così essa stessa alla qualificazione del fatto.

Di talché, il fatto storico (medesimo) risulterà penalmente individuato e qualificato, divenendo la sua corretta qualificazione giuridica – come compiuta dalla Corte regolatrice del conflitto – l’effettiva causa determinatrice della giurisdizione.

La qualificazione del fatto può coincidere con quella dell’uno o dell’altro dei giudici in contrasto, così come può essere diversa da entrambe, essendo essenziale che essa provenga dalla valutazione discrezionale della Corte regolatrice degli atti processuali, svincolata da ogni automatismo decisionale, seppur sempre rigorosamente circoscritta a quanto è oggetto di contestazione (per l’appunto “in fatto”).

Resta fermo che il giudizio risolutivo del conflitto di giurisdizione, quale accertamento dotato di effetti preclusivi circoscritti al thema decidendum del conflitto stesso, non si estende al contempo, stante la natura incidentale della decisione emessa ai sensi dell’art. 32 cod. proc. pen., alla valutazione anche solo prognostica della fondatezza o meno delle imputazioni, il cui apprezzamento infatti è sempre riservato al solo giudice della cognizione di merito.

Quest’ultimo, quale giudice designato in forza della risoluzione del conflitto, rimane, quindi, libero di apprezzare il fatto (regiudicanda) e di mutarne anche la qualificazione giuridica ipotizzata dalla Corte regolatrice, con il solo limite di non potere qualificare il fatto rebus sic stantibus come appartenente all’attribuzione di altro giudice, poiché tanto vanificherebbe in modo abnorme la decisione risolutiva del conflitto (art. 32, comma 3, in relazione all’art. 25 cod. proc. pen.).

4. Ai fini della decisione, è possibile esaminare la copiosa documentazione allegata alla denuncia di conflitto davanti al G.U.P. militare e alle osservazioni trasmesse dal G.U.P. ordinario ai sensi dell’art. 31, comma 2, cod. proc. pen.

Nessun’altro atto del procedimento risulta trasmesso dal G.U.P. militare.

Del resto, mette conto di rilevare che in una comunicazione in data 31 ottobre 2019 del Procuratore Generale Militare della Repubblica (allegata alla denuncia di conflitto), tale Autorità giudiziaria rappresentava che le ragioni per le quali riteneva la giurisdizione militare in ordine ai fatti non si basavano su elementi di prova diversi da quelli in possesso dell’Autorità giudiziaria ordinaria, ma attenevano piuttosto alla diversa qualificazione giuridica della condotta.

In ragione di tutto ciò e considerando l’esaustività delle acquisizioni rispetto ai temi di rilievo ai fini della decisione, non si è proceduto a richiedere altri atti.

5. Chiarito quanto sopra in ordine all’ambito dei poteri attribuiti a questa Corte ai fini della risoluzione del conflitto di giurisdizione nella specie sollevato e al possibile confronto con gli atti allegati laddove rilevanti ai fini della decisione, occorre soffermarsi sull’esatta lettura delle condizioni descritte dall’art. 199, c.p.m.p., che escludono il ricorso dei reati previsti dal Libro secondo, Titolo terzo, Capo terzo (reati di insubordinazione) e Capo quarto (reati di abuso di autorità), e dunque anche del reato previsto dall’art. 195, stesso codice (violenza contro l’inferiore), che in una delle forme aggravate previste dal comma secondo si realizza tipicamente attraverso la violenza che dà causa all’omicidio volontario.

L’art. 199 sopracitato, nella sua attuale formulazione, come derivante dalla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale con sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 1991, recita: “Le disposizioni dei capi terzo e quarto non si applicano quando alcuno dei fatti da esse preveduto è commesso per cause estranee al servizio e alla disciplina militare, fuori dalla presenza dei militari riuniti per servizio o a bordo di una nave militare o di un aeromobile militare”.

La sentenza sopra menzionata, in particolare, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma in questione ove prevedeva la non operatività della causa di esclusione dei reati per il solo fatto che le condotte, pur al di fuori dello svolgimento del servizio (in cui si innesta il rapporto gerarchico-disciplinare) fossero poste in essere in “luoghi militari”, diversi dalle navi e dagli aeromobili.

La Corte costituzionale, spiegando le ragioni di tale decisione, ha preso in considerazione la sfera di protezione dei reati di insubordinazione e di abuso di autorità, che riguarda il bene della disciplina militare, sotto il profilo della garanzia del rispetto del rapporto gerarchico intercorrente fra il superiore e inferiore e l’osservanza da parte del primo dei doveri di comportamento inerenti alla propria funzione.

Un presupposto che ricorre in quelle situazioni e in quei rapporti la cui connotazione, “obiettivamente” militare, fa venire in gioco il bene della disciplina e, quindi, la rilevanza del rapporto gerarchico.

Se però il fatto avviene in un “luogo militare”, per cause del tutto estranee al servizio o alla disciplina e al di fuori dallo svolgimento del servizio, così come dalla presenza dei militari riuniti per servizio, la condotta rimane collegata in modo del tutto estrinseco all’area degli interessi militari attinenti alla tutela del servizio e della disciplina, giacché l’unico elemento considerabile si riduce al mero accadimento in uno spazio “militare”, che in sé non può giustificare l’operatività delle fattispecie previste dai capi terzo e quarto.

Come ancora chiarito nella sentenza, i fatti così espunti dalla disciplina speciale, oltre a restare sanzionabili disciplinarmente, possono però integrare i reati previsti dagli articoli da 222 e 229 c.p.m.p.

Tali reati puniscono, tuttavia, fatti diversi da quello – di evento – che cagiona l’omicidio volontario, contemplato di contro dall’art. 195 c.p.m.p.

6. Alcune precisazioni si impongono, a questo punto, a proposito della pratica del “nonnismo” che viene richiamata da entrambi i giudici in conflitto.

Le disdicevoli ragioni di tale pratica e gli atti di sopraffazione che la contraddistinguo non sono in sé ricollegabili al dispiegarsi del rapporto gerarchico, così come al servizio o al rispetto della disciplina militare.

Rilevano, invece, secondo l’essenza dello stesso manifestarsi del fenomeno, le vessatorie condizioni di integrazione che vengono imposte ai nuovi arrivati in un gruppo che già vive e interagisce socialmente in un determinato luogo in cui debbono svolgersi certe attività.

Tale contesto è individuabile nella caserma nel caso del “nonnismo” militare, ma può anche essere costituito da un altro luogo, nel quale, sul piano delle distorte relazioni sociali proiettate all’interno di un certo gruppo, possono innescarsi le stesse dinamiche di sopraffazione di tipo ambientale.

Il genere di dominio alla base delle prove vessatorie cui viene sottoposta la recluta, dunque, è ricollegabile non già al grado e all’esercizio dei poteri dei superiori, bensì a un'”anzianità” della presenza nel gruppo in un certo contesto ambientale che resta, appunto, estranea alle ragioni del servizio e della disciplina militare.

A fronte di ciò, la giurisprudenza di legittimità, proprio richiamando le spiegazioni illustrate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 22 del 1991, ha già espresso l’orientamento, da ribadire in questa sede, secondo il quale, in ambito militare, i comportamenti violenti connessi al fenomeno del cosiddetto “nonnismo” non sono costitutivi del reato di cui all’art. 195 c.p.m.p. (violenza contro un inferiore) in quanto non sono posti in essere per motivazioni inerenti al servizio e alla disciplina militari, non rientrando siffatti comportamenti in questo ambito, né essendo essi tali da turbare l’ordinato svolgersi del rapporto gerarchico, alla cui sola tutela presiede la norma in esame.

Le predette condotte possono essere perseguite a norma di altre disposizioni del codice penale militare di pace (come nel caso delle percosse di cui all’art. 222 di tale codice) ovvero del codice penale ordinario (come nel caso della violenza privata prevista dall’art.610 cod. pen.), ricorrendone le rispettive condizioni, ma non possono integrare una delle figure di reato di cui al Capo terzo e al Capo quarto del Titolo terzo del Libro secondo del c.p.m.p., non incidendo sull’oggetto giuridico protetto dalle relative disposizioni (Sez. 1, n. 4139 del 31/01/1995, Quercia, Rv. 200792).

7. Da quanto appena esposto risulta, dunque, con chiarezza che nella specie l’evocazione della pratica del “nonnismo” operata dal Giudice militare segna in sé l’allontanamento dei tratti della condotta dall’essenza dello svolgimento del servizio in cui si innesta il rapporto gerarchico-disciplinare, in modo da deporre nel senso dell’applicazione dell’esclusione contemplata dall’art. 199 c.p.m.p.

Tanto a fronte di un fatto verificatosi nel momento in cui gli autori della condotta (destinatari di una licenza breve) e la vittima (appena rientrata dalla libera uscita), in assenza di precise relazioni funzionali dirette, per il tipo di collocazione delle rispettive figure nell’organigramma militare, non erano impegnati in attività di servizio e perciò si trovavano in caserma in abiti civili.

La caserma, quindi, si presenta solo come il luogo in cui si verificava il fatto.

Poste queste premesse, rimane privo di significato ogni riferimento alla violazione di doveri militari – e certamente prima ancora delle primarie regole di convivenza e di rispetto umano, a prescindere da ogni gerarchia istituzionale – insita in atti di spregiudicata e brutale violenza del genere di quelli configurati.

Al riguardo, va rilevato che vi è piena concordanza nella descrizione delle accuse nelle diverse sedi, comportante una dinamica, come desunta dagli esiti degli accertamenti medico-legali allegati, che vedeva gli autori del fatto fiaccare la resistenza di Scieri tramite violenti colpi, mentre egli saliva, in condizioni di insostenibile stress, la scala della torre di prosciugamento dei paracadute.

La stessa descrizione contenuta nel capo di imputazione elevato dall’Autorità militare dà contezza, come del resto è di palmare evidenza, che non erano Ile le condizioni di addestramento, sempreché si fosse trattato di una pratica (nella medesima descrizione si precisa correttamente “con le dovute cautele”) astrattamente rientrante nei piani di esercitazione riservati alle reclute.

Sfugge poi quale correlazione potrebbero avere simili atti con la semplice contestazione dell’utilizzo del telefonino nelle particolari condizioni date, le quali ragionevolmente svuotavano di significato ogni possibile vigenza di una regola che, per di più, in dette condizioni, secondo gli atti allegati, non era considerata.

L’inconducenza della prospettazione di tale antefatto ai fini citati dal G.U.P. militare va tanto più affermata alla luce degli altri atti allegati, che conducono a rilevare come il tipo di iniziativa (la contestazione della violazione) costituisca un’ipotesi rimasta, nei presupposti (l’uso del telefonino), per nulla acclarata e, anzi, in apparenza smentita dai dati relativi ai tabulati del traffico telefonico.

La rappresentazione della contestazione mossa dall’Autorità giudiziaria militare, dopo avere anch’essa dato contezza del rapporto causale fra la condotta degli imputati e il precipitare di Scieri al suolo da un’altezza di cinque metri in modo da derivarne gravissime lesioni, addebita agli imputati la violazione dello specifico dovere di comportamento militare di chiedere gli interventi di soccorso sanitario, specificando che essi, ove tempestivi, avrebbero impedito la morte.

Ma, nel contesto della stessa descrizione si rileva che Scieri giaceva a terra “agonizzante”, ossia già prossimo alla morte, lì dove veniva abbandonato dagli autori del fatto: costoro, in effetti, coerentemente con l’intera ricostruzione del tipo di condotta, semplicemente si dileguavano per sfuggire all’individuazione.

Per altro verso, quello del nesso fra la morte e il ritardo di un soccorso che avrebbe potuto evitarla è un assunto che appare smentito dall’allegazione di una più recente relazione di consulenza in data 11 giugno 2020, nella quale sì dà atto, quanto alla causa e ai tempi del decesso, che è stata rilevata “la presenza di numerose fratture a più vertebre cervicali che hanno certamente provocato un danno midollare importante con elevatissima probabilità di morte in breve tempo”, sottolineandosi più avanti (dopo altre considerazioni): “La causa del decesso si traduce pertanto in lesioni cervicali midollari da politrauma contusivo da precipitazione.

Il tempo di sopravvivenza, secondo la letteratura medica attuale, è stato molto breve, con una morte che è sopravvenuta istantaneamente o quasi. Pertanto, la gravità delle lesioni riportate condusse certamente ad un rapido arresto delle funzioni vitali quantificabile in minuti”.

8. Sotto nessun profilo è, quindi, possibile ritenere la non operatività nella specie, secondo la corretta individuazione del fatto, dell’ipotesi di esclusione del reato militare di violenza contro l’inferiore prevista dall’art. 199 c.p.m.p.

Sicché, alla stregua di tutto quanto rilevato, venendo meno la configurabilità della fattispecie speciale, l’esatta qualificazione della condotta risulta solo quella del reato di omicidio volontario assegnato alla giurisdizione del giudice ordinario.

La giurisdizione, in ordine al medesimo fatto per cui contemporaneamente procedono le Autorità giudiziarie in conflitto, da qualificarsi come omicidio volontario, va dunque attribuita al Giudice ordinario del Tribunale di Pisa.

P.Q.M.

Dichiara la giurisdizione del giudice ordinario.

Dispone trasmettersi gli atti al Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Pisa e manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 32, comma 2, cod. proc. pren.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2021.