Per fame e per procurarsi soldi per la droga, ruba oggetti e alimentari dall’interno di un garage condominiale: non è una giustificazione (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 11 giugno 2021, n. 23130).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia – Presidente

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere

Dott. NARDIN Maura – Consigliere

Dott. DAWAN Daniela – Rel. Consigliere

Dott. ESPOSITO Aldo – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS) IVAN nato a (OMISSIS) il 27/04/19xx;

avverso la sentenza del 24/02/2020 della CORTE APPELLO di BRESCIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa DANIELA DAWAN;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. LUIGI GIORDANO che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Bresca ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Brescia, all’esito di giudizio abbreviato, nei confronti di (OMISSIS) (OMISSIS) Ivan ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 624-bis, cod. pen., perché, scavalcata la recinzione ed introdottosi nelle pertinenze dell’abitazione privata di (OMISSIS) Francesco, in particolare nel garage, si impossessava di un decespugliatore e di alcuni prodotti alimentari che prelevava dal freezer per un valore complessivo di circa 180 euro, così sottraendoli al legittimo proprietario.

2. Avverso la prefata sentenza ricorre il difensore dell’imputato, mediante la formulazione di cinque motivi con cui deduce violazione di legge e vizio di motivazione, rispettivamente in ordine:

2.1 alla scriminante dello stato di necessità ex art. 54 cod. pen.

La Corte territoriale non ha tenuto conto del fatto che l’imputato, tossicodipendente, ha commesso il fatto per procurarsi del cibo ovvero oggetti di facile rivendita al fine di reperire il denaro necessario per fare fronte alle proprie necessità e dipendenze;

2.2. alla mancata applicazione dell’art. 626, comma 1, n. 2, cod. pen. in considerazione del modesto costo di mercato del decespugliatore (di poco superiore ai 100 euro), la Corte di appello avrebbe dovuto riqualificare il fatto ai sensi dell’art. 626, comma 1, n. 2, cod. pen.;

2.3. alla mancata riqualificazione del reato nell’ipotesi tentata, atteso che il (OMISSIS) non è mai stato perso di vista dall’agente di polizia il quale, come si legge nel verbale di arresto del 09/07/2019, ha ammesso di averlo visto uscire dall’abitazione della persona offesa con un tagliasiepi elettrico;

2.4. alla mancata riqualificazione del reato ai sensi dell’art. 624 cod. pen.

Dalla nozione di “privata dimora” devono, infatti, essere esclusi i luoghi oggetto di occasionale frequentazione e che non abbiano, come appunto nel caso di specie, scopo abitativo o dove si svolga la vita privata, in conformità all’individuazione della nozione offerta dalla giurisprudenza di legittimità.

Peraltro, lo stabile, ove è avvenuto il furto, era stato lasciato aperto: verrebbe così a mancare il requisito della non accessibilità del luogo da parte di terzi estranei e non autorizzati dal titolare;

2.5. al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4 cod. pen., in considerazione del valore complessivo dei beni sottratti pari a 200 euro, e alla mancata disapplicazione della contestata recidiva, in considerazione del fatto che il reato de quo è frutto di un bisogno estemporaneo, volto alla soddisfazione di esigenze primarie dell’imputato, non certo espressione di un’accresciuta pericolosità sociale.

Si aggiunga che il (OMISSIS) ha offerto piena collaborazione sia al momento dell’arresto che in sede di udienza di convalida.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Esso, infatti, costituisce mera riproposizione di questioni già sottoposte al giudice a quo e da questi debitamente risolte.

Alle censure reiterate con il presente ricorso, la Corte territoriale ha, infatti, fornito adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che il ricorrente tuttavia non ha in alcun modo considerato e di cui non ha in sostanza tenuto conto al fine di confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato limitandosi, in maniera per l’appunto inammissibilmente generica, a lamentare presunte ma inesistenti violazioni di legge.

Si deve, invero, ricordare che è inammissibile, ai sensi del combinato disposto dell’art. 581, comma 1, lett. c), e art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., il ricorso per cassazione fondato, come nel caso in esame, su motivi che ripropongono acriticamente le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dai giudici del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici, ed anzi, meramente apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso il provvedimento oggetto di ricorso.

La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di mancanza di specificità, conducente, a norma dell’art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., all’inammissibilità (Sez. 2, n, 42046 del 17/07/2019, Boùtartour Sami, Rv. 277710; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849).

3. Con riferimento al primo motivo, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che la necessità di procurarsi cibo o denaro per acquistare sostanze stupefacenti non costituisca una situazione che integri lo stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen.

Con riguardo alla necessità di rifornirsi di stupefacente, il Collegio osserva che non ricorre lo stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen. in presenza dello stato di tossicodipendenza, neppure se il soggetto versi in crisi di astinenza, trattandosi della conseguenza di un atto di libera scelta e, quindi, dallo stesso evitabile (Sez. 6, n. 45069 del 24/09/2014).

Quanto alla situazione di indigenza, essa, come ricorda la sentenza impugnata, non è di per sé idonea ad integrare la scriminante dello stato di necessità per difetto degli elementi dell’attualità e dell’inevitabilità del pericolo, atteso che alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale (Sez. 3, n. 35590 del 11/05/2016, Mbaye, Rv. 267640; Sez. 5, n. 3967 del 13/07/2015, dep. 2016, Petrache, Rv. 265888).

4. Con riferimento al secondo motivo, occorre ricordare che il furto lieve per bisogno, di cui all’art. 626, comma 1, n. 2, cod. pen., è configurabile nei casi in cui la cosa sottratta sia di valore tenue e sia effettivamente destinata a soddisfare un grave ed urgente bisogno e che, per far degradare l’imputazione da furto comune a furto lieve, non è sufficiente la sussistenza di un generico stato di, bisogno o di miseria dell’autore, occorrendo, invece, una situazione di grave e indilazionabile bisogno alla quale non possa provvedersi se non sottraendo la cosa (Sez. 5, n. 32937 del 19/05/2014, Stanciu, Rv. 261658).

A questi principi si è attenuta la sentenza impugnata laddove, con motivazione logica e congrua, ha affermato che il decespugliatore sottratto non rientra tra i beni di tenue valore e che lo stesso non era idoneo a soddisfare alcun grave e urgente bisogno.

5. Quanto alla riproposizione della questione della natura tentata del furto, non sussistono né l’erronea applicazione della legge penale nella qualificazione giuridica del fatto né il vizio di motivazione, censurati nel terzo motivo di ricorso.

La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi che individuano il momento di consumazione del delitto di furto, in quanto «il criterio distintivo tra consumazione e tentativo risiede nella circostanza che l’imputato consegua, anche se per breve tempo, la piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva» (Sez. 5, n. 48880 del 17/09/2018, S,. Rv. 274016; Sez. 5, n. 26749 del 11/04/2016, Ouerghi, Rv. 267266), di guisa che «risponde di furto consumato e non semplicemente tentato chi, dopo essersi impossessato della refurtiva, non si sia ancora allontanato dal luogo della sottrazione e abbia esercitato sulla cosa un potere del tutto momentaneo, essendo stato costretto ad abbandonarla subito dopo il fatto per il pronto intervento dell’avente diritto o della polizia» (Sez. 5, n. 7704 del 05/05/1993, Gallo ed altri, Rv. 194483).

Ai fini della configurazione dell’autonoma disponibilità della cosa, che segna il momento acquisitivo a cui l’impossessamento è funzionale, non rileva il dato temporale ex se, essendo sufficiente che l’agente abbia conseguito anche solo momentaneamente l’esclusiva signoria di fatto sul bene, assumendo, invece, decisivo rilievo la effettiva concretizzazione del rischio di definitiva dispersione, anche se questa non si sia, di fatto, realizzata per l’intervento di fattori causali successivi ed autonomi.

In altri termini, l’agente acquisisce l’autonoma disponibilità della cosa sottratta — e la fattispecie si realizza in forma consumata – solo quando il soggetto passivo del reato ne perda, correlativamente, la detenzione, anche mediata attraverso forme indirette di vigilanza e custodia.

In riferimento al monitoraggio dell’azione da parte delle Forze dell’ordine, secondo il costante avviso della giurisprudenza di legittimità, integra il reato di furto nella forma consumata la condotta di colui che, subito dopo l’impossessamento, venga inseguito e bloccato dalla polizia giudiziaria che lo aveva osservato a distanza perché detta osservazione non assume rilevanza ai fini della configurabilità del reato nella forma tentata, atteso che essa non solo non avviene ad opera della persona offesa, ma neppure impedisce il conseguimento dell’autonomo possesso della res, prima dell’arresto in flagranza (Sez. 5, n. 26749 del 11/04/2016, cit.).

Nel caso in esame, correttamente il Giudice di merito ha ritenuto configurata la concreta fattispecie nella forma consumata.

Premesso che l’agente di polizia non ha seguito lo svolgersi dell’azione criminosa – perché, dopo avere, in un primo tempo, notato l’imputato, lo aveva poi perso di vista per poi scorgerlo mentre usciva dal giardino dell’abitazione scavalcando la recinzione – e che, nel caso di specie, non si è realizzata una situazione assimilabile a quella del furto in supermercato (quando, in una situazione di vigilanza continua, è possibile che l’agente non riesca a conseguire l’effettiva disponibilità della refurtiva), rileva che l’imputato è stato bloccato e perquisito quando già era in possesso della refurtiva, dopo avere scavalcato la recinzione dell’immobile ed aver, quindi, conseguito un’autonoma ed effettiva disponibilità dei beni sottratti.

6. Il quarto motivo di ricorso con cui si contesta la ricorrenza, nella fattispecie, del reato di cui all’art. 624-bis cod. pen., è manifestamente infondato.

Va subito detto che l’art. 624-bis cod. pen. – che punisce chi si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto, mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa- intende tutelare non solo la privata dimora in sé ma, come si evince testualmente dalla formulazione della norma, anche i luoghi costituenti pertinenza di essa.

Viene, nel caso di specie, in questione il tema relativo all’inquadramento o meno nell’ambito di una “pertinenza” del garage di un’abitazione privata.

Al quesito va data risposta positiva, atteso che questo (così come l’androne di uno stabile) rientra nell’ambito della tutela dei beni predisposta dall’art. 624-bis cod. pen., essendo, in ogni caso, incontrovertibile la sua natura pertinenziale dell’abitazione collocata nello stabile condominiale (Sez. 4, n. 5789 del 04/12/2019, dep. 2020, Gemottine Wester Michael, Rv. 278446; Sez. 5, n. 1278 del 31/10/2018, dep. 2019, Sini Luca, Rv. 274389).

Dei richiamati principi la sentenza impugnata ha fatto buon governo, ricordando come dalla denuncia della persona offesa risultasse che i beni si trovavano nel garage posto al piano terra dell’abitazione della persona offesa.

7. Manifestamente infondato si presenta anche il quinto motivo di ricorso con il quale si censura il mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4 e la mancata disapplicazione della contestata recidiva, con riguardo ad entrambi i profili, la motivazione si appalesa adeguata, perché non manifestamente illogica e contraddittoria.

La Corte di appello ha, infatti, ritenuto che il valore dei beni, tra cui un decespugliatore, di circa 180,00 euro non sia da considerarsi tenue, anche perché «avrebbe comunque imposto alla persona offesa un non irrisorio sacrificio patrimoniale per ricomprare l’attrezzo necessario alla pulizia del giardino».

Evidenzia poi, con corretto argomentare giuridico, che avendo il primo giudice già concesso le attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva e determinato la pena nel minimo edittale, il riconoscimento dell’ulteriore attenuante non avrebbe potuto avere alcuna positiva conseguenza sul piano sanzionatorio, «trattandosi di attenuanti che, ai sensi dell’art. 69, comma 4, c.p., non possono essere valutate con giudizio di prevalenza sulla recidiva aggravata».

Anche con riguardo a quest’ultima la sentenza impugnata si rivela incensurabile, atteso che, richiamati gli innumerevoli precedenti penali dell’imputato per i reati di furto, rapina, estorsione, osserva che la commissione del furto in abitazione di cui al presente procedimento rappresenta certamente un indice di ulteriore pericolosità dell’imputato, il quale continua a delinquere nonostante le precedenti condanne.

8. All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 20 gennaio 2021.

Depositato in cancelleria l’11 giugno 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.