Quando può essere giustificata la condotta diffamatoria? (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 9 aprile 2024, n. 14402)

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

QUINTA SEZIONE PENALE

Composta da

Dott. Gerardo Sabeone – Presidente –

Dott. Giuseppe De Marzo – Consigliere –

Dott. Francesco Cananzi – Consigliere –

Dott. Michele Cuoco – Relatore –

Dott. Anna Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(omissis) (omissis) nato a Catanzaro il xx gennaio 19xx;

avverso la sentenza del 21 febbraio 2023 della Corte d’appello di Venezia;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Michele Cuoco;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa Lucia Odello, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

lette le memorie depositate l’11 gennaio e il 23 gennaio 2024, con la quale, si insiste per l’accoglimento del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. (omissis) (omissis) impugna la sentenza con la quale la Corte d’appello di Venezia, in parziale riforma della condanna pronunciata in primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato per essere il reato ascrittogli estinto per prescrizione, ma ha confermato le statuizioni civili di condanna.

Secondo la prospettazione accusatoria, la diffamazione si sarebbe sostanziata nelle affermazioni rese dallo (omissis) in un comunicato stampa, pubblicato sul sito internet dell’organizzazione sindacale di appartenenza, relativo ad un intervento dei Carabinieri del Nucleo Operativo di Padova, svoltosi all’interno di un condominio, al fine di effettuare una perquisizione nei confronti di una persona indagata per spaccio di stupefacenti e per il quale i Carabinieri, al fine di simulare una fuga di gas e non insospettire il soggetto indagato, avevano chiesto l’ausilio dei Vigili del Fuoco.

Comunicato il cui titolo riportava:

“Vigili del Fuoco: USB denuncia, a Padova Carabinieri vestiti da VV.F. insieme a veri pompieri costretti a partecipare ad un arresto”, e nel cui corpo si affermava: “all’apertura della porta – aggiunge il responsabile USB – è conseguito un parapiglia pericolosissimo terminato con l’arresto dei presunti spacciatori, in cui è stato coinvolto il personale VV.F. che, nel caso fosse scattato un conflitto a fuoco, sarebbe stato privo di protezione”; circostanze queste risultate, secondo la prospettazione accusatoria, del tutto prive di fondamento; con le aggravanti dell’offesa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato e commessa con il mezzo di pubblicità (internet).

Il Tribunale, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti, ha condannato l’imputato alla pena ritenuta di giustizia e al conseguente risarcimento dei danni, individualmente liquidati per ciascuna parte civile costituita.

La Corte d’appello, invece, per come si è detto, investita dell’impugnazione proposta dall’imputato e rilevato il maturare del termine prescrizionale, ha dichiarato l’estinzione del reato, ma, ritenuto sussistente l’illecito civile, ha confermato la condanna al risarcimento dei danni subiti nella misura indicata in primo grado.

2. Il ricorso, proposto nell’interesse dell’imputato, si compone due motivi di censura, ulteriormente sviluppati nella memoria depositata l’11 gennaio 2024.

2.1. Il primo deduce, sotto il profilo della violazione di legge, l’improcedibilità dell’azione penale per difetto di querela, rilevando, in particolare, l’obiettiva indeterminatezza del destinatario della critica espressa e, conseguentemente, il difetto di legittimazione dei singoli carabinieri, non riconoscibili né come persone offese, né tanto meno come soggetti danneggiati dal reato, non essendo in grado l’utenza media del sito internet e dei giornali che hanno riportato la notizia di risalire facilmente gli agenti intervenuti.

2.2. Il secondo motivo, invece, è formulato sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione e attiene all’applicabilità della scriminante dell’esercizio del diritto di critica sindacale.

Le affermazioni contenute nel comunicato stampa, si sostiene, sono state esternate da un rappresentante sindacale, all’interno di una precisa vertenza che caratterizza, in generale, l’azione e gli obiettivi dell’organizzazione di cui il ricorrente è dirigente e, rappresentando una soggettiva valutazione di un dato storico (inserire gli appartenenti del corpo nazionale dei Vigili del Fuoco nell’ambito di un’operazione di polizia giudiziaria avrebbe snaturato la funzione e gli scopi del corpo ed esposto il personale a possibili rischi diversi da quelli direttamente connessi alloro compiti istituzionali), non potrebbe essere valutata alla luce di un criterio di veridicità, ontologicamente incompatibile con l’evidenziata natura valutativa dell’affermazione, ben potendo il rappresentante sindacale compiere una lettura o una rivisitazione dei fatti traendone la conclusione che ritiene coerente con il modo di gestire gli interessi di categoria.

D’altronde, la nozione di “critica”, quale espressione della libera manifestazione del pensiero, rimanda non solo all’area dei rilievi problematici, ma, anche e soprattutto, a quella della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo. Categorie dialettiche legittimamente compatibili con l’uso di termini che, pur oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, ove risultino non meramente gratuiti e pertinenti al tema in discussione.

Gli unici limiti astrattamente concepibili rispetto all’oggetto della libera manifestazione del pensiero sarebbero rinvenibili, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall’art. 2 Cost., onde non sarebbe consentito attribuire ad altri fatti non veri (venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione), né trasmodare nella invettiva gratuita.

In questi termini, aggiunge il ricorrente, anche la giurisprudenza della Corte EDU, nella quale è stato affermato significativamente che la libertà di pensiero si deve considerare pietra angolare di una società democratica non solo in relazione alle informazioni o alle idee accolte con favore o ritenute inoffensive o indifferenti, ma anche rispetto a “quelle che offendono, feriscono o turbano”, in nome del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura, senza i quali non vi sarebbe società democratica (Corte eur. dir. uomo, Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, nonché Oberschlick c. Austria, 10 giugno 1997).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Va premesso che l’individuazione del soggetto passivo, nei reati di diffamazione, deve avvenire attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali, i quali devono essere valutati complessivamente, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre; così da potersi individuare, con ragionevole certezza, l’offeso e desumere la piena e immediata consapevolezza, da parte di chiunque abbia letto l’articolo, dell’identità del destinatario della diffamazione (Sez. 5, n. 8208 del 10/01/2022, Ciocchetti, Rv. 282899).

Ebbene, la Corte ha dato atto, facendo corretta applicazione di tali principi, di come la mancata esplicitazione dei nomi dei militari intervenuti fosse circostanza irrilevante, in quanto ad essi era possibile facilmente risalire alla luce delle modalità particolarmente evidenti e del conseguente risalto dell’operazione.

2. Il secondo motivo è, invece, fondato.

I fatti trovano la loro genesi, secondo la ricostruzione esposta nella sentenza impugnata, nella pubblicazione di un comunicato stampa sul sito internet di un’organizzazione sindacale (della quale l’imputato era dirigente) relativo ad un intervento dei Carabinieri del Nucleo Operativo di Padova, svoltosi all’interno di un condominio, per il quale i Carabinieri, al fine di simulare una fuga di gas e non insospettire il soggetto indagato, avevano chiesto l’ausilio dei Vigili del Fuoco.

Il profilo di censura attiene alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato (quanto alla concreta offensività dello scritto) e della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen., ritenuta configurabile dalla difesa alla luce del ruolo ricoperto dall’imputato (quale rappresentante di un’associazione sindacale), della chiara finalità perseguita (difendere l’intera categoria in conseguenza delle modalità di realizzazione dell’intervento), della coerenza delle forme utilizzate e del contenuto intrinsecamente non offensivo.

Va premesso che la condotta diffamatoria si sostanzia, nella sua oggettiva materialità, nella propalazione di notizie lesive della reputazione di un individuo, intesa come l’insieme delle qualità morali, intellettuali e fisiche da cui dipende il valore della persona nel contesto sociale in cui vive.

Sotto il profilo metodologico, l’accertamento dell’offensività della condotta contestata (immediatamente valutabile anche da questa Corte, quale elemento costitutivo della materialità della condotta contestata: Sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014, Rv. 26128401; Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, Rv. 278145) impone un apprezzamento sistematico delle parole, scritte o pronunciate, rilevando, sotto tale profilo, esclusivamente il significato obiettivo che l’espressione contestata assume all’interno di un determinato ambiente e in uno specifico contesto storico, non le sconvenienze, né l’infrazione alla suscettibilità o alla gelosa riservatezza (Sez. 5, n. 3247 del 28/02/1995, Rv. 201054), ma solo quelle propalazioni che incidono, nella loro oggettività e secondo il comune senso di decoro, sulla considerazione che la persona (diffamata) ha acquisito, in quel contesto storico, all’interno del gruppo sociale ove essa è inserita.

Una condotta oggettivamente diffamatoria, tuttavia, può essere giustificata dall’esercizio della libera manifestazione del proprio pensiero (posto a fondamento del diritto di critica), purché, all’interno di un generale contemperamento di pari diritti di libertà, si rispetti la veridicità della notizia divulgata (in mancanza della quale la critica sarebbe pura congettura e mera occasione di dileggio e mistificazione) e si utilizzino forme espositive corrette, strettamente funzionali alle finalità di disapprovazione, che non trasmodino nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione (Sez. 5, n. 43403 del 18/06/2009, Rv. 245098).

Ciò premesso, com’è stato più volte evidenziato da questa Corte, il tratto caratteristico del diritto di critica, quale diretta manifestazione della libertà di manifestazione del pensiero, consiste nel fatto che esso si manifesta attraverso giudizi e valutazioni. In ciò la differenza rispetto al diritto di cronaca (che dei fatti è – tendenzialmente – fredda rappresentazione): espressione di un giudizio, il diritto di critica; rappresentazione di fatti, il diritto di cronaca.

Ebbene, il giudizio, in quanto tale, è fondato su un’interpretazione necessariamente soggettiva dei fatti e dei comportamenti (Sez. 5, n. 6493 del 16/04/1993, Pandolfo), rispetto al quale non si può prospettare un profilo di veridicità o meno dello stesso, ontologicamente incompatibile con la natura valutativa dell’affermazione (che, non essendo espressione di “discrezionalità tecnica”, è in sé sganciata da criteri oggettivi di riferimento).

Gli unici limiti, quindi, rimangono quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla continenza delle espressioni utilizzate, dovendosi considerare superati tali limiti solo ove l’agente trascenda in attacchi personali, diretti a colpire su un piano individuale la sfera morale, penalmente protetta, del soggetto criticato, trasmodando, in questo caso, la “valutazione” in una mera aggressione verbale del soggetto criticato, non funzionale all’esercizio degli interessi sindacali.

È pur vero che esiste sempre un fatto (esso stesso oggetto di valutazione), ma il giudizio valutativo, in quanto tale, è diverso da esso e, a differenza di questo, non può esse sindacato in termini di veridicità.

Pretendere di sindacare anche il giudizio (e non solo il fatto) in termini di veridicità, com’è stato lucidamente osservato (Sez. 5, n. 17784 del 07/03/2022, Guidi, Rv. 283252), significherebbe sindacare la legittimità stessa del contenuto del pensiero, imponendo, surrettiziamente, un criterio di “normalizzazione” delle idee, conformandole ad un criterio predeterminato di giudizio. Laddove la concreta possibilità delle diverse idee di esprimersi (e circolare) diviene un indice fondamentale per misurare il grado di democraticità di un sistema politico (art. 10 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 4 novembre 1950).

E tanto impone, da un canto, di interpretare restrittivamente le eccezioni alle quali tale libertà è soggetta ai sensi (CEDU Kaperzyríski c. Polonia, 3 aprile 2012, par. 54), dall’altro, il divieto, per il legislatore nazionale, di richiedere la prova della verità per le affermazioni che consistono in meri giudizi di valore (CEDU Pedersen e Baadsgaard c. Danimarca, 17 dicembre 2004, par. 76).

Ebbene, questa Corte ha fatto costantemente applicazione di questi principi contestualizzando le espressioni utilizzate, ancorché esse stesse “violente” (Sez. 5, n. 46424 del 25/09/2013, Rv. 257586, con riferimento all’espressione “mascalzone”, che, una volta contestualizzata nell’ambito di una polemica sindacale, perde l’oggettivo impatto diffamatorio); valutando la funzionalità delle rivendicazioni salariali, giudizialmente riconosciute, degli operai, in buona parte immigrati, rispetto alla disapprovazione della condotta di sfruttamento e delle idee “razziste” espresse sul profilo “facebook” dal datore di lavoro (Sez. 5, n. 17784 del 07/03/2022, Guidi, Rv. 283252), soprattutto ove funzionale alla tutela della regolarità dell’espletamento del servizio pubblico (Sez. 5, n. 38962 del 04/06/2013, Di Michele, Rv. 257759).

Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, può essere valutata la condotta diffamatoria oggetto d’imputazione.

Essa, per come si è detto, si sarebbe sostanziata nell’aver diffuso un comunicato stampa recante il titolo “Vigili del Fuoco: USB denuncia, a Padova Carabinieri vestiti da VV.F. insieme a veri pompieri costretti a partecipare ad un arresto” e nel cui corpo si affermava “all’apertura della porta – aggiunge il responsabile USB – è conseguito un parapiglia pericolosissimo terminato con l’arresto dei presunti spacciatori, in cui è stato coinvolto il personale VV.F. che, nel caso fosse scattato un conflitto a fuoco, sarebbe stato privo di protezione”.

La Corte territoriale, condividendo le argomentazioni adottate dal Tribunale, ha ritenuto che le modalità espressive con cui l’imputato ha scelto di rappresentare il fatto siano trasmodate nella descrizione di un evento in realtà mai occorso.

Una diversità, tuttavia, che la stessa Corte, nel richiamare le dichiarazioni dei testimoni escussi in primo grado (in particolare del tenente (omissis) e dei Vigili del fuoco che hanno partecipato all’operazione), riferisce non ad un fatto, ma ad un dato ontologicamente valutativo (la pericolosità dell’azione), rispetto al quale, per come si è detto, non è neanche prospettabile una questione di veridicità o meno, ma solo di coerenza o meno rispetto alla funzione di critica e, quindi, di rilevanza sociale e continenza della forma che, in concreto, all’evidenza, non possono ritenersi superate solo per l’utilizzo del sostantivo “parapiglia” e dell’aggettivo “pericolosissimo”.

Cosicché, quand’anche si volesse ritenere tali affermazioni intrinsecamente offensive (e tanto non è), queste sarebbero comunque giustificate dal legittimo esercizio dei diritto di critica sindacale.

3. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata, senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non costituisce reato.

Così deciso il 30 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2024.

SENTENZA – copia non ufficiale -.