Operaio, ufficialmente in malattia, viene trovato a lavorare nel bar della moglie. Licenziato.

(Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 14 ottobre 2015 – 15 gennaio 2016, n. 586)

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Roma, D.A. dedusse di aver lavorato alle dipendenze dell’Associazione CNOS-FAP Regione Lazio dall’1.11.1999 al 2.3.2007 in qualità di operaio ausiliario di I livello; che era stato licenziato dalla datrice di lavoro a seguito di contestazione disciplinare del 16 febbraio 2007, relativa allo svolgimento di attività lavorativa in favore di terzi in costanza di assenza per malattia nel medesimo mese di febbraio; che il recesso aziendale era da ritenersi illegittimo sotto vari profili e comunque privo di giusta causa, essendo egli affetto da uno stato patologico tale che gli consentiva di uscire in qualunque ora del giorno mentre in ogni caso, anche ammesso che si recasse nell’esercizio commerciale (bar) gestito dalla di lui moglie, non vi era la prova che egli avesse svolto attività lavorativa in favore della coniuge all’interno dei bar.

Il Tribunale respingeva il ricorso, ritenendo legittima la procedura di irrogazione della sanzione posta in essere dal datore di lavoro; provati gli addebiti e sussistente la proporzionalità della sanzione adottata.

Avverso tale sentenza proponeva appello l’A.; si costituiva l’appellata resistendo al gravame di cui chiedeva il rigetto.

Con sentenza depositata il 28 febbraio 2012, la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame, ritenendo provato raddebito e legittima la sanzione irrogata.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso A., affidato a due motivi, poi illustrati con memoria. Resiste Associazione con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).

Lamenta che la Corte di merito ritenne provato raddebito sulla base della testimonianza M. (dipendente della società investigativa incaricata dalla datrice di lavoro), e dei rapporto da questi redatto, senza tener conto di alcune significative circostanze: innanzitutto che il giorno 1°febbraio 2007 aveva accompagnato la figlia presso il Policlinico per una visita specialistica, come risultava dalla relativa documentazione prodotta sin dal primo grado, circostanza ignorata sia dal Tribunale che’ dalla Corte di merito, nonostante specifica censura al riguardo. D’altro canto evidenzia che la relazione dell’investigaltore era priva di allegazioni fotografiche, sicché, essendo emerso che solo in occasione dei 1°febbraio 2007 il teste sarebbe entrato nel bar constatando l’attività lavorativa del ricorrente, mentre nelle altre giornate si sarebbe solo trattenuto all’esterno dell’esercizio commerciale, non era stata raggiunta alcuna prova certa di un effettivo svolgimento di attività lavorativa presso terzi, salvo, in tesi, il 1°febbraio.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n.5 c.p.c.).

Lamenta che la valutazione della Corte di merito circa la gravità della sua condotta presenta vizi logici e giuridici, non avendo considerato che secondo il costante insegnamento di legittimità, lo svolgimento di attività lavorativa in favore di terzi durante l’assenza per malattia, rileva unicamente allorquando tale attività lavorativa possa pregiudicare la guarigione, ovvero quando, secondo le concrete risultanze di causa, essa faccia presumere l’inesistenza o simulazione dello stato morboso. Evidenzia l’A. che nella specie la sua infermità (sindrome ansioso depressiva) era ampiamente documentata, mentre la natura stessa della patologia consigliava l’uscita da casa e la stessa frequentazione del bar della moglie costituivano elementi atti (e non contrari) a favorire la sua guarigione.

3. I motivi, che per la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte inammissibili e per il resto infondati.

Inammissibili in primo luogo in quanto nella sostanza diretti entrambi, nonostante l’invocazione, nel primo motivo, dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., ad un riesame delle circostanze di fatto, precluso al giudice di legittimità.

Deve infatti considerarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito Oll’art. 360, comma primo, n. 5) cod. proc. civ., ivi compreso quello denunciato sub violazione dell’art.115 e\o 116 c.p.c. (cfr. Cass. n. 15205\14), non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice dei merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta dei tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Né, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se – confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie – prendesse d’ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice dei merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso “sub specie” di omesso esame di un punto decisivo.

Del resto, il citato art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ. non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. (Cass. 6 marzo 2006 n. 4766; Cass. 25 maggio 2006 n. 12445; Cass. 8 settembre 2006 n. 19274; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27168; Cass. 27 febbraio 2007 n. 4500; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394; Cass.5 maggio 2010 n.10833, Cass. n.15205\14).

D’altro canto, comq osservato da Cass. sez. un. 25.10.2013 n. 24148, la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, dei procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione.

Nella specie deve osservarsi che la Corte di merito, nell’ambito dei prudente apprezzamento delle circostanze di fatto ad essa spettante, ha logicamente evidenziato che dalla relazione del M., e dalla relativa deposizione testimoniale, era emersa la prova dello svolgimento, costante e non episodico, di attività lavorativa presso l’esercizio commerciale della moglie da parte del ricorrente.

Occorre peraltro evidenziare che il ricorrente lamenta l’omesso esame di documenti che non produce o riproduce in ricorso, in violazione del principio di autosufficienza e dell’art. 369 c.p.c. Ancora, il ricorrente non chiarisce (tanto meno producendo, come necessario, i relativi atti processuali) in quale sede, quando ed in quali termini fu sottoposta al giudice d’appello la doglianza dell’omesso esame del documento inerente la visita specialistica della figlia, in contrasto col principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione.

I motivi, e segnatamente il secondo, sono parimenti inammissibili laddove mirano, ancora, ad un diverso apprezzamento dei fatti, in particolare circa la particolarità della patologia sofferta e la sua compatibilità con lo svolgimento di attività lavorativa non pesante.

Essi sono poi infondati laddove non considerano che sarebbe stato onere dei lavoratore dimostrare la compatibilità dell’attività lavorativa svolta in favore di terzi con l’infermità determinante l’assenza dal lavoro con l’Associazione datrice di lavoro e col recupero delle energie lavorative (ex multis, Cass. n.4237\2015, Cass. 19.12.2000 n. 15916).

Deve infine evidenziarsi linconferenza della giurisprudenza citata (in particolare Cass. n. 6375\2011), inerente lo svolgimento, da parte del lavoratore assente per malattia, dei normali atti della vita quotidiana con espressa esclusione dell’attività lavorativa presso terzi.

Parimenti inconferente risulta il richiamo alla sentenza n.4237\2015 di questa Corte, contenuto nella memoria ex art. 378 c.p.c., che, oltre a ribadire che grava sul lavoratore assente per malattia l’onere di dimostrare la compatibilità del lavoro nelle more svolto presso terzi con l’infermità denunciata, e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico­fisiche (onere probatorio rimasto nella specie non assolto), ha ribadito che le relative valutazioni sono riservate al giudice del merito (Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916 cit.; Cass. 13 aprile 1999, n. 3647), riguardando peraltro il caso di lavoratore infortunato e non ammalato (laddove solo la malattia comporta, in via generale, una impossibilità di attendere all’attività lavorativa), ove era pacifico che l’attività lavorativa svolta durante la malattia presso terzi non avesse pregiudicato la sua guarigione.

4.-Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell’art. 13, comma i quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalli L. 24.12.12 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese dei presente giudizio di legittimità, che liquida in €.100,00 per esborsi, €.3.000,00 per compensi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, dei d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.