(Corte di Cassazione Penale, sez. VI, sentenza 13 ottobre 2017, n. 49267)
…, omissis …
Sentenza
sul ricorso proposto da F.C., nato a ….. il ../../…., avverso la sentenza del 01/12/2016 della Corte di appello di B.
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Anna Criscuolo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Gianluigi Pratola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore, avv. OMISSIS, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Ritenuto in fatto
1. In parziale riforma della sentenza del Tribunale di Bergamo del ……. appellata da F. C., la Corte di appello di Brescia ha riconosciuto in relazione al capo B) la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen., ritenuta equivalente all’aggravante di cui all’art. 640, comma secondo n.1, cod. pen., e ha rideterminato la pena inflitta in un anno, mesi undici e giorni quindici di reclusione e la durata della pena accessoria, confermando nel resto la sentenza appellata.
L’imputato, in qualità di comandante della stazione carabinieri di F., è stato ritenuto responsabile del reato di peculato d’uso dell’autovettura di servizio, utilizzata in due occasioni per fini privati (la prima volta per accompagnare a casa una conoscente e la seconda per recarsi presso l’ospedale di Piano e sottoporsi a visita), contestato al capo A);
del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato per aver attestato falsamente di aver svolto quattro ore di lavoro straordinario e percepito indebitamente il relativo compenso di 27,52 euro, contestato al capo B);
del reato continuato di falso in atto pubblico relativamente a detta falsa attestazione ed alla mancata annotazione della deviazione dall’itinerario di servizio prescritto, di cui al capo A), contestato al capo C), e del reato di tentata concussione, così riqualificato il reato di cui al capo D), originariamente contestato come abuso d’ufficio, per aver minacciato F. A., creditore della sua amica N. S., di fargli subire un’ispezione da un maresciallo della Finanza, che lo avrebbe sistemato, al fine di ottenere la rinuncia ad esigere il credito.
2. Avverso la sentenza propone ricorso il difensore del F., che ne chiede l’annullamento per i seguenti motivi:
2.1 erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 314 cod. pen. e mancanza di motivazione: si deduce l’insussistenza del reato per mancanza di offensività del fatto, in quanto in entrambi gli episodi la deviazione dal territorio di competenza risulta minima con danno patrimoniale cornmisurabile in pochi euro.
Si contesta la mancata valutazione della lesione in concreto arrecata alla funzionalità dell’ufficio, limitata nel primo episodio ad un ritardo nell’intervento, nel secondo ad una richiesta di intervento, girata ad altri.
2.2 erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 640 comma 2, cod. pen., in quanto la Corte di appello ha riconosciuto la minima entità del danno, ma ha ugualmente ritenuto sussistente il reato, pur difettando l’offensività del fatto.
Si deduce che la Corte di appello ha erroneamente sovrapposto il concetto di offensività a quello di integrazione della condotta tipica.
2.3 erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 479 cod. pen., non essendo riconducibili al falso in atto pubblico le attestazioni relative alla presenza in ufficio, in quanto riguardano solo il computo degli emolumenti da corrispondere al lavoratore per l’attività prestata; la Corte di appello ha escluso che le annotazioni fossero frutto di errore, ritenendo che le due ore di straordinario annotate il 27 ottobre 2011 integrassero il falso, mentre in tal caso il ricorrente si recò legittimamente presso il pronto soccorso e nel secondo caso la condotta non rientra nel falso per omissione, non trattandosi di omissione di dichiarazioni ricevute dal pubblico ufficiale o di un atto posto in essere dal pubblico ufficiale, cui si addebita la mancata annotazione della deviazione di percorso compiuta il 19 ottobre 2011.
2.4 erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 56-317 cod. pen.: si deduce che la Corte di appello si è limitata ad analizzare una parte della condotta, negando valore ad altra parte della stessa cioè all’incontro in ufficio con il F., svoltosi in modo assolutamente tranquillo e tale da escludere la rilevanza penale del fatto e della precedente minaccia.
Si sostiene che nel caso di specie sia mancata la coercizione della vittima, non essendo stato il F. intimorito, tanto da aver riscosso il proprio credito: vi è pertanto, inidoneità della condotta ed anche la mancanza di una condotta illecita del ricorrente, che non commise alcun abuso, limitandosi a minacciare di segnalare alla Guardia di Finanza l’illecito tributario commesso dal F., del quale era venuto a conoscenza.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile perché reitera le censure già formulate in appello, esaminate e disattese dalla Corte territoriale con motivazione congrua, puntuale e non manifestamente illogica.
2. Manifestamente infondate sono le censure relative ai due episodi di peculato d’uso.
La Corte di appello, pur non negando la contenuta entità del danno economico cagionato alla pubblica amministrazione per essere state le deviazioni di percorso limitate a pochi Km, ha valorizzato le modalità dei fatti, rimarcando l’assenza di uno stato di necessità in entrambi gli episodi, la priorità accordata ad interessi privati e la disfunzione creata, distogliendo anche l’altro militare dal servizio e procurando un disservizio, atteso che in entrambe le occasioni erano giunte richieste di intervento: nel primo caso l’intervento fu differito ed eseguito in ritardo, nel secondo caso la richiesta di intervento per un incidente stradale fu dirottata ad altro corpo di polizia.
Tali valutazioni complessive dei fatti, coerenti con la pacifica natura plurioffensiva del delitto di peculato, giustificano l’esclusione dell’inoffensività dei fatti.
3. Analoga valutazione va espressa per le censure relative alla truffa ai danni dello Stato ed al reato di falso.
3.1. Correttamente la Corte di appello ha riconosciuto la modesta entità del danno economico cagionato alla pubblica amministrazione per effetto delle false annotazioni, singolarmente coincidenti con i due episodi descritti al punto che precede, ma ha ritenuto ugualmente sussistente il reato, connesso ai relativi falsi commessi, escludendo la tesi dell’errore, in quanto logicamente necessari per non far emergere documentalmente le deviazioni di percorso effettuate per dare in passaggio alla conoscente e per recarsi in ospedale durante l’orario di servizio.
Tali argomenti privano di rilievo la dedotta inoffensività della truffa e l’insussistenza del falso in atto pubblico, trattandosi di circostanze non vere, attestate in un atto destinato a provarne l’effettività in relazione ad un’attività d’ufficio in realtà non svolta.
4. Manifestamente infondato è anche l’ultimo motivo relativo al tentativo di concussione, in quanto la Corte di appello ha correttamente letto la condotta complessiva del ricorrente, non limitatosi ad una prima minaccia fatta per telefono in forma anonima, ma autore di una telefonata ufficiale, con abuso della qualità di comandante della stazione CC ed intimazione al F. di non chiamare più la N., seguita dal male minacciato “a lei l’aggiusto io”, tale da escludere, per sequenza e intensità crescente, l’inidoneità del tentativo, anche alla luce del comportamento successivo (pag. 12 della sentenza impugnata).
4.1. Correttamente la minaccia di far svolgere accertamenti dalla G. di F., legittima, secondo la prospettazione del ricorrente, per il mancato rilascio di fatture per i pagamenti sino ad allora eseguiti dalla N., è stata ritenuta idonea ad integrare il tentativo di coartazione della volontà del F., stante la nettezza della minaccia, per indurlo a non richiedere più il pagamento del debito ed altrettanto correttamente è stato rimarcato che la convocazione del F. in caserma per vicende private della N., amica del ricorrente, non poteva ritenersi priva di rilievo, ponendosi nella stessa linea della condotta precedente e costituendo un ulteriore ed efficace tentativo di esercitare pressioni sul creditore.
5. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, equitativannente determinata in euro duemila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende.