Rapaci: privazione del volo e di esplicare la loro attività fisiologica (Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, Sentenza 15 gennaio 2018, n.1489).

CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Sentenza 15 gennaio 2018, n.1489

…, omissis …

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 6 luglio 2015 il Tribunale di Verona ha condannato Br. Ma. e Ma. Gr. Za. alla pena di Euro 2.000,00 di ammenda ciascuno, in relazione al reato di cui all’art. 727, comma 2, cod. pen. (per avere, Ma. quale responsabile del Parco faunistico Al Bosco, Za. quale legale rappresentante dell’azienda agricola proprietaria della struttura, detenuto in condizioni incompatibili con la loro natura, produttive di gravi sofferenze, sette rapaci notturni e diurni), disponendo altresì la confisca dei rapaci in sequestro e condannando gli imputati anche al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, A.N.P.A.N.A. e L.A.V.

2. Avverso tale sentenza hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione entrambi gli imputati, affidato a due motivi.

2.1. Con un primo motivo hanno denunciato contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, con riferimento alla valutazione delle deposizioni rese dai testi escussi in ordine alle condizioni di custodia dei rapaci.

Hanno sottolineato, in particolare, la diversa considerazione delle deposizioni dei testi in ordine alle condizioni di custodia di lupi, linci e istrici, in relazione ai quali era stata ritenuta insussistente la condotta di maltrattamenti contestata, e a quelle dei rapaci, riguardo ai quali era invece stata ritenuta configurabile la condotta di maltrattamenti, nonostante quanto riferito al riguardo dal consulente tecnico della difesa, Dott. Be., che aveva affermato di aver trovato i rapaci visitati in condizioni nella norma, valorizzando, in modo illogico, le dichiarazioni dei testimoni dell’accusa, che avevano esaminato gli animali solo in due occasioni, e svalutando quelle dei collaboratori del Parco.

2.2. Con un secondo motivo hanno prospettato ulteriore vizio della motivazione, in riferimento al trattamento sanzionatorio e al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, risultando insufficiente il riferimento contenuto nella sentenza impugnata alla mancanza di elementi positivamente valutabili al fine del riconoscimento di tali circostanze attenuanti per giustificarne il diniego.

3. L’Associazione LAV, Lega anti vivisezione, costituita parte civile, ha depositato memoria, mediante la quale ha prospettato l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, alla luce della sufficiente illustrazione da parte del Tribunale della inadeguatezza delle condizioni di custodia e detenzione dei rapaci, e la sufficienza della motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Il primo motivo, mediante il quale è stato denunciato vizio della motivazione, per la sua contraddittorietà e manifesta illogicità, con riferimento alla valutazione compiuta dal Tribunale delle deposizioni rese dai testi escussi in ordine alle condizioni di custodia dei rapaci e al loro stato di salute, richiede una rivalutazione non consentita delle prove dichiarative e degli altri elementi a disposizione ed è, comunque, manifestamente infondato.

Il Tribunale ha evidenziato che, a seguito del sopralluogo compiuto da personale del Corpo Forestale presso il Parco Faunistico al Bosco, in località Romagnano del Comune di Grezzano, di cui Ma. era legale rappresentante e Za. proprietaria della struttura, è stata accertata la detenzione di rapaci diurni e notturni (un falco di Harris, un allocco, un gheppio, un barbagianni e tre gufi reali) in condizioni incompatibili con le loro caratteristiche etologiche (un esemplare di gufo reale era rinchiuso in una angusta gabbia metallica coperta da un telo e un altro era bloccato a terra da una corda fissata alla zampa e a terra; un esemplare di falco di Harris era legato al costone di una roccia con una corda fissata alla zampa e bloccato sulla roccia in basso; un gufo reale e un allocco erano ricoverati in voliere realizzate con reti metalliche ma non idonee alle caratteristiche degli animali; un gheppio e un barbagianni erano detenuti in una stanza chiusa e buia e spostati all’esterno solo per essere esaminati).

Tale incompatibilità è stata rilevata dal medico veterinario che ha partecipato al sopralluogo e visitato i rapaci, che ha spiegato l’inadeguatezza di tali modalità di custodia rispetto alle caratteristiche degli animali, soprattutto per la mancanza di voliere all’interno delle quali potessero volare e ripararsi dalle intemperie e dal caldo, ed è stata confermata dagli altri partecipanti al sopralluogo (che hanno sottolineato il fatto che i rapaci erano tenuti in piena luce e non avevano un nido o un buco per stare allo scuro e non potevano sviluppare la loro attività di volo, nonché l’inadeguatezza delle voliere, dei posatoi e degli abbeveratoi).

Sulla base di queste risultanze il Tribunale ha quindi ritenuto configurabile la contravvenzione di cui all’art. 727, comma 2, cod. pen., per l’inadeguatezza delle modalità di custodia dei rapaci rispetto alle caratteristiche della specie, produttive di gravi sofferenze a prescindere dallo stato di salute degli animali, derivanti dall’aver privato per lungo tempo i rapaci della possibilità di esplicare la loro attività fisiologica, e cioè il volo, tenendoli in gabbie anguste oppure legati a una zampa.

Tali considerazioni risultano coerenti con gli elementi di fatto a disposizione e, soprattutto, prive della contraddittorietà e manifesta illogicità lamentate.

Il fatto che il Tribunale abbia escluso la sussistenza dei presupposti di fatto per ritenere configurabile il reato con riferimento agli altri animali selvatici detenuti presso la medesima struttura, tre lupi, due linci e due istrici, non determina, infatti, alcuna illogicità o contraddittorietà della motivazione, avendo il Tribunale giustificato l’esclusione della configurabilità del reato sia in relazione alle condizioni di custodia di tali animali, sia in considerazione delle loro diverse caratteristiche etologiche, sia evidenziando le diverse condizioni della custodia dei rapaci, giudicandole incompatibili con le loro caratteristiche: non si è, dunque, in presenza di proposizioni tra loro contrastanti, né di affermazioni contrarie alle regole della logica, alle massime di comune esperienza e ai criteri legali (cfr., in proposito, Sez. 1, n. 12496 del 21/09/1999, Gu., Rv. 214567; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, El., Rv. 229369), bensì della corretta e logica considerazione della diversità delle caratteristiche etologiche degli animali custoditi presso la struttura in questione e anche delle diverse modalità della loro custodia, che hanno condotto il Tribunale a ravvisare l’incompatibilità di tali condizioni alle caratteristiche etologiche solo per i rapaci, con la conseguente configurabilità del reato nonostante le buone condizioni di salute degli animali, posto che il reato di cui all’art. 727, comma 2, cod. pen. è configurabile anche in presenza della sola incompatibilità delle condizioni di custodia degli animali con le loro caratteristiche etologiche, prescindendo da malattie o degenerazioni del loro stato, qualora tali condizioni siano, come ritenuto nella specie, produttive di gravi sofferenze (cfr. Sez. 6, n. 17677 del 22/03/2016, Borghesi, Rv. 267313; Sez. 3, n. 52031 del 04/10/2016, Ba., Rv. 268778, nella quale in motivazione è stato precisato che anche le sole condizioni dell’ambiente di detenzione possono essere fonte di gravi sofferenze per l’animale, quando sono incompatibili con la sua natura).

A fronte di tali considerazioni, del tutto logiche e, soprattutto, coerenti con gli elementi di fatto a disposizione e con le diverse caratteristiche etologiche dei vari animali custoditi presso la struttura gestita da Ma. e con le diverse condizioni in cui gli stessi si trovavano, i ricorrenti propongono una diversa considerazione delle risultanze di fatto, esaminate in modo logico dal Tribunale, che ha valorizzato le diverse condizioni di custodia degli animali e le diverse caratteristiche etologiche degli stessi, ritenendole incompatibili a prescindere dal loro stato di salute, e richiedono una diversa valutazione delle prove dichiarative (e, in particolare, di quanto riferito dai consulenti tecnici della difesa), apprezzate in modo logico dal Tribunale.

Si tratta di censure non consentite nel giudizio di legittimità e manifestamente infondate, con la conseguente inammissibilità della doglianza.

3. Le, peraltro generiche, censure in ordine al trattamento sanzionatorio e al diniego delle circostanze attenuanti generiche, formulate con il secondo motivo sono manifestamente infondate.

Attraverso l’indicazione della assenza di elementi di positiva considerazione al fine del riconoscimento di dette attenuanti il Tribunale ha dato conto in maniera sufficiente della valutazione compiuta al riguardo, posto che tale diniego può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62 bis, disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, St., Rv. 270986; Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Pa., Rv. 260610).

L’entità della pena, peraltro assai mite, avendo il Tribunale optato per la sola pena pecuniaria e in misura prossima al minimo edittale, è stata adeguatamente giustificata dal Tribunale, con il riferimento alla entità del fatto e alla incensuratezza e al buon comportamento processuale degli imputati, e tale motivazione risulta idonea, in considerazione del modesto scostamento dal minimo edittale, che rende meno stringente l’obbligo di motivazione del giudice sul punto.

4. Il ricorso degli imputati deve, in conclusione, essere dichiarato inammissibile, in considerazione del contenuto non consentito e della manifesta infondatezza del primo motivo e della manifesta infondatezza del secondo motivo.

L’inammissibilità originaria del ricorso esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità, e preclude l’apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Lu., Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Ni., Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Ra. Sc., Rv, 261616).

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa dei ricorrenti (Corte Cost. sentenza 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 2.000,00 ciascuno, e la condanna alla rifusione alla parte civile costituita delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile L.A.V. che liquida in complessivi Euro 3.500,00, oltre accessori di legge.