Pubblico impiego. Inps. Somministrazione lavoro a termine. Risarcimento danni (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 1 settembre 2023, n. 25640).

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCIA TRIA                           -Presidente

Dott. CATERINA MAROTTA          -Consigliere

Dott. ANDREA ZULIANI                -Consigliere Rel.

Dott. NICOLA DE MARINIS          -Consigliere

Dott. MARIA LAVINIA BUCONI    -Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29856/2018 R.G. proposto da

ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo legale rappresentante pro tempore,  rappresentato e difeso dagli avv. (omissis) (omissis) ed elettivamente domiciliato presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto in (omissis) (omissis)

– ricorrente –

contro

(omissis)  (omissis) rappresentata e difesa dall’avv. (omissis) (omissis) ed elettivamente domiciliata presso lo  studio del difensore, in (omissis)

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 845/2017, depositata il 6.4.2018 della Corte d’Appello di Venezia;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’8.6.2023 dal Consigliere dott. Andrea Zuliani.

FATTI DI CAUSA

La Corte di Appello di Venezia, pronunciandosi sull’appello proposto dall’INPS, in parziale riforma della sentenza n. 384/2015 del Tribunale di Padova, in funzione di giudice del lavoro, confermò l’illegittimità del ricorso alla somministrazione di lavoro da parte dell’allora INPDAP e condannò l’Istituto previdenziale a corrispondere alla lavoratrice, attuale controricorrente, un’indennità risarcitoria pari a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in tal modo riducendo il risarcimento accordato dal giudice di primo grado nella misura di 12 mensilità.

Contro la sentenza della corte d’appello l’INPS ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi.

La lavoratrice si è difesa con controricorso, depositando altresì memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi degli artt. 375 e 380-bis.1 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo l’INPS denuncia «violazione/falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ovvero, in particolare, dell’art. 6 legge 604/1966, come modificato dall’art. 32 legge n. 1S3/2010 (art. 360, n. 3, c.p.c.), in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. ed, in particolare, del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU».

1.1. Il motivo è volto a ribadire la doppia eccezione di decadenza sollevata ai sensi dei primi due commi dell’art. 6 della legge 604 del 1966, come novellati dall’art. 32, comma 1, della legge n. 183 del 2010; eccezione già disattesa dalla corte d’appello sulla base della ritenuta inapplicabilità ratione temporis della disposizione di legge asseritamente violata, posto che il comma 1-bis del medesimo art. 6 (comma aggiunto dall’art. 2, comma 54, del decreto legge n. 225 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 10 del 2011) dispone: «In sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all’articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011».

1.2. Il motivo è inammissibile.

1.2.1. Innanzitutto, la corte d’appello ha richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo cui «il differimento al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento riguarda tutti gli ambiti di novità di cui al novellato 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604, e dunque non solo l’estensione dell’onere di impugnativa stragiudiziale ad ipotesi in precedenza non contemplate ma anche l’inefficacia di tale impugnativa, prevista dal comma 2 del medesimo art. 6» (Cass. n. 15434/2014, conf. a Cass. n. 9203/2014; conformi, successivamente, Cass. nn. 14406/2015 e 23865/2016).

Nulla deduce parte ricorrente per rimettere in discussione tale consolidato orientamento giurisprudenziale, con ciò che ne consegue ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c.

1.2.2. In secondo luogo, il motivo è incongruo laddove cita giurisprudenza che, ben lungi dall’essere utile all’accoglimento del ricorso, depone in senso esattamente contrario, perché afferma che il regime della decadenza di cui al novellato 6 legge n. 604 del 1966 si applica ai soli contratti a termine in somministrazione in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 183 del 2010 (24.11.2010). È infatti lo stesso ricorrente che, per indicare la decorrenza dell’eccepita decadenza, sottolinea che il contratto di lavoro per cui è causa era cessato il 16.7.2010.

È ovvio che l’inapplicabilità del nuovo regime della decadenza porta con sé anche l’inapplicabilità della relativa proroga disposta dal citato comma 1-bis, ma solo nel senso che non è neanche necessario fare riferimento alla proroga per confermare la correttezza del rigetto dell’eccezione di decadenza.

2. Con il secondo motivo, si denuncia «nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, 4, c.p.c.), in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. ed, in particolare, del comma 2, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU».

2.1. Il ricorrente riproduce nel testo del ricorso l’intero contenuto dell’atto d’appello (62 pagine), per poi aggiungere che «Sul punto nella sentenza qui impugnata nulla si legge, se non una laconica conferma della decisione di primo grado».

2.2. Anche questo motivo, per come formulato, è inammissibile, in mancanza di quel minimo di sinteticità e di chiarezza che consenta di capire quale sia lo specifico «punto» sul quale la corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi.

La breve illustrazione che segue alla ripresa testuale di tutto l’atto d’appello non va oltre una generica critica per la ritenuta insufficienza della motivazione, la quale è incentrata sulla ripresa di precedenti conformi della medesima corte territoriale adottati in cause del tutto analoghe alla presente.

È appena il caso di aggiungere che l’insufficiente motivazione – esclusa l’assenza di motivazione, apoditticamente affermata nel ricorso – non potrebbe in ogni caso costituire un vizio censurabile in sede di controllo di legittimità, ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

3. Il terzo motivo è rubricato «violazione/falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ovvero, in particolare, degli 20 e ss. del d.lgs. n. 276/2003, (art. 360, n. 3, c.p.c.), in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. ed, in particolare, del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU».

3.1. Il ricorrente contesta alla corte territoriale di avere ritenuto illegittima la stessa genericità delle indicazioni contenute nei contratti di somministrazione in merito alle ragioni del ricorso al lavoro somministrato a tempo determinato e di non avere considerato valida ragione giustificatrice l’impossibilità per l’INPDAP di svolgere la propria attività ordinaria – in particolare con riferimento alla gestione e alla dismissione del patrimonio immobiliare – a causa del blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione che non permetteva di far fronte in altro modo all’ordinario flusso dei pensionamenti dei lavoratori a tempo indeterminato.

3.2. Il motivo è infondato, dovendosi dare continuità all’orientamento che questa Corte ha già espresso in casi analoghi a quello qui in esame (Cass. 139S2/2022; 9310/2023).

3.2.1. Questa Corte ha affermato (v. n. 446/2021) che, in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di illegittima o abusiva successione di contratti di somministrazione di lavoro a termine, pur essendo esclusa, ai sensi dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 86, comma 9, del d.lgs. n. 276 del 2003, la trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato, si verifica in ogni caso la sostituzione della pubblica amministrazione utilizzatrice nel rapporto di lavoro a termine e il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno parametrato alla fattispecie di portata generale di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come «danno comunitario», determinato tra un minimo e un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto.

Tale disciplina appare conforme allo scopo della direttiva 200S/104/CE, la quale, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia (sentenza del 14 ottobre 2020 in causa C- 681/18), è finalizzata a far sì che gli Stati membri si adoperino affinché il lavoro tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice non diventi una situazione permanente per uno stesso lavoratore (principio affermato in una fattispecie in cui, essendosi concluso il rapporto dopo l’entrata in vigore della direttiva n. 2008/104/CE, ma prima della scadenza del termine fissato per la sua trasposizione nell’ordinamento interno, il giudice nazionale era tenuto ad applicare il diritto interno, ma senza poterne dare un’interpretazione difforme dagli obiettivi della direttiva).

La Corte di Giustizia ha concluso che l’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della direttiva 2008/104/CE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che non limita il numero di missioni successive che un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale può svolgere presso la stessa impresa utilizzatrice e che non subordina la legittimità del ricorso al lavoro tramite agenzia interinale all’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustifichino tale ricorso.

Per contro, tale disposizione deve essere interpretata nel senso che essa osta a che uno Stato membro non adotti alcuna misura al fine di preservare la natura temporanea del lavoro tramite agenzia interinale, nonché ad una normativa nazionale che non preveda alcuna misura al fine di evitare l’assegnazione ad un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale di missioni successive presso la stessa impresa utilizzatrice con lo scopo di eludere le disposizioni della direttiva 2008/104 nel suo insieme.

Si aggiunga che l’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, già nella versione di cui all’art. 4, comma 2, del d.l. n. 4 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 80 del 2006, aveva previsto:

«1-bis. Le amministrazioni possono attivare i contratti di cui al comma 1 solo per esigenze temporanee ed eccezionali e previo esperimento di procedure inerenti assegnazione di personale anche temporanea, nonché previa valutazione circa l’opportunità di attivazione di contratti con le agenzie di cui all’art. 4, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, per la somministrazione a tempo determinato di personale, ovvero di esternalizzazione e appalto dei servizi».

Nella successiva versione vigente dal 1°.1.2008 al 24.6.2008, il testo della legge era il seguente:

«1. Le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa se non per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi, fatte salve le sostituzioni per maternità relativamente alle autonomie territoriali. Il provvedimento di assunzione deve contenere l’indicazione del nominativo della persona da sostituire.

2. In nessun caso è ammesso il rinnovo del contratto o l’utilizzo del medesimo lavoratore con altra tipologia

3. Le amministrazioni fanno fronte ad esigenze temporanee ed eccezionali attraverso l’assegnazione temporanea di personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a sei mesi, non

4. Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 non possono essere derogate dalla contrattazione collettiva .».

Nella versione vigente dal 24.6.2008 si legge:

«2. Per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro, in applicazione di quanto previsto dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, dall’articolo 3 del decreto legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, dall’articolo 16 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 per quanto riguarda la somministrazione di lavoro, nonché da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina con riferimento alla individuazione dei contingenti di personale utilizzabile. Non è possibile ricorrere alla somministrazione di lavoro per l’esercizio di funzioni direttive e dirigenziali.

3. Al fine di evitare abusi nell’utilizzo del lavoro flessibile, le amministrazioni, nell’ambito delle rispettive procedure, rispettano principi di imparzialità e trasparenza e non possono ricorrere all’utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell’arco dell’ultimo quinquennio».

Ancora, il testo della versione vigente dal 5.8.2009 al 30.10.2013 era il seguente:

«2. Per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro, in applicazione di quanto previsto dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, dall’articolo 3 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, dall’articolo 16 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 per quanto riguarda la somministrazione di lavoro, nonché da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina con riferimento alla individuazione dei contingenti di personale utilizzabile ed il lavoro accessorio di cui alla lettera d), del comma 1, dell’articolo 70 del medesimo decreto legislativo n. 276 del 2003, e successive modificazioni ed integrazioni. Non è possibile ricorrere alla somministrazione di lavoro per l’esercizio di funzioni direttive e dirigenziali.

3. Al fine di combattere gli abusi nell’utilizzo del lavoro flessibile, entro il 31 dicembre di ogni anno, sulla base di apposite istruzioni fornite con Direttiva del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, le amministrazioni redigono, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, un analitico rapporto informativo sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate da trasmettere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, ai nuclei di valutazione o ai servizi di controllo interno di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, nonché alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento della Funzione pubblica che redige una relazione annuale al Parlamento. Al dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato».

In definitiva, in tutte le versioni dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, il ricorso al contratto a termine e, più in generale, ai contratti di lavoro flessibile è consentito solo a fronte di comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, nel senso che non possono riferirsi ad un fabbisogno ordinario.

La somministrazione di lavoro, forma flessibile di lavoro richiamata anche dall’indicato art. 36, già prevista dagli artt. 20 e ss. del d.lgs. 276 del 2003, è ora disciplinata dagli artt. 30-40 del d.lgs. n. 81 del 2015.

L’art. 20, comma 4, del d.lgs. 276 del 2003, nella versione originaria prevedeva che:

«4. La somministrazione di lavoro a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore. La individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi in conformità alla disciplina di cui all’articolo 10 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368».

L’art. 21, comma 3, del d.lgs. 276 del 2003, nella versione originaria precisava:

«3. Le informazioni di cui al comma 1, nonché la data di inizio e la durata prevedibile dell’attività lavorativa presso l’utilizzatore, devono essere comunicate per iscritto al prestatore di lavoro da parte del somministratore all’atto della stipulazione del contratto di lavoro ovvero all’atto dell’invio presso l’utilizzatore».

Le suddette disposizioni sono sostanzialmente rimaste invariate nelle versioni successive del testo di legge, fino alla loro abrogazione da parte del d.lgs. n. 81 del 2015.

Quest’ultimo, all’art. 30, così dispone:

«Il contratto di somministrazione di lavoro è il contratto, a tempo indeterminato o determinato, con il quale un’agenzia di somministrazione autorizzata, ai sensi del decreto legislativo 276 del 2003, mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore».

All’art. 33 si legge:

«2. Con il contratto di somministrazione di lavoro l’utilizzatore assume l’obbligo di comunicare al somministratore il trattamento economico e normativo applicabile ai lavoratori suoi dipendenti che svolgono le medesime mansioni dei lavoratori da somministrare e a rimborsare al somministratore gli oneri retributivi e previdenziali da questo effettivamente sostenuti in favore dei lavoratori.

3. Le informazioni di cui al comma 1, nonché la data di inizio e la durata prevedibile della missione, devono essere comunicate per iscritto al lavoratore da parte del somministratore all’atto della stipulazione del contratto di lavoro ovvero all’atto dell’invio in missione presso l’utilizzatore».

L’art. 34, poi, recita:

«2. In caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 21, comma 2, 23 e 24. Il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore».

Se è vero che non si può ricavare un limite di tempo, che non è fissato dalla legge (si veda, anche nel sopravvenuto d.lgs. 81 del 2015, l’espressa esclusione dell’applicazione degli artt. 21, comma 2, 23 e 24, relativi al contratto di lavoro a tempo determinato), di certo va valorizzato il fatto che con l’introduzione delle variegate forme flessibili di lavoro nelle pubbliche amministrazioni il legislatore ha sempre previsto la necessità di esigenze temporanee: così ha fatto sia con l’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 (che, nelle varie versioni, al comma 2, ha elencato le tipologie di lavoro flessibile utilizzabili dalla pubbliche amministrazioni: contratti di lavoro a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro, somministrazione di lavoro a tempo determinato), sia con gli artt. 20 e 21 del d.lgs. n. 276 del 2003.

L’interpretazione delle norme sulla somministrazione nel senso della temporaneità è l’unica conforme al diritto dell’Unione, perché evita una contrarietà alla direttiva sulla somministrazione come interpretata dalla Corte di Giustizia. L’obbligo di interpretazione conforme riguarda anche le disposizioni anteriori alla direttiva, come chiarito dalla Corte di Giustizia.

Alla luce delle precedenti considerazioni deve, dunque, ritenersi che, ai sensi del combinato disposto dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 e del d.lgs. 276/2003 (ora d.lgs. n. 81 del 2015), la somministrazione a tempo determinato è legittima anche nell’ambito della pubblica amministrazione, quando non sia tale da eludere la natura temporanea del lavoro tramite agenzia.

3.2.2. Nel caso di specie la ricorrente è stata assunta da più agenzie di somministrazione di lavoro, in forza di successivi contratti di lavoro a tempo determinato, per essere destinata a svolgere mansioni di impiegata amministrativa a favore dell’INPDAP, ente utilizzatore, in un arco temporale pressoché ininterrotto che va dal 5.2006 al 16.7.2010, con effetti, dunque, che si sono prodotti anche dopo l’entrata in vigore della direttiva 2008/104/CE.

Ciò premesso, la corte d’appello ha fatto corretta applicazione dei principi espressi da questa Corte, non limitandosi a considerare la genericità del dato testuale dei singoli contratti di somministrazione di lavoro a termine, ma evidenziando che le ragioni indicate dall’INPDAP per giustificare il ricorso alla somministrazione rivelano una necessità duratura nel tempo e non riferita a situazioni contingenti da fronteggiare con il ricorso temporaneo al lavoro somministrato.

Nella motivazione della sentenza impugnata si legge il pertinente rilievo che «l’INPDAP per soddisfare una esigenza “produttiva” di carattere “strutturale” (tale deve essere inteso un riassetto sul piano patrimoniale di dimensioni notevolissime) ha adottato una surrettizia forma di reclutamento straordinario di personale realizzatasi con uno strumento che, ben lungi dall’essere impiegato per una esigenza transitoria, aveva nell’obiettivo finale della dismissione del patrimonio immobiliare il suo naturale termine».

Del resto, il sottodimensionamento dell’organico dovuto al blocco delle assunzioni nel pubblico impiego unito al fisiologico fenomeno dei pensionamenti rivela indubbiamente una necessità di forza lavoro duratura nel tempo e non riferita a situazioni contingenti da fronteggiare con il ricorso temporaneo al lavoro somministrato.

La considerazione, posta in evidenza dal ricorrente, che le ragioni del ricorso al lavoro a termine somministrato sono legittime «anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore», è corretta (art. 20, comma 4, d.lgs. n. 276 del 2003), ma non significa che sia consentito utilizzare tale forma di lavoro agile per fare fronte all’ordinario, e non transeunte, fabbisogno di prestazioni lavorative. La destinazione dei lavoratori somministrati all’attività ordinaria del datore di lavoro (consentita), è infatti cosa ben diversa dall’utilizzazione di quei lavoratori per esigenze di lavoro ordinarie e – non temporanee, ma – continuative.

4. Con il quarto motivo l’INPS lamenta la «violazione/falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ovvero, in particolare, degli 27 e 86 del d.lgs. n. 276/2003, dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, dell’art. 2043 c.c. e dell’art. 2697 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.), in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. ed, in particolare, del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU».

4.1. Il ricorrente contesta alla corte d’appello di avere liquidato in favore della lavoratrice un danno in re ipsa al di fuori dell’ambito di applicabilità del d. «danno comunitario», risarcibile a prescindere da allegazione e prova, ma solo nel caso della illegittima reiterazione di contratti a tempo determinato e non anche in quello della somministrazione illegittima.

4.2. Il motivo è infondato.

È sufficiente al riguardo ribadire quanto statuito da questa Corte (Cass. n. 446/2021, già citata), secondo cui, con specifico riferimento ai contratti di somministrazione: «In materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di illegittima o abusiva successione di contratti di lavoro a termine, pur essendo esclusa, ai sensi dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 86, comma 9, del d.lgs. n. 276 del 2003, la trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato, si verifica in ogni caso la sostituzione della pubblica amministrazione- utilizzatrice nel rapporto di lavoro a termine e il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno parametrato alla fattispecie di portata generale di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo e un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto. Tale disciplina appare conforme allo scopo della direttiva 2008/104/CE, la quale, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia (sentenza del 14 ottobre 2020 in causa C-681/18), è finalizzata a far che gli Stati membri si adoperino affinché il lavoro tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice non diventi una situazione permanente per uno stesso lavoratore».

Il principio si pone peraltro in evidente segno di continuità con la giurisprudenza delle Sezioni Unite (n. 5072/2016), in cui la questione del risarcimento del danno c.d. comunitario è stata affrontata in termini generali.

5. Infine, il quinto motivo denuncia «violazione/falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ovvero, in particolare, degli 2043 e 2948 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.), in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. ed, in particolare, del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU».

5.1. Il ricorrente contesta l’affermazione della corte d’appello secondo cui l’azione svolta dalla lavoratrice ha natura contrattuale ed è soggetta alla prescrizione ordinaria decennale, sostenendo che si tratti invece di azione extracontrattuale assoggettata alla prescrizione breve quinquennale.

5.2. Il motivo è inammissibile, perché manca qualsiasi riferimento alla rilevanza, ai fini della decisione, della questione di diritto posta dal Il ricorrente nemmeno afferma che, prima della presentazione della domanda giudiziale, fosse maturata la prescrizione, ove ritenuto applicabile il termine più breve quinquennale. E, del resto, come rilevato dalla controricorrente – e come risulta dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso – il rapporto di lavoro a termine cessò nel luglio 2010 e il ricorso al giudice del lavoro per il risarcimento del danno venne depositato il 16.8.2011.

È stato già più volte affermato che, poiché l’interesse ad impugnare con il ricorso per cassazione discende dalla possibilità di conseguire, attraverso il richiesto annullamento della sentenza impugnata, un risultato pratico favorevole, è necessario, anche in caso di denuncia di un errore di diritto ex art. 360, n. 3, c.p.c., che la parte ottemperi al principio di autosufficienza del ricorso (correlato all’estraneità del giudizio di legittimità all’accertamento del fatto), indicando in maniera adeguata la situazione di fatto della quale chiede una determinata valutazione giuridica, diversa da quella compiuta dal giudice a quo, asseritamente erronea (Cass. nn. 14279/2017; 11731/2011).

6. Respinto il ricorso, le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo, con distrazione in favore del difensore che ne ha fatto richiesta.

7. Ai sensi del P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis del medesimo art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 4.000,00 per compensi, oltre ad € 200,00 per esborsi, al rimborso delle spese generali nella misura del 15% e agli accessori di legge, con distrazione in favore del difensore antistatario;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di raddoppio del contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto.

Così deciso in Roma, lì 8.6.2023.

Il Presidente

Dott.ssa Lucia TRIA

Depositata in Cancelleria il 1° settembre 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.