REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg. ri Magistrati:
Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO – Presidente –
Dott. IRENE TRICOMI – Consigliere –
Dott. ROBERTO BELLÉ – Consigliere –
Dott. DARIO CAVALLARI – Rel. Consigliere –
Dott. ILEANA FEDELE – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso n. 28666/2019 proposto da:
(omissis) (omissis), rappresentato e difeso dall’Avv. (omissis) (omissis) ed elettivamente domiciliato presso l’Avv. (omissis) (omissis) (omissis) in Roma, via (omissis) 45;
-ricorrente-
contro
(omissis) (omissis), rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della Corte d’appello di Bari, n. 1389/2019, pubblicata il 22 luglio 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24/10/2024 dal Consigliere dott. Dario Cavallari.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Bari ha rigettato, con sentenza del 17 marzo 2015, la domanda proposta da (omissis) (omissis), già dipendente del Ministero della Giustizia, contro (omissis) (omissis), dirigente della stessa P.A., volta ad accertare comportamenti vessatori, denigratori e mobbizzanti a decorrere dal 1999 imputabili alla stessa (omissis), con condanna di quest’ultima a risarcire i danni patrimoniali e non nella misura di € 500.000,00.
(omissis) (omissis) ha proposto appello.
(omissis) (omissis) ha proposto appello incidentale.
La Corte d’appello di Bari, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 1389/2019, ha rigettato l’appello principale e dichiarato improcedibile quello incidentale.
(omissis) (omissis) ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.
(omissis) (omissis) si è difesa con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 31, 34, 40, 100 e 104 c.p.c., 1181, 1175 e 1375 c.c. nonché 2, 24 e 111 Cost., e l’omessa considerazione del suo interesse alla tutela processuale frazionata.
Egli sostiene che la presente controversia si caratterizzerebbe per una causa petendi ed un petitum totalmente differenti rispetto a quelli di altri giudizi introdotti dallo stesso ricorrente.
Pertanto, la corte territoriale avrebbe errato nell’affermare che egli avrebbe illegittimamente frazionato i crediti da lui vantati.
Il motivo è inammissibile in quanto la Corte d’appello di Bari non ha adottato come ratio decidendi l’illegittimità del frazionamento del credito del ricorrente, che è rimasto un semplice passaggio argomentativo, pur avendo stigmatizzato la circostanza che egli abbia introdotto una serie di differenti giudizi contro la P.A. e la controricorrente aventi ad oggetto vicende di vario genere. Ciò si evince, in particolare, dalla circostanza che il dispositivo della decisione è stato di rigetto dell’appello e che la motivazione della sentenza si fonda sulla confutazione nel merito delle argomentazioni dell’appellante.
2) Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2087 e 2947, comma 3, c.c., degli artt. 4, comma 2, 5, comma 2, e 17 d.lgs. n. 165 del 2001, 2, lett. B), d.lgs. n. 626 del 1994, dell’art. 1, comma 1, lett. D), del d.m.18 novembre 1996, dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 29 del 1993, dell’art. 26, comma 5, d.l. n. 306 del 1992, conv., con modif., dalla legge n. 356 del 1992, dell’art. 8, comma 2, del d.P.C.M. n. 84 del 15 giugno 2015 e dell’art. 28 Cost.
Egli afferma che la responsabilità per mobbing si sarebbe fondata sull’art. 2087 c.c. e che la corte territoriale avrebbe errato nel qualificarla, nella specie, come aquiliana, atteso che, in questo caso, avrebbe dovuto dichiarare la giurisdizione del giudice ordinario.
In particolare, sostiene che la funzionaria (omissis), in ragione del rapporto di immedesimazione organica con la P.A., avrebbe dovuto essere qualificata come datore di lavoro, in quanto essa avrebbe posto in essere le condotte mobbizzanti in suo danno proprio in virtù dei poteri propri del datore di lavoro ad essa conferiti dalle leggi nonché dal contratto di lavoro. In aggiunta a ciò, evidenzia che, nella specie, avrebbe dovuto essere applicato il termine di prescrizione previsto per il reato di abuso di ufficio, poiché ve ne sarebbero stati i presupposti.
La doglianza presenta profili di inammissibilità ed è per il resto infondata.
In primo luogo, si rileva che l’art. 2087 c.c. si riferisce al datore di lavoro, ossia al soggetto con il quale intercorre il rapporto di lavoro del dipendente. Il ricorrente, pertanto, non poteva agire, ai sensi dell’art. 2087 c.c., nei confronti della controricorrente. Quest’ultima, come egli sostiene, era una funzionaria della P.A. e, quindi, agiva in base al rapporto di immedesimazione organica con l’ente. Ne deriva che l’azione contrattuale avrebbe dovuto essere introdotta contro il Ministero della Giustizia, il quale era titolare del rapporto di lavoro.
A conclusioni simili è già giunta, pur senza enunciarle espressamente, la giurisprudenza della S.C., nella misura in cui non ha qualificato la responsabilità del funzionario, in ipotesi di c.d. mobbing orizzontale, come contrattuale (Cass., Sez. L, n. 7097 del 22 marzo 2018; Cass., Sez. 3, n. 2352 del 2 febbraio 2010).
In particolare, la riconducibilità della responsabilità del funzionario autore degli atti mobbizzanti non all’art. 2087 c.c., ma all’art. 2043 c.c., si ricava dall’esito al quale è giunta Cass., Sez. L, n. 1109 del 20 gennaio 2020, (che ha richiamato Cass., Sez. L, n. 10037 del 15 maggio 2015) per la quale, per potere configurare il mobbing, al comportamento doloso del collega di lavoro deve accompagnarsi quello colposo del datore di lavoro, che, in violazione dell’art. 2087 c.c., non ponga in essere tutte le cautele necessarie a evitare la nocività del luogo di lavoro in danno alla persona del proprio dipendente.
Deve rilevarsi, poi, che il ricorrente ha costruito il motivo in esame sul presupposto dell’esistenza di un rapporto organico fra la controricorrente e la P.A., che avrebbe comportato una qualificazione della sua collega come datore di lavoro.
La corte territoriale, però, ha accertato, con una statuizione non contestata e, quindi, passata in giudicato, che il ricorrente non aveva prospettato in primo grado il tema dell’immedesimazione organica, ma aveva denunciato una responsabilità diretta della sola controricorrente, alla quale aveva ascritto “una strategia persecutoria mirata”.
Privo di pregio è, infine, il riferimento al reato di abuso d’ufficio, attenendo ad un profilo che non risulta essere stato discusso nei due gradi di merito.
3) Con il terzo motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 44 del R.D. n. 1611 del 1933, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 26 del d.l. n. 306 del 1992, conv., con modif., dalla legge n. 356 del 1992, nonché l’omesso esame del reale contenuto della richiesta di patrocinio per la difesa in giudizio della controricorrente formulata dalla P.A. all’Avvocatura dello Stato.
La doglianza è inammissibile.
Innanzitutto, l’omesso esame di un fatto non può essere contestato in presenza di una c.d. doppia conforme. Inoltre, si rileva il difetto di interesse del ricorrente a sollevare la doglianza in questione.
Infatti, i provvedimenti di richiesta dell’amministrazione e di valutazione dell’Avvocato generale dello Stato circa l’opportunità dell’assunzione da parte della stessa Avvocatura dello Stato della rappresentanza e difesa degli impiegati ed agenti delle amministrazioni dello Stato nei giudizi civili e penali che li interessano per cause di servizio, adottati ai sensi dell’art. 44 del r.d. n. 1611 del 1933, non formano (neppure in controversia disciplinata dal rito del lavoro) oggetto di alcun onere di tempestiva indicazione da parte dell’Avvocatura dello Stato al momento della costituzione in giudizio né di dimostrazione della sussistenza dei presupposti di legittimità ai fini dell’assunzione della rappresentanza e difesa del pubblico impiegato, sia perché un siffatto onere non è stabilito dal citato art. 44 sia perché la richiesta dell’amministrazione e l’apprezzamento da parte della citata Avvocatura dello Stato hanno carattere di meri atti interni, restando escluso che il detto apprezzamento, rientrante nella piena discrezionalità dell’Avvocatura, richieda specifica motivazione e sia in alcun modo sindacabile dal giudice investito della controversia (Cass., Sez. 3, n. 10020 del 14 ottobre 1997; Cass., Sez. L, n. 7179 del 24 giugno 1995).
4) Con il quarto motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 193 del d.P.R. n. 1092 del 1973 e dell’art. 6 della legge n. 15 del 2005, della legge n. 241 del 1990, dell’art. 2110 c.c. e degli artt. 21 e 22 CCNL 94/97 comparto Ministeri, l’omessa notifica del decreto di cessazione dal servizio e l’omessa considerazione del periodo di preavviso e di quello di comporto con la P.A. Egli rappresenta l’importanza dell’accertamento del momento di sua effettiva cessazione dal servizio, in quanto è da questo che avrebbe dovuto essere computata la prescrizione della sua domanda.
Sostiene, poi, che la condotta mobbizzante sarebbe durata pure dopo la cessazione del rapporto di lavoro e fino alla comunicazione effettiva del decreto di cessazione dal servizio, verificatasi nel 2009.
Al riguardo, si osserva che tutte le contestazioni qui sollevate dal ricorrente non possono incidere sull’accertamento di merito , compiuto dal giudice di appello, della data in cui egli ha cessato di svolgere in concreto la propria attività, ossia il 16 settembre 2004, sostanziandosi la censura in esame in una inammissibile richiesta di nuova valutazione dei fatti di causa.
D’altronde, si evidenzia che queste critiche sono già state rigettate con decisioni passate in giudicato in seguito alla pubblicazione delle pronunce di questa Sezione n. 14335 del 22 maggio 2024, n. 5712 del 4 marzo 2024 e n. 12068 dell’8 maggio 2023.
5) Il ricorso è rigettato in applicazione dei seguenti principi di diritto:
“In tema di mobbing, la responsabilità esclusiva di altro dipendente, il quale si trovi eventualmente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è configurabile solo ai sensi dell’art. 2043 c.c. e non a titolo contrattuale, essendo egli soggetto terzo con riguardo al rapporto di lavoro. Ne consegue che la dimostrazione di tale responsabilità dovrà essere fornita applicando le regole previste per gli illeciti aquiliani, in particolare quelle sulla ripartizione dell’onere della prova, e che la relativa azione si prescriverà nel termine di cinque anni”; I provvedimenti di richiesta dell’amministrazione e di valutazione dell’Avvocato generale dello Stato circa l’opportunità dell’assunzione da parte della stessa Avvocatura dello Stato della rappresentanza e difesa degli impiegati ed agenti delle amministrazioni dello Stato nei giudizi civili e penali che li interessano per cause di servizio, adottati ai sensi dell’art. 44 del r.d. n. 1611 del 1933, non formano – neppure in controversia disciplinata dal rito del lavoro – oggetto di alcun onere di tempestiva indicazione da parte dell’Avvocatura dello Stato al momento della costituzione in giudizio né di dimostrazione della sussistenza dei presupposti di legittimità ai fini dell’assunzione della rappresentanza e difesa del pubblico impiegato, sia perché un siffatto onere non è stabilito dal citato art. 44 sia perché la menzionata richiesta dell’amministrazione e l’apprezzamento da parte della citata Avvocatura dello Stato hanno carattere di meri atti interni, restando escluso che il detto apprezzamento, rientrante nella piena discrezionalità dell’Avvocatura, richieda specifica motivazione e sia sindacabile dal giudice investito della controversia”.
Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
Si attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
–rigetta il ricorso;
–condanna il ricorrente a rifondere le spese di lite, che liquida in complessivi € 7.000,00 per compenso, oltre ad € 200,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali nella misura del 15%;
–attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile il 24 ottobre 2024.
Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2024.