Reddito di inclusione: il requisito del permesso di soggiorno è incostituzionale? (Corte Costituzionale, Sentenza 17 febbraio 2022, n. 34).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), promosso dal Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra J. C.C. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e altro, con ordinanza del 29 gennaio 2021, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti gli atti di costituzione di J. C.C. e dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica dell’11 gennaio 2022 la Giudice relatrice Daria de Pretis;

uditi gli avvocati Alberto Guariso per J. C.C., Mauro Sferrazza per l’INPS e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio dell’11 gennaio 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di inclusione (di seguito, anche: ReI), richiedeva agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», in riferimento agli artt. 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, nonché in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 20, 21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

Il giudizio a quo è stato promosso da J. C.C., cittadina boliviana, con ricorso proposto ai sensi dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), contro il Comune di Bergamo e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS).

La ricorrente, soggiornante in Italia dal 2010, il 6 marzo 2018 aveva presentato al Comune domanda finalizzata ad ottenere il reddito di inclusione. Tale domanda è stata respinta per mancato uso delle modalità telematiche e per il mancato possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo. La ricorrente riferiva di essere in possesso di tutti i requisiti previsti dal d.lgs. n. 147 del 2017 per beneficiare del reddito di inclusione, ad eccezione del permesso di soggiorno di lungo periodo, ed eccepiva in giudizio l’illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 3 di tale decreto.

Il rimettente argomenta l’ammissibilità dell’azione proposta, osservando che si tratta di azione contro la discriminazione e non di azione in materia previdenziale: la domanda della ricorrente «ha ad oggetto l’accertamento della discriminazione, la sua cessazione, la rimozione degli effetti e, quale conseguenza di ciò, l’erogazione della prestazione, […] per cui correttamente è stato attivato il procedimento» di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011. Non osterebbe all’ammissibilità, poi, il fatto che il Comune abbia applicato una norma legislativa «in quanto la nozione di discriminazione accolta dalla normativa europea e dalla legislazione nazionale è di tipo oggettivo e ha riguardo all’effetto pregiudizievole prodotto da qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, indipendentemente dalla motivazione e dall’intenzione di chi li pone in essere».

Il giudice a quo ritiene dirimente, per la soluzione della controversia, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017, «vigente al momento della richiesta della prestazione», là dove richiede agli stranieri il permesso di soggiorno di lungo periodo, «escludendo gli stranieri in possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi)».

Il rimettente si sofferma sull’applicabilità della disposizione censurata nonostante la sua abrogazione a decorrere dal 1° aprile 2019, ad opera dell’art. 11 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26. Il giudice a quo illustra la norma transitoria, contenuta nell’art. 13 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, e osserva che i requisiti del diritto a un beneficio, previsto da una norma poi abrogata, vanno verificati con riferimento al momento della domanda; a tale proposito, menziona la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima, del 19 febbraio 2019, n. 4890, che ha affermato analogo criterio per le domande di permesso umanitario presentate prima dell’entrata in vigore del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132. Precisa inoltre che l’abrogazione del reddito di inclusione da parte del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, non è stata disposta con efficacia retroattiva, e che l’accoglimento del ricorso comporterebbe il riconoscimento della prestazione “ora per allora”, ovvero dall’aprile 2018 fino al 31 marzo 2019.

Sempre in punto di rilevanza, il giudice a quo rileva che non sono in discussione tutti gli altri requisiti per l’accesso al beneficio, dal momento che la ricorrente «risultava residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni» e sussistevano, altresì, i requisiti relativi alla condizione economica e alla composizione del nucleo familiare. Né rileverebbe il fatto che la domanda sia stata presentata in forma cartacea, anziché telematicamente, «trattandosi solo di irregolarità formale, peraltro imputabile alla strutturazione del sistema, che non incide sul riconoscimento della prestazione, ove sussista il diritto».

Il rimettente ricorda che il reddito di inclusione era «una misura a carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà» (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 147 del 2017) e ne illustra i requisiti, sia economici sia attinenti al nucleo familiare. Secondo il giudice a quo, il reddito di inclusione è una prestazione essenziale, volta al soddisfacimento di «“bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana»: di fronte a tali prestazioni, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti si porrebbe in contrasto con l’art. 14 CEDU (vengono citate le sentenze n. 40 del 2013 e n. 187 del 2010 di questa Corte).

Il reddito di inclusione sarebbe una prestazione essenziale perché è finalizzato all’affrancamento da una condizione di «vera e propria povertà» e alla garanzia del «diritto ad un’esistenza libera e dignitosa», nell’ottica di una «lettura coordinata degli artt. 2, 3 e 38 Cost.». Il rimettente ricorda che numerose norme costituzionali si pongono l’obiettivo di contrastare la povertà economica in quanto ostacolo al godimento dei diritti fondamentali; inoltre, in base all’art. 2, comma 13, del d.lgs. n. 147 del 2017 il reddito di inclusione costituiva «livello essenziale delle prestazioni […] nel limite delle risorse disponibili nel Fondo Povertà».

Lo Stato sarebbe soggetto a controllo giurisdizionale nel momento in cui limita il godimento di prestazioni essenziali e di diritti fondamentali; nel caso di specie, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3, 31, 38, 117 Cost., nonché con l’art. 14 CEDU.

In ogni caso, anche qualora il reddito di inclusione fosse considerato «prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali», la limitazione delle prestazioni sociali «deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.» e tale principio può ritenersi rispettato solo qualora «sussista una ragionevole correlazione tra la richiesta e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono state previste» (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 166 e n. 107 del 2018). Il giudice a quo rileva che la disciplina in questione già contemplava «il requisito del radicamento», essendo necessario – per ottenere il beneficio – essere «residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni al momento di presentazione della domanda» (art. 3, comma 1, lettera a, numero 2, d.lgs. n. 147 del 2017). L’esclusione degli stranieri sprovvisti del permesso di soggiorno di lungo periodo andrebbe «a penalizzare proprio i nuclei familiari più bisognosi, tradendo l’intento dichiarato dal legislatore». Infatti, molto spesso gli stranieri non riescono a ottenere il permesso in questione «in quanto titolari di un reddito inferiore a quello (pur basso) prescritto a tal fine dall’art. 9 T.U. immigrazione».

Il rimettente ritiene che per la norma censurata varrebbero a fortiori le argomentazioni svolte dall’ordinanza della Corte di cassazione, sezione lavoro, del 17 giugno 2019, n. 16164, con cui è stata sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione al cosiddetto bonus bebè. Inoltre, la norma censurata si discosterebbe dall’art. 42 (recte: 41) del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), che garantisce parità di trattamento – in materia di assistenza sociale – agli stranieri titolari di permesso di soggiorno valido almeno un anno.

Dunque, l’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017 avrebbe introdotto, in violazione dell’art. 3 Cost., «un elemento di distinzione arbitrario, nella mancanza di alcuna ragionevole correlazione tra la residenza protratta per il tempo necessario all’ottenimento del permesso di lungo soggiorno e la situazione di disagio economico che il legislatore ha posto alla base della provvidenza»; né si comprenderebbe perché il legislatore non abbia «ritenuto sufficiente, quale elemento indicativo di uno stabile radicamento sul territorio, il requisito della residenza continuativa biennale, pretendendo il permesso di lungo soggiorno». Inoltre, il rimettente rileva che il reddito di inclusione sarebbe un beneficio limitato nel tempo, nell’ottica di un reinserimento sociale, e diverso dall’assegno sociale, per il quale la sentenza n. 50 del 2019 di questa Corte ha fatto salvo il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo.

In definitiva, la norma censurata si porrebbe in contrasto, oltre che con l’art. 3 Cost., con gli artt. 20, 21, 33 e 34 CDFUE, «che enunciano il principio di uguaglianza e di non discriminazione, garantiscono “la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale” (art. 33, 1° comma, CDFUE) e “il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa […]” (art. 34, comma 3, CDFUE)».

Il giudice a quo precisa poi che la prestazione in esame non ricadrebbe nell’ambito di operatività della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, «non rientrando nell’elenco dei rischi di cui all’art. 3 del Regolamento n. 883/04»: infatti, il reddito di inclusione non avrebbe la finalità di «compensare i carichi familiari, poiché il suo riconoscimento non è subordinato alla sussistenza di nucleo familiare numericamente consistente, ma alla situazione di povertà del nucleo familiare, che può essere semplicemente composto anche da solo due persone». In ogni caso, aggiunge il rimettente, se anche la direttiva 2011/98/UE fosse applicabile, «ciò non impedirebbe un vaglio di legittimità della disposizione per le motivazioni già esposte dalla Corte di cassazione con la richiamata ordinanza n. 16164/19, che si intendono qui richiamate».

2.– Il 6 settembre 2021 si è costituito davanti a questa Corte l’INPS, convenuto nel giudizio a quo.

In primo luogo, la parte eccepisce l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto il rimettente, omettendo di dar conto di quanto statuito dalla norma transitoria di cui all’art. 13 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, non avrebbe colmato le lacune rilevate dalla sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte.

Ancora, la questione sarebbe inammissibile perché il rimettente – in assenza di pronunce della Cassazione – avrebbe omesso di sperimentare una possibile interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.

Sarebbero inoltre «[d]el tutto generici» i profili di illegittimità costituzionale riferiti all’art. 14 CEDU e agli artt. 20, 21, 33 e 34 CDFUE.

Venendo alla non manifesta infondatezza, la parte riepiloga la normativa dettata in materia e osserva che il reddito di inclusione non potrebbe essere considerato, né un «mero sussidio per l’affrancamento dalla povertà», né «una prestazione che afferisce a bisogni primari ed essenziali della persona». Il reddito di inclusione non sarebbe solo un beneficio economico ma «un più ampio progetto personalizzato […] volto a “traghettare” verso l’autonomia chi è in condizioni di povertà».

Non sarebbe una «prestazione meramente assistenziale e generalizzata», poiché esso non viene corrisposto «ove il nucleo familiare non sottoscriva e persegua il “progetto personalizzato”». La realizzazione di tale progetto comporterebbe «una giustificata e necessaria correlazione tra la prestazione ed un maggiore e più intenso radicamento del soggetto nel territorio dello Stato italiano tale da rendere ragionevole la previsione del requisito del possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo»: invero, la realizzazione del progetto potrebbe essere «vanificata e/o non perseguibile ove fosse sufficiente, ai fini dell’accesso al ReI, un permesso lavorativo di più breve periodo».

Il ReI sarebbe una prestazione diretta a superare le criticità in cui è incorso il nucleo familiare già radicato stabilmente nel territorio italiano, non a creare il radicamento sociale dei nuclei non integrati. Esso non sarebbe una prestazione essenziale e si distinguerebbe dalle provvidenze oggetto delle sentenze di questa Corte n. 40 del 2013 e n. 187 del 2010, attinenti ai bisogni primari della persona.

Il rimettente osserva che il reddito di inclusione si porrebbe al di fuori dei settori di sicurezza sociale tutelati dal diritto europeo e richiama la direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, la quale limiterebbe al soggiornante di lungo periodo il diritto alla parità di trattamento riguardo alle prestazioni sociali.

L’INPS richiama la sentenza n. 50 del 2019 di questa Corte (che ha fatto salvo il requisito del permesso di lungo periodo per l’assegno sociale) e osserva che l’uguaglianza tra cittadini italiani (ed europei) e stranieri andrebbe garantita solo per le prestazioni finalizzate al soddisfacimento di un bisogno primario dell’individuo, «che si configura come diritto inviolabile». Al di fuori di questi casi, il legislatore potrebbe richiedere agli stranieri un titolo di soggiorno che attesti «un’attiva partecipazione […] alla vita sociale ed allo sviluppo/progresso del Paese». Le considerazioni espresse nella citata sentenza n. 50 del 2019 sarebbero estendibili a tutte le prestazioni «che non sono poste a garanzia della stessa sopravvivenza», che potrebbero essere limitate a quegli stranieri che hanno contribuito al «progresso morale e materiale» della collettività.

Il reddito di inclusione non ricadrebbe nell’ambito di applicazione della direttiva 2011/98/UE, non rientrando nei settori di sicurezza sociale di cui al regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, e ciò implicherebbe «la discrezionalità dello Stato membro di disciplinare e condizionare il riconoscimento della misura di politica attiva […] in considerazione della peculiare finalità della prestazione all’esame». La questione riferita all’art. 34 CDFUE sarebbe dunque del tutto infondata, dato che la Carta si applica solo nell’attuazione del diritto europeo (art. 51 CDFUE). La materia del contrasto alla povertà rientrerebbe nella competenza degli Stati membri.

Il requisito del permesso di lungo periodo si raccorderebbe con la previsione dell’art. 9 t.u. immigrazione, in connessione con l’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)».

3.– Il 14 settembre 2021 si è costituita davanti a questa Corte J. C.C., ricorrente nel giudizio a quo.

La parte osserva, in primo luogo, che, data la motivazione dell’ordinanza di rimessione, le ragioni che hanno condotto alla sentenza di questa Corte n. 146 del 2020 sarebbero ora venute meno.

Nel merito, espone che i profili rilevanti, quali emergono dall’ordinanza di rimessione, sono due:

a) la prestazione tutelerebbe la dignità della persona e, dunque, non sarebbe «suscettibile di limitazioni afferenti lo status civitatis»;

b) il requisito in questione (permesso di soggiorno di lungo periodo) non risponderebbe al criterio di «ragionevole correlabilità» di cui alla giurisprudenza costituzionale.

Sotto il primo profilo, la parte ricorda alcune pronunce di accoglimento di questa Corte relative alle prestazioni di invalidità, che si sono fondate su diversi parametri, che sarebbero pertinenti anche nel caso in esame. Infatti, anche il bisogno di emanciparsi «da una condizione di povertà assoluta» e di «avviamento all’inserimento sociale» sarebbe riconducibile alla ratio delle sentenze menzionate e avrebbe copertura costituzionale.

La parte rammenta che la legge 15 marzo 2017, n. 33 (Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali), definisce il reddito di inclusione come livello essenziale delle prestazioni sociali, da garantire in tutto il territorio nazionale, «con l’ampiezza garantita dal principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.», e rileva che la soglia economica fissata dalla norma censurata è «ampiamente inferiore a quella utilizzata dall’ISTAT per definire le famiglie in condizioni di povertà assoluta». Sarebbe evidente che «l’uscita da una condizione di povertà assoluta appartiene al nucleo dei bisogni primari ed essenziali della persona». Il diritto ad un’esistenza libera e dignitosa dovrebbe essere tutelato in quanto tale, al di là del “canale” di cui all’art. 36 Cost. e dei casi di inabilità al lavoro ex art. 38 Cost. Anche l’art. 34, paragrafo 3, CDFUE parlerebbe di «esistenza dignitosa» senza fare riferimento al lavoro.

Con riferimento ai bisogni primari, nessuna limitazione potrebbe essere opposta con riferimento a condizioni personali estranee al bisogno: men che meno potrebbero essere esclusi gli stranieri ratione census (cioè per non aver raggiunto il reddito necessario ad ottenere il permesso di lungo periodo) o ratione temporis (cioè per non aver maturato la residenza quinquennale necessaria per il permesso in questione).

La parte fornisce un esempio per dimostrare che il reddito di inclusione è destinato a persone prive di reddito o comunque in condizione di povertà assoluta e precisa di essere residente in Italia dal 2010, con un figlio a carico e titolare di permesso unico di lavoro e (al momento della domanda) di un ISEE di 4.707 euro: perciò, pur essendo destinata a restare in Italia per molti anni, non potrà mai accedere al ReI né al reddito di cittadinanza, non avendo entrate sufficienti per conseguire il permesso di lungo periodo.

Sotto il secondo profilo, la parte evidenzia il «circolo vizioso» tra un titolo di soggiorno (permesso di lungo periodo) che richiede due requisiti reddituali minimi (reddito pari all’assegno sociale e alloggio idoneo) e una prestazione destinata ai casi di povertà assoluta. Anche a tale proposito la parte richiama la giurisprudenza costituzionale relativa alle prestazioni di invalidità, osservando che non ci sarebbe differenza tra la condizione di sofferenza causata da invalidità e quella derivante da altre cause.

La parte poi rileva che gli argomenti della sentenza n. 50 del 2019 di questa Corte non sarebbero applicabili al ReI in quanto una prestazione volta all’inclusione sociale non potrebbe essere condizionata a un permesso che richiede un inserimento già avvenuto. Inoltre, il reddito di inclusione ha durata limitata, mentre l’assegno sociale è a tempo indeterminato. Il ReI è subordinato alla partecipazione ad un processo di inclusione: dunque, la garanzia del radicamento territoriale atterrebbe al futuro della prestazione, mentre l’assegno sociale non è soggetto ad alcuna condizionalità.

Ancora, un’ulteriore illogicità deriverebbe dal fatto che, più alto è il numero dei figli, più difficile è conseguire il permesso di soggiorno che consente l’accesso al ReI (in quanto aumenta il reddito necessario ad ottenere il permesso di lungo periodo). Inoltre, la residenza biennale (richiesta a tutti) già garantirebbe una certa stabilità sul territorio.

In definitiva, il requisito del permesso di lungo periodo sarebbe irragionevole, non proporzionato e discriminatorio verso gli stranieri. La parte osserva anche che in tutti gli Stati europei le misure di contrasto alla povertà sono prestazioni condizionali ma che in nessuno Stato esse sono subordinate a un titolo di soggiorno che manifesti già tale inclusione.

4.– Il 14 settembre 2021 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

In primo luogo, l’Avvocatura eccepisce l’inammissibilità della questione perché il rimettente chiederebbe «una sentenza additiva, che modifichi la norma denunciata». Il giudice a quo proporrebbe di abolire per gli stranieri il requisito del permesso di lungo periodo, «reputando per tali soggetti sufficiente il requisito della residenza continuativa in Italia da almeno due anni».

Senonché, una cosa sarebbero i requisiti di residenza, un’altra i requisiti di soggiorno, che sarebbero richiesti anche per i cittadini europei, dovendo questi possedere «il diritto di soggiorno o il diritto di soggiorno permanente». La difesa erariale rileva che, in base al diritto europeo (art. 11 della direttiva 2003/109/CE), l’accesso degli stranieri alle prestazioni sociali è limitato ai soggiornanti di lungo periodo, salvo l’ampliamento previsto dalla direttiva 2011/98/UE in relazione a determinati settori di sicurezza sociale. Dunque, la norma censurata avrebbe optato per «la sola possibilità» a disposizione del legislatore nazionale.

In base alla proposta del rimettente, il reddito di inclusione dovrebbe essere concesso agli stranieri sulla base della sola residenza biennale continuativa, mentre per i cittadini europei ciò non sarebbe sufficiente: ciò determinerebbe uno «stravolgimento dell’impianto della norma denunciata, che verrebbe trasformata in una disciplina sostanzialmente diversa, e non costituzionalmente obbligata; e anzi costituzionalmente vietata dall’art. 117 c. 1 Cost., nella misura in cui genererebbe una discriminazione a danno dei cittadini dell’Unione e a vantaggio dei cittadini di paesi terzi». Poiché quella proposta dal giudice a quo non è l’unica soluzione configurabile in alternativa a quella censurata, la questione sarebbe inammissibile per invasione della discrezionalità legislativa.

Inoltre, secondo l’Avvocatura la motivazione dell’ordinanza di rimessione non sarebbe idonea a superare l’inammissibilità accertata dalla sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte.

Ancora, la motivazione sulla rilevanza sarebbe insufficiente perché il rimettente non specifica il titolo che legittima il soggiorno in Italia della ricorrente.

In relazione alla non manifesta infondatezza, l’Avvocatura rileva che il reddito di inclusione sarebbe diverso dalle altre prestazioni assistenziali in relazione alle quali questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000: in quei casi «si trattava del riconoscimento di benefici attinenti ai bisogni primari e vitali della persona».

Il permesso di lungo periodo offrirebbe la prova del radicamento dello straniero nell’ordinamento italiano, in mancanza del quale non potrebbe «parlarsi di una situazione di povertà che spetti all’ordinamento italiano soccorrere, né vi è la base per predisporre e attuare nel tempo il progetto personalizzato». Il reddito di inclusione presupporrebbe un radicamento già esistente, non sarebbe lo strumento per crearlo. La norma censurata sarebbe anche volta a scoraggiare il cosiddetto “turismo assistenziale”.

A sostegno dell’infondatezza, l’Avvocatura invoca la citata sentenza n. 50 del 2019, riguardante l’assegno sociale. Inoltre, proprio le sentenze di questa Corte che hanno esteso a tutti gli stranieri regolari, a prescindere dal permesso di lungo periodo, diverse prestazioni assistenziali condurrebbero ancor più a ritenere ragionevole la richiesta di tale permesso per il reddito di inclusione, trattandosi di un diritto «finanziariamente condizionato», che impone un bilanciamento tra diritti individuali ed esigenze finanziarie. Dunque, l’art. 3 Cost. non sarebbe violato.

L’Avvocatura nega poi che sia violato l’art. 31 Cost., che contemplerebbe una tutela della famiglia «ma sempre nei limiti delle compatibilità finanziarie e sul presupposto che si tratti non della famiglia “in astratto”, bensì della famiglia specificamente riferibile alla società italiana». Inoltre, l’art. 31 Cost. lascerebbe discrezionalità al legislatore e non lo costringerebbe a prevedere proprio il reddito di inclusione e a individuare i requisiti auspicati dal rimettente.

Ancora, la difesa erariale nega che il reddito di inclusione sia una «prestazione essenziale»: esso mirerebbe a contrastare una situazione di povertà, «per quanto difficile, comunque compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa».

Sarebbe infondata anche la questione riferita all’art. 117, primo comma, Cost., «per il tramite del principio di non discriminazione di cui agli artt. 20 e 21» CDFUE. La scelta di limitare la prestazione de qua ai soli stranieri lungosoggiornanti sarebbe in linea con il diritto europeo, in particolare con la direttiva 2003/109/CE.

Infine, sarebbe insussistente la violazione dell’art. 34 CDFUE. Tale disposizione non si applicherebbe perché la materia del «contrasto alla povertà» sarebbe di competenza degli Stati membri. Comunque, come già detto per l’art. 31 Cost., l’art. 34 CDFUE non costringerebbe il legislatore a prevedere proprio il reddito di inclusione né a individuare i requisiti auspicati dal rimettente.

5.– Il 20 dicembre 2021 l’INPS ha depositato una memoria integrativa, ribadendo gli argomenti già svolti.

Considerato in diritto

1.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 113 del 2021, il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di inclusione (di seguito, anche ReI), richiedeva agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».

Il rimettente divide le questioni sollevate in due gruppi, il secondo dei quali ha carattere subordinato.

In primo luogo, il giudice a quo ritiene che la norma censurata violi gli artt. 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, nonché l’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto il reddito di inclusione sarebbe una prestazione essenziale, diretta a soddisfare «“bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana». In relazione a questo tipo di prestazioni, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti sarebbe costituzionalmente illegittima.

In secondo luogo, il rimettente osserva che, anche qualora il reddito di inclusione fosse considerato «prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali», non vi sarebbe una ragionevole correlazione tra il requisito richiesto e le situazioni di bisogno a rimedio delle quali la prestazione è prevista, considerato anche che la disciplina in questione già contemplava «il requisito del radicamento», essendo necessario – per ottenere il beneficio – essere «residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni al momento di presentazione della domanda» (art. 3, comma 1, lettera a, numero 2, del d.lgs. n. 147 del 2017); di qui la asserita violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

2.– Le medesime questioni di legittimità costituzionale sono state già sollevate dallo stesso giudice a quo, nel medesimo giudizio, e sono state dichiarate inammissibili da questa Corte con la sentenza n. 146 del 2020, per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto il rimettente non aveva argomentato sull’applicabilità della norma censurata, nonostante la sua abrogazione disposta, a decorrere dal 1° aprile 2019, dall’art. 11 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26.

Sia l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), sia il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, hanno nuovamente eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto il rimettente non avrebbe colmato le lacune rilevate dalla sentenza n. 146 del 2020 di questa Corte.

L’eccezione non è fondata.

Nell’ordinanza ora in esame il Tribunale di Bergamo dedica ampio spazio a motivare l’applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo: dando puntualmente atto dell’abrogazione operata dal d.l. n. 4 del 2019, come convertito, illustrando la portata della norma transitoria di cui all’art. 13 del medesimo decreto-legge e argomentando sulla sua irretroattività. Il rimettente si sofferma inoltre sulla necessità di valutare la domanda presentata nel 2018 in base alle norme vigenti all’epoca, al fine di un riconoscimento giudiziale del reddito di inclusione “ora per allora”, e richiama la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, del 19 febbraio 2019, n. 4890, riguardante le domande di permesso umanitario presentate prima del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132.

Mentre dunque nella precedente ordinanza il Tribunale di Bergamo aveva omesso di dare conto dell’intervenuta abrogazione della norma censurata, così come di indicare le ragioni che lo inducevano a ritenerla nondimeno applicabile, e non aveva preso in considerazione la norma transitoria di cui all’art. 13 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, nella nuova ordinanza il medesimo rimettente si dà carico di ricostruire in maniera adeguata il quadro normativo di riferimento e offre elementi a sostegno delle sue conclusioni circa la necessità di applicare la norma censurata, ancorché nel frattempo non più operante.

Gli argomenti offerti nell’ordinanza in esame forniscono una motivazione adeguata e plausibile sulla rilevanza della questione, considerato anche il fatto che, sul tema, questa Corte opera un controllo “esterno” sulla valutazione del giudice a quo (ex multis, sentenze n. 19 del 2022, n. 236 e n. 183 del 2021, n. 44 del 2020 e n. 128 del 2019).

3.– L’INPS e l’Avvocatura sollevano anche altre eccezioni di inammissibilità.

3.1.– Secondo l’INPS, la motivazione sulla rilevanza sarebbe carente perché il rimettente non avrebbe argomentato sulla «possibilità di interpretare la norma in maniera costituzionalmente orientata». La parte non indica quale sarebbe la possibile interpretazione conforme a Costituzione. Interpretazione che peraltro pare preclusa dal tenore letterale della disposizione, che limita chiaramente il beneficio ai soli stranieri titolari del permesso di lungo periodo, con la conseguenza che deve trovare applicazione il «principio – ripetutamente affermato da questa Corte – secondo il quale l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione» (sentenza n. 221 del 2019; più di recente, sentenza n. 19 del 2022, riguardante l’analoga questione sollevata in relazione al reddito di cittadinanza).

Pertanto, nemmeno tale eccezione è fondata.

3.2.– Inoltre, per l’INPS sarebbero «[d]el tutto generici» i profili di illegittimità costituzionale riferiti all’art. 14 CEDU e agli artt. 20, 21, 33 e 34 CDFUE.

L’eccezione non è fondata con riferimento all’art. 14 CEDU. Il rimettente cita le sentenze n. 187 del 2010 e n. 40 del 2013 di questa Corte, che hanno accolto questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento all’art. 14 CEDU, sull’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», nella parte in cui tale norma subordinava al requisito della carta di soggiorno la concessione agli stranieri di determinati benefici. Inoltre, l’ordinanza menziona la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, 5 settembre 2005, Stec e altri contro Regno Unito, riguardante una lamentata violazione dell’art. 14 CEDU in relazione a certe provvidenze. Ciò consente di ritenere sufficiente, ancorché sintetica, la motivazione sulla non manifesta infondatezza di tale questione.

L’eccezione è invece fondata con riferimento agli artt. 20, 21, 33 e 34 CDFUE, che sono semplicemente menzionati e sintetizzati dal rimettente, senza alcun argomento sulla loro pertinenza al caso di specie, né sulla loro assunta violazione. In particolare, il rimettente non illustra il presupposto di applicabilità della CDFUE, cioè la circostanza che le norme sul reddito di inclusione rappresentino «attuazione del diritto dell’Unione» ai sensi dell’art. 51 CDFUE, ciò che è sufficiente a determinare la manifesta inammissibilità di tutte le censure basate sulla Carta (da ultimo, sentenze n. 19 del 2022, n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021 e n. 278 del 2020).

Vanno pertanto dichiarate manifestamente inammissibili, per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza, le questioni sollevate per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 33 e 34 CDFUE.

3.3.– Va dichiarata manifestamente inammissibile anche la questione ex art. 31 Cost., poiché tale parametro è meramente menzionato e il rimettente si limita a sintetizzarne il contenuto, senza spendere argomenti per illustrare la sua violazione da parte della norma censurata.

3.4.– L’Avvocatura eccepisce poi l’inammissibilità delle questioni perché il rimettente proporrebbe «una sentenza additiva, che modifichi la norma denunciata» in modo non costituzionalmente obbligato, con invasione della discrezionalità legislativa.

L’eccezione non è fondata.

Il giudice a quo contesta l’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017 «nella parte in cui prevede, per l’accesso al ReI (reddito di inclusione), che i cittadini di nazionalità extra UE debbano essere titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo, escludendo gli stranieri in possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi)».

Il petitum formulato dal rimettente non è manipolativo, ma parzialmente ablativo: viene semplicemente chiesta l’eliminazione del requisito del permesso di lungo periodo, cui conseguirebbe il venir meno dell’esclusione degli altri stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

A questa Corte non è richiesto dunque di introdurre alcuna nuova norma, con la conseguenza che il tema delle “rime obbligate” è impropriamente introdotto in questo contesto, così come è improprio affermare che il giudice a quo avrebbe invaso la discrezionalità legislativa (in senso simile, sentenze n. 126 del 2021 e n. 166 del 2018).

3.5.– Infine, secondo l’Avvocatura la motivazione sulla rilevanza sarebbe insufficiente perché il rimettente non specifica il titolo che legittima il soggiorno in Italia della ricorrente.

In effetti, l’ordinanza non fornisce questa informazione (dall’atto di costituzione di J. C.C. risulta che la ricorrente era titolare di permesso unico di lavoro), ma la lacuna non comporta un difetto di motivazione, perché il giudice a quo contesta l’esclusione degli stranieri «in possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi)», cioè di tutti gli stranieri regolari e non degli stranieri titolari di uno specifico permesso.

Nemmeno tale eccezione è dunque fondata.

4.– Superate le eccezioni preliminari, è possibile passare al merito.

Le questioni sollevate in via principale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 38 Cost., non sono fondate.

Devono essere richiamate qui le conclusioni alle quali questa Corte è pervenuta nella recente sentenza n. 19 del 2022, con cui sono state dichiarate non fondate questioni analoghe, sollevate dallo stesso odierno rimettente in riferimento al reddito di cittadinanza, cioè all’istituto che nel 2019 ha sostituito il reddito di inclusione qui in esame.

Sulla scia di alcuni precedenti (sentenze n. 137, n. 126 e n. 7 del 2021), questa Corte ha osservato in particolare che «il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale», e che «[a] tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari», il cui inadempimento implica la decadenza dal beneficio.

Nonostante le differenze che il reddito di inclusione presenta rispetto al reddito di cittadinanza – il quale in effetti si connota per una più spiccata finalizzazione all’inserimento lavorativo, oltre che per un maggior peso degli impegni in capo ai beneficiari e una più alta soglia economica d’accesso – i due istituti hanno in comune le caratteristiche che questa Corte ha valorizzato nella sentenza n. 19 del 2022 per pervenire alla conclusione della non fondatezza delle questioni che le erano state sottoposte.

La medesima conclusione raggiunta deve essere confermata, per le stesse ragioni, in relazione al (precedente) istituto del reddito di inclusione.

Al di là della sua definizione «quale misura unica a livello nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale» (art. 2, comma 1), è innanzitutto decisiva, per qualificarne la natura, la prevista necessaria adesione del nucleo familiare beneficiario «a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa» (art. 2, comma 2). Parimenti, il contenuto della misura non si esauriva in un beneficio economico, perché con questo concorreva una componente di servizi alla persona identificata nello stesso progetto personalizzato, in esito ad una valutazione del bisogno del nucleo familiare (art. 2, comma 3).

Tale progetto, destinato a essere sottoscritto dai componenti il nucleo familiare, doveva individuare, «sulla base dei fabbisogni del nucleo familiare come emersi nell’ambito della valutazione multidimensionale:

a) gli obiettivi generali e i risultati specifici che si intendono raggiungere in un percorso volto al superamento della condizione di povertà, all’inserimento o reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale;

b) i sostegni, in termini di specifici interventi e servizi, di cui il nucleo necessita, oltre al beneficio economico connesso al ReI;

c) gli impegni a svolgere specifiche attività, a cui il beneficio economico è condizionato, da parte dei componenti il nucleo familiare» (art. 6, comma 2). Servizi e impegni erano poi definiti nell’art. 6, commi 4 e 5.

Ancora, era previsto che, in caso di mancato rispetto degli impegni da parte dei beneficiari, si sarebbero applicate le sanzioni di cui all’art. 12 (art. 2, comma 9) e che la durata del progetto potesse eccedere la durata del beneficio economico (art. 6, comma 7).

Alla luce delle già richiamate conclusioni della citata sentenza n. 19 del 2022, questa Corte deve dunque dichiarare non fondate le questioni sollevate in via principale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 38 Cost., non senza sottolineare nuovamente che «[l]a conclusione di non fondatezza così raggiunta non esclude che resta compito della Repubblica, in attuazione dei principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 38, primo comma, Cost., garantire, apprestando le necessarie misure, il diritto di ogni individuo alla “sopravvivenza dignitosa” e al “minimo vitale” (sentenza n. 137 del 2021)».

5.– Non è fondata neppure la questione sollevata per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU. Anche in questo caso, si possono riproporre le considerazioni già svolte nella sentenza n. 19 del 2022 in merito al reddito di cittadinanza.

5.1.– Il parametro interposto è invocato in modo pertinente.

L’art. 14 CEDU costituisce completamento di altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli e può essere invocato solo in collegamento con una di esse (ex multis, sentenze della Corte EDU, 6 luglio 2021, A.M. e altri contro Russia, paragrafo 64; 8 aprile 2014, Dhahbi contro Italia, paragrafo 39).

Il rimettente non indica espressamente la disposizione della CEDU cui l’art. 14 si collega nel caso di specie, ma implicitamente invoca l’art. 1 del Protocollo addizionale, riguardante la protezione della proprietà, attraverso il richiamo alla già citata decisione della Corte EDU, 5 settembre 2005, Stec e altri contro Regno Unito, e alla sentenza n. 187 del 2010 di questa Corte, nella quale lo stesso art. 1 si raccorda con il principio di non discriminazione. E, poiché il d.lgs. n. 147 del 2017 prevedeva un diritto al reddito di inclusione (che «è riconosciuto dall’INPS previa verifica del possesso dei requisiti», in base al suo art. 2, comma 6, ma la cui erogazione era poi subordinata alla sottoscrizione del progetto personalizzato, come previsto all’art. 9, commi 5 e 6), non impropriamente il giudice a quo ha invocato il parametro convenzionale.

5.2.– Questa Corte si è già pronunciata, in più occasioni, sulla conformità dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 (là dove subordinava l’accesso a determinate provvidenze al possesso della carta di soggiorno) all’art. 14 CEDU. Nella sentenza n. 187 del 2010, in particolare, si è osservato che «[c]iò che dunque assume valore dirimente» è «accertare se, alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale che è chiamato a svolgere nel sistema, lo specifico “assegno” che viene qui in discorso integri o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei “bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare; rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale perché garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto». Sicché, ove «si versi in tema di provvidenza destinata a far fronte al “sostentamento” della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avuto riguardo alla relativa lettura che, come si è detto, è stata in più circostanze offerta dalla Corte di Strasburgo». Questo criterio di giudizio è stato poi ribadito dalle sentenze n. 329 del 2011 e n. 50 del 2019.

In questa prospettiva, le conclusioni sopra raggiunte sulle caratteristiche del reddito di inclusione – che non si esaurisce in una provvidenza assistenziale volta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue più ampi obiettivi di inclusione sociale e lavorativa – conducono a ritenere non fondata anche la questione sollevata con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU.

6.– Resta da esaminare la questione sollevata in via subordinata, con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost. Il giudice a quo ritiene che, anche qualora il reddito di inclusione fosse considerato «prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali» della persona, la disposizione censurata sarebbe comunque costituzionalmente illegittima per l’assenza di una ragionevole correlazione tra il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo e le situazioni di bisogno in vista delle quali la prestazione è prevista.

Nemmeno tale questione è fondata, giacché il raffronto fra il requisito prescritto e le finalità perseguite dalla misura non conduce a conclusioni di irragionevolezza della scelta operata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità.

Anche in questo caso, si possono riproporre le considerazioni già svolte nella sentenza n. 19 del 2022 in merito al reddito di cittadinanza.

Il permesso di soggiorno di lungo periodo è concesso qualora ricorra una serie di presupposti che testimoniano della relativa stabilità della presenza sul territorio, e il suo regime si colloca nella logica di una ragionevole prospettiva di integrazione del destinatario nella comunità ospitante. Più precisamente, in base all’art. 9, commi 1 e 2-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), esso può essere chiesto in presenza di quattro requisiti: a) «possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità»; b) «disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale»; c) «alloggio idoneo»; d) «superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana». Il permesso è a tempo indeterminato (art. 9, comma 2, t.u. immigrazione) e fra le cause della sua revoca non è prevista la perdita dei requisiti di cui sopra (cioè, del reddito e dell’alloggio idoneo).

Ciò precisato, la ragionevole correlazione tra il requisito fissato dalla norma censurata e la ratio del reddito di inclusione discende dalla circostanza, già ampiamente sottolineata, che tale provvidenza non si risolve in un mero sussidio economico, ma costituisce una misura più articolata, comportante anche l’assunzione di precisi impegni dei beneficiari, diretta ad immettere il nucleo familiare beneficiario in un «percorso volto al superamento della condizione di povertà, all’inserimento o reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale» (art. 6, comma 2, lettera a, del d.lgs. n. 147 del 2017). Va considerato, inoltre, che la durata del beneficio economico poteva arrivare a diciotto mesi, con possibilità di rinnovo per un periodo di dodici mesi (art. 4, comma 5). Peraltro, «[l]a durata del progetto può eccedere la durata del beneficio economico» (art. 6, comma 7).

L’orizzonte temporale della misura non era dunque di breve periodo, considerando, sia la durata del beneficio, sia il risultato perseguito. Gli obiettivi dell’intervento implicavano infatti una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di inclusione, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), sollevate, in riferimento agli artt. 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 38 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale di Bergamo, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 gennaio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Daria de PRETIS, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 17 febbraio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto Dott. MILANA

Corte Cost.. Sentenza 17 febbr. 2022, n. 34 -.