Responsabilità medica: la morte del feto non è morte di un figlio; risarcimento a metà (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 20 ottobre 2020, n. 22859).

REPUBBLICA ITALIANA 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 

SEZIONE TERZA CIVILE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente

Dott. POSITANO Gabriele – Rel. Consigliere

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere

Dott. CIGNA Mario – Consigliere

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36415-2018 proposto da:

CAPPELLI FRANCO, IORLANDO RAFFAELE, CAPPELLI VALENTINA, IORLANDO CARLO, BINDI ROSALBA, elettivamente domiciliati in ROMA, L.G0 DEI LOMBARDI, 4, presso lo studio dell’avvocato GREGORIO ARENA, rappresentati e difesi dall’avvocato DOMENICO CARELLO;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITARIA SENESE SANTA MARIA ALLE SCOTTE, NICOLETTA SILIPO, FILIPPO FRIGNANI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2134/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 21/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/06/2020 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.

Rilevato che:

Valentina Cappelli, Rosalba Bindi, Franco Cappelli, Carlo e Raffaele Iorlano evocavano in giudizio, davanti al Tribunale di Siena, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese Santa Maria alle Scotte in conseguenza della morte del feto verificatesi nella notte tra il 4 e 5 aprile 2010.

Prospettavano la responsabilità dei sanitari che avevano sottoposto a visita ginecologica Valentina Cappelli la quale, dopo tale esame medico, aveva fatto rientro presso la propria abitazione, per poi ritornare verso le ore 11:00 della medesima giornata del 4 aprile, allorquando si accorgeva di perdite ematiche.

Aggiungevano che si trattava di una gravidanza a rischio, in quanto ottenuta attraverso una tecnica di riproduzione assistita detta FIVET, che il tracciato eseguito nel pomeriggio di quella giornata aveva evidenziato un grave stato di sofferenza del feto e che la paziente aveva accusato forti dolori all’addome, contrazioni e gonfiore. Nonostante ciò, era stata dimessa senza alcuna prescrizione.

Si costituiva l’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese Santa Maria alle Scotte insistendo per il rigetto della domanda;

il Tribunale di Siena, con sentenza del 17 luglio 2013 rigettava la domanda tesa al risarcimento del danno patrimoniale e non, derivato dalla morte intrauterina del feto, rilevando che non erano emersi elementi di responsabilità dell’azienda convenuta.

Precisava che la circostanza che l’esame strumentale effettuato nel pomeriggio del 4 aprile 2010 era andato smarrito non era dimostrata, mentre la consulenza aveva acclarato che la causa della morte era da riferire all’inserzione velamentosa del funicolo, avvenuta al momento della rottura delle membrane, ovvero ad un evento distinto, rispetto a quello lamentato nelle ore pomeridiane della giornata.

Pertanto difettava il nesso eziologico, tra evento dannoso e prestazione sanitaria;

avverso tale decisione proponevano appello Valentina Cappelli, Rosalba Bindi, Franco Cappelli, Carlo e Raffaele Iorlano rilevando che le risultanze istruttorie avrebbero dato riscontro alla pretesa degli attori, lamentavano che il Tribunale avrebbe applicato erroneamente i criteri in tema di onere della prova, rilevando che le conclusioni della CTU erano errate.

Si costituiva l’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese Santa Maria alle Scotte rilevando che, trattandosi di prestazioni in regime ambulatoriale, i referti delle visite erano stati consegnati alla paziente e che le prestazioni effettuate non avevano evidenziato anomalie.

Contestavano la correttezza dei criteri giurisprudenziali indicati da controparte.

La Corte d’Appello di Firenze disponeva il rinnovo della consulenza e, con sentenza del 21 settembre 2018, in accoglimento dell’appello proposto, condannava l’azienda al risarcimento dei danni nella misura di euro 82.000 ciascuno, in favore di Valentina Cappelli e Carlo Iorlano ed euro 11.350 ciascuno, in favore di Rosalba Bindi, Franco Cappelli e Raffaele Iorlano, oltre rivalutazione, provvedendo sulle spese di lite;

avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione Valentina Cappelli, Rosalba Bindi, Franco Cappelli, Carlo e Raffaele Iorlano affidandosi a quattro motivi.

Resiste con controricorso l’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese.

Considerato che:

con il primo motivo si deduce la violazione delle tabelle di Milano, da considerarsi norme di diritto e degli articoli 2056, 2059, 1226 e 1223 c.c., nonché dei principi giurisprudenziali richiamati nella sentenza impugnata, in relazione all’articolo 360, n. 3 c.p.c.

In particolare, la Corte d’Appello di Firenze, pur richiamando la sentenza n. 12717 del 19 giugno 2015 della Corte di Cassazione, con riferimento al danno per perdita del rapporto parentale nel caso di figlio nato morto, avrebbe erroneamente inteso il principio affermato in sentenza.

Secondo la citata decisione della Corte di Cassazione, in un caso in cui era stata assimilata la situazione del feto nato morto, a quella del decesso di un figlio, occorreva considerare che solo nel secondo caso era ipotizzabile il venir meno di una relazione affettiva concreta, sulla quale parametrare il risarcimento, nell’ambito della forbice di riferimento indicata nelle tabelle di Milano.

Da ciò, invece, la Corte territoriale fiorentina avrebbe fatto discendere la possibilità di dimezzare i parametri minimi previsti dalle tabelle di Milano.

Tale applicazione sarebbe contraria al criterio indicato dalla Corte di legittimità che lascerebbe intendere, invece, che la liquidazione del danno per un figlio nato morto dovrebbe comunque collocarsi all’interno della forbice stabilita dalle tabelle milanesi e cioè, al più, nel parametro minimo.

Sotto altro profilo la decisione sarebbe errata anche nel considerare come parametro di riferimento quello minimo, in quanto, quanto meno per la madre, Valentina Cappelli e per il padre, Carlo Iorlano, sarebbe possibile affermare l’esistenza di una relazione affettiva concreta con il nascituro, poiché la prima lo aveva portato in grembo per nove mesi e si trattava di una gravidanza fortemente voluta da entrambi i genitori in quanto ottenuta tramite inseminazione artificiale e quindi da qualificarsi come “preziosa”.

Tali elementi consentirebbero di parlare, nel caso di specie, di perdita di un bambino e non di un feto;

con il secondo motivo si denunzia, ai sensi dell’articolo 360, n. 5 c.p.c. l’omesso esame di fatti storici rilevanti ai fini della liquidazione del danno subito dai ricorrenti.

La Corte territoriale non avrebbe valorizzato fatti incidenti sulla quantificazione del danno.

In particolare, la circostanza che la gravidanza era stata portata a termine e che si trattava di una gravidanza preziosa, perché ottenuta tramite una fecondazione artificiale;

con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’articolo 360, n. 4 c.p.c., la violazione l’articolo 132, n. 4 c.p.c. e 118 disposizioni di attuazione relativamente alla mancata motivazione rispetto alla liquidazione del danno non patrimoniale operata in maniera difforme rispetto ai parametri stabiliti dalle tabelle di Milano;

i primi tre motivi possono essere trattati congiuntamente perché strettamente connessi.

La Corte territoriale ha applicato le tabelle del Tribunale di Milano utilizzate come punto di riferimento determinando l’importo riconosciuto nella misura pari alla metà del minimo in considerazione della circostanza che si trattava pacificamente di morte di un feto e non anche di un bambino.

Infatti, la Corte d’Appello ha evidenziato “il mancato instaurarsi di un oggettivo (fisico e psichico) rapporto tra nonni, genitori e nipote, figlio” riferibile al caso di un figlio nato morto, con specifico riferimento al danno per la perdita del rapporto parentale.

Ha poi richiamato la decisione di questa Corte n. 12717 del 19 giugno 2015 che evidenzia che nel caso di “figlio nato morto” nella liquidazione della perdita del rapporto parentale le tabelle milanesi prevedono una forbice che “consente di tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresa la qualità dell’intensità della relazione affettiva che caratterizza il rapporto parentale con la persona perduta”.

Pertanto questa Corte evidenzia che la gradazione espressa dalla forbice tabellare che individua un minimo e un massimo (per il danno per la morte di un congiunto, le tabelle milanesi del 2014, come si legge in sentenza, prevedevano in favore di ciascun genitore per la morte di un figlio, un importo da euro 163.990 ad euro 327.990), va determinata tenendo “conto di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresa la qualità della intensità della relazione affettiva che caratterizza il rapporto parentale”.

Nella stessa decisione si fa presente che, nel caso di “feto nato morto” “è ipotizzabile solo il venir meno di una relazione affettiva potenziale (che, cioè, avrebbe potuto instaurarsi, nella misura massima del rapporto genitore figlio, ma che è mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita), ma non anche una relazione affettiva concreta sulla quale parametrare il risarcimento, all’interno della forbice di riferimento”.

Pertanto l’indicazione fornita in quella decisione al giudice del rinvio riguardava la possibilità di parametrare il risarcimento all’interno della forbice di riferimento, nel caso di relazione affettiva concreta, mentre la diversa ipotesi di figlio nato morto, esprime il differente caso della relazione affettiva potenziale, rispetto alla quale non vi è una tabellazione espressa da parte del Tribunale di Milano.

Questo consente al giudice di merito di operare sulla base di un criterio equitativo che, nel caso di specie, proprio in considerazione del “mancato instaurarsi di un oggettivo (fisico e psichico) rapporto tra nonni, genitori e nipote, figlio” (si legge nella sentenza impugnata) “appare equo liquidare a ciascun genitore ed a ciascun nonno nella misura della metà del minimo riconoscibile sulla base di dette tabelle”; le censure, pertanto, sono infondate.

Le tabelle milanesi di liquidazione del danno non patrimoniale si sostanziano in regole integratrici del concetto di equità, atte quindi a circoscrivere la discrezionalità dell’organo giudicante, sicché costituiscono un criterio guida e non una normativa di diritto (Cass. Sez. 3 n. 1553 del 22/01/2019).

Pertanto, puntualizzando quanto riportato nella rubrica del primo motivo, va precisato che la violazione di legge si riferisce alla norma codicistica in tema di liquidazione equitativa (articolo 1226 c.c.) e non alle tabelle di Milano “da considerarsi norma di diritto”, così come erroneamente riportato dai ricorrenti.

Alla luce di quanto precede, i motivi sono infondati, non ricorrendo alcuna violazione di legge;

nello stesso modo è destituita di fondamento l’omessa considerazione di un fatto storico poiché la censura oggetto del secondo motivo si riferisce ad un elemento istruttorio e l’articolo 360, n. 5 c.p.c. non consente a questa Corte di rivalutare il materiale probatorio;

d’altra parte, deve trovare applicazione il principio secondo cui in tema di danno non patrimoniale, qualora il giudice, nel soddisfare esigenze di uniformità di trattamento su base nazionale, proceda alla liquidazione equitativa in applicazione delle “tabelle” predisposte dal Tribunale di Milano, nell’effettuare la necessaria personalizzazione di esso, in base alle circostanze del caso concreto, può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle dette tabelle solo quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborato in astratto in base all’oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l'”id quod plerumque accidit”, dando adeguatamente conto in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state considerate (Cass. Sez. 3 n. 3505 del 23/02/2016);

nel caso di specie tale rilevante elemento di diversità è costituito proprio dalla circostanza di essere al di fuori del parametro tabellare, ricorrendo l’ipotesi di mancata instaurazione di un rapporto oggettivo, fisico e psichico, tra i parenti e la situazione del “feto nato morto”;

con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’articolo 360, n. 4 c.p.c., la violazione dell’articolo 112 c.p.c. per mancata corrispondenza tra chiesto e pronunziato, relativamente alla mancata decisione sulla domanda di danno patrimoniale.

Con l’atto di citazione gli attori avrebbero richiesto il risarcimento del danno patrimoniale per la mancata percezione dei contributi economici che il nascituro avrebbe potuto apportare, in futuro, agli attori.

Tale danno avrebbe potuto essere liquidato in via equitativa;

il motivo è inammissibile perché dedotto in violazione dell’articolo 366, n. 6 c.p.c. poiché parte ricorrente avrebbe dovuto, non solo trascrivere il contenuto dell’atto di citazione, allegarlo o individuarlo all’interno del fascicolo di legittimità, ma svolgere i medesimi adempimenti con riferimento ai motivi di appello, con la indicazione specifica delle circostanze sulla base delle quali sarebbe stato prospettato un danno patrimoniale da mancato futuro guadagno;

ne consegue che il ricorso deve essere rigettato;

le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.

Infine, tenuto conto del tenore della decisione, mancando ogni discrezionalità al riguardo (Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) va dichiarato che sussistono i presupposti processuali per il pagamento del doppio contributo se dovuto.

P.T.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in C 6.700,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma I-bis dello stesso art. 13.

Così deciso nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile il 26 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.