Per la Cassazione è legittimo il sequestro della Postepay su cui l’indagato riceveva il reddito di cittadinanza dividendolo con la compagna (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 2 novembre 2020, n. 30302).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IZZO Fausto – Presidente

Dott. MARINI Luigi – Consigliere

Dott. ANDREAZZA Gastone – Consigliere

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere

Dott. CERRONI Claudio – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Colombo Giovanni, nato a Porto Empedocle il xx/xx/19xx;

avverso l’ordinanza del 13/05/2020 del Tribunale di Agrigento;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Claudio Cerroni;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Pasquale Fimiani, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 13 maggio 2020 il Tribunale di Agrigento, quale Giudice delle misure cautelari reali, ha rigettato la richiesta di riesame proposta da Giovanni Colombo – indagato per il reato di cui all’art. 7, comma 1, del decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito nella legge 28 marzo 2019, n. 26 – nei confronti del sequestro preventivo del 28 febbraio 2020 emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, avente ad oggetto la carta Poste Pay sulla quale venivano erogati gli emolumenti riferibili al cd. reddito di cittadinanza, oggetto del richiamato provvedimento legislativo.

2. Avverso la predetta decisione è stato proposto ricorso per cassazione articolato su due motivi di impugnazione.

2.1. Col primo motivo, invocando vizio motivazionale, il ricorrente ha lamentato la mancata considerazione delle circostanze di avvenuta presentazione della richiesta, quanto alla situazione di convivenza con Daniela Catalano, allontanatasi dall’abitazione comune ma destinataria di metà del reddito di cittadinanza percepito dal ‘ricorrente.

Né il provvedimento impugnato aveva motivato quanto alla mancata conoscenza del rapporto di lavoro di costei, peraltro di brevissima durata. Né risultava essere stata contestata al ricorrente la posizione di James Burgio, figlio della convivente, né la posizione di costui era stata mai indicata nell’istanza di concessione del beneficio.

2.2. Col secondo motivo, in ordine alla violazione della legge penale ed all’elemento psicologico del reato contestato, la fattispecie era punita a titolo di dolo, mentre in proposito il Colombo non era a conoscenza dell’attività lavorativa della Catalano una volta allontanatasi dalla residenza familiare, sì che poteva al più ricondursi a colpa del ricorrente la condotta da costui tenuta.

Né infine sussisteva alcun periculum in mora, stante la ragionevole previsione che non vi sarebbe stata alcuna restituzione d’indebito in favore dell’Istituto previdenziale.

3. Il Procuratore generale ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è inammissibile.

4.1. I motivi di impugnazione possono essere esaminati congiuntamente, attesa la stretta connessione esistente tra i medesimi.

Al riguardo, il provvedimento impugnato ha dato conto dei requisiti per procedere alla conferma del vincolo reale apposto sulla carta Poste pay, assumendo al riguardo l’esistenza tanto del fumus quanto del periculum.

In proposito, il fumus commissi delicti per l’adozione di un sequestro preventivo, pur non dovendo integrare i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 cod. proc. pen., necessita comunque dell’esistenza di concreti e persuasivi elementi di fatto, quantomeno indiziari, che consentano di ricondurre l’evento punito dalla norma penale alla condotta dell’indagato (Sez. 5, n. 3722 del 11/12/2019, dep. 2020, Gheri, Rv. 278152).

Laddove, in ogni caso, può essere rilevato anche il difetto dell’elemento soggettivo del reato, purché esso emerga ictu oculi (cfr. ad es. Sez. 2, n. 18331 del 22/04/2016, Iomnni e altro, Rv. 266896; cfr. inoltre Sez. 3, n. 26007 del 05/04/2019, Pucci, Rv. 276015).

Del pari, quanto al periculum, esso deve presentare i requisiti della concretezza e attualità e richiede che sia dimostrato un legame funzionale essenziale, e non meramente occasionale, fra il bene e la possibile commissione di ulteriori reati o l’aggravamento o la prosecuzione di quello per cui si procede (Sez. 3, n. 42129 del 08/04/2019, M., Rv. 277173).

4.2. Ciò posto, è stato già osservato da questa Corte che integrano il delitto di cui all’art. 7, d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, le false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del “reddito di cittadinanza”, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio (Sez. 3, n. 5289 del 25/10/2019, dep. 2020, Sacco, Rv. 278573).

In proposito, invero, è stato colà previsto che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni” (comma 1).

Mentre “l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’articolo 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni” (comma 2).

4.2.1. Alla stregua di quanto precede, pertanto, e fatte salve le successive determinazioni quanto alla corretta qualificazione della condotta e ad ogni indagine eventuale sull’elemento soggettivo del comportamento, il ricorrente ha quantomeno dato conto di avere percepito il reddito di cittadinanza peraltro ammettendo di averne ripartito in fatto il corrispettivo con la sua ex convivente (allontanatasi dall’alloggio comune), in buona sostanza così decidendo autonomamente di destinare il sussidio secondo proprie valutazioni slegate dai requisiti di legge, tra l’altro al venire meno della situazione di convivenza e senza fornire alcuna informazione circa la modificazione dello stato personale, con ogni incidenza sulle ricadute economiche.

4.2.2. Al riguardo le considerazioni svolte dall’ordinanza impugnata non possono che essere integralmente condivise, quantomeno in relazione alla fase processuale cautelare in cui esse sono intervenute.

5. In ragione pertanto dei principi esposti, l’impugnazione si pone nel perimetro della manifesta infondatezza, con la conseguente inammissibilità del ricorso.

5.1. Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favo della Cassa delle ammende.

Così deciso in data 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.