Revocazione per ingratitudine della donazione, di un immobile, ricevuta dalla zia (Corte di Cassazione, Sezione II Civile, Sentenza 21 marzo 2022, n. 9055).

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7946-2017 proposto da:

(OMISSIS) MARCO, rappresentato e difeso dall’Avvocato AURELIA (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) IVANA, (OMISSIS) RITA, (OMISSIS) DANILA, rappresentate e difese dall’Avvocato ARTURO (OMISSIS);

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 17/2017 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 11/01/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’01/03/2022 dal Consigliere, Dott. ANTONIO SCARPA;

viste le conclusioni motivate, ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, formulate dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. ALESSANDRO PEPE, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

Marco (OMISSIS) ha proposto ricorso articolato in sette motivi avverso la sentenza n. 17/2017 dell’11 gennaio 2017, emessa dalla Corte d’appello di L’Aquila.

Resistono con controricorso Ivana (OMISSIS), Danila (OMISSIS) e Rita (OMISSIS), eredi di Wanda (OMISSIS).

Con citazione del 30 ottobre 2009 Wanda (OMISSIS) convenne dinanzi al Tribunale di Pescara il nipote Marco (OMISSIS) al fine di ottenere la revocazione per ingratitudine della donazione di cui all’atto per notaio (OMISSIS) del 16 dicembre 2002, avente ad oggetto immobili facenti parte di un fabbricato sito in via (OMISSIS) (OMISSIS), Pescara.

Con sentenza n. 1516/2015 il Tribunale di Pescara revocò la donazione, condannando il convenuto alla restituzione degli immobili ed al rimborso delle spese di giudizio.

Il Tribunale affermò che:

a) il giudizio possessorio intentato nel 2008 per lo spoglio dell’usufrutto riservato alla donante e definito con l’ordinanza del 6 marzo 2009, che intimava a Marco (OMISSIS) di riconsegnare il locale ristrutturato ad uso garage sito al piano terra del fabbricato di via (OMISSIS) (OMISSIS) n. 102, costituisse elemento di ingratitudine da parte del donatario; condotta pregiudizievole per il patrimonio della donante continuata anche in sede di esecuzione dell’interdetto, con le molestie arrecate ad un terzo che aveva preso in locazione il garage dalla usufruttuaria;

b) altra lesione del patrimonio della donante era derivata dalla sparizione dei vasi di fiori e dalla distruzione delle piante nel cortile comune del fabbricato, condotte oggetto di più procedimenti penali, di cui uno per il reato ex art. 612 bis c.p. aveva visto anche l’adozione della misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, successiva aggravata con l’applicazione degli arresti domiciliari in ragione di comportamenti aggressivi di Marco (OMISSIS) in danno di Wanda (OMISSIS), accertati mediante filmati dell’impianto di videosorveglianza installato nello stabile.

Marco (OMISSIS) propose appello in sei motivi contestando che le risultanze istruttorie (quanto al giudizio possessorio per spoglio, alle successive molestie al locatore del garage, alle spese sostenute per la gestione del compendio immobiliare, ai dissidi con la zia che erano sfociati nei vari procedimenti penali) giustificassero la revocazione per ingratitudine.

La Corte d’appello di L’Aquila ha confermato la sentenza di primo grado, ritenendo che integrassero gli estremi di cui all’art. 801 c.c.:

– i fatti di spoglio accertati dall’ordinanza di reintegrazione del 6 marzo 2009 non impugnata;

– i fatti emersi dalla testimonianza di Carlo (OMISSIS), da cui risultava che il locatore del garage aveva rilasciato lo stesso dopo una discussione avuta con Marco (OMISSIS);

– i fatti emergenti dalle ordinanze del 14 gennaio e dell’11 aprile 2014 di applicazione delle misure coercitive personali emesse dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pescara, attinenti a condotte aggressive documentate da filmati di videosorveglianza.

Il ricorso è stato deciso in camera di consiglio procedendo nelle forme di cui all’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 801 c.c. in relazione agli artt. 1168 e 1170 c.c., nonché l’omesso esame circa il fatto ricostruito nell’ordinanza interdittale 6 marzo 2009 del Tribunale di Pescara, relativa al giudizio possessorio R.G. n. 1532/2008.

Si assume che la Corte di Pescara avrebbe errato nel considerare ingiurioso nei confronti della donante Wanda (OMISSIS) il comportamento tenuto dal donatario, consistente nell’impossessamento del garage oggetto di usufrutto di quest’ultima, in quanto non vi sarebbe stato l’animus di ledere il patrimonio della stessa.

Il secondo motivo di ricorso allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 801 c.c., nonché l’omesso esame circa il fatto decisivo contenuto nella dichiarazione testimoniale di Carlo (OMISSIS) assunta all’udienza del 13 maggio 2011.

Tale testimonianza avrebbe rivelato soltanto l’esistenza di una semplice discussione tra vicini. Il terzo motivo deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in quanto la sentenza impugnata avrebbe ritenuto fondata la domanda di revocazione facendo riferimento anche a fatti ancora oggetto di giudizio penale e non accertati con sentenza passata in giudicato.

Il quarto motivo del ricorso di Marco (OMISSIS) allega la violazione o falsa applicazione del principio della domanda ex art. 99 e 163 c.p.c., avendo i giudici di appello posto a base della decisione fatti nuovi dedotti successivamente all’udienza di trattazione.

Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art 115 c.p.c., non avendo la sentenza impugnata ben valutato le prove proposte dalle parti, ignorando che gli atti prodotti si riferivano a procedimenti penali ancora pendenti.

Il sesto motivo di ricorso censura l’omesso esame circa il fatto decisivo dell’inasprimento dei rapporti tra donante e donatario per fatto colpa della prima.

2. I primi sei motivi di ricorso sono da esaminare congiuntamente, in quanto connessi, e risultano accomunati da diffusi profili di inammissibilità, oltre che comunque infondati.

2.1. I primi sei motivi ripropongono nella sostanza davanti alla Corte di cassazione i sei motivi di appello disattesi nella sentenza impugnata, ed allegano dati di fatto (sovente senza precisare il “come” e il “quando” fossero stati tempestivamente dedotti già nel giudizio di primo, prima della maturazione delle preclusioni, senza così rispettare la previsione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c.), al malcelato fine di sollecitare una rivalutazione delle risultanze probatorie nel senso più favorevole alle tesi difensive del ricorrente, il che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, attività non consentita in sede di legittimità.

Rientra invero nel potere discrezionale del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

Nonostante le rubriche adoperate nei motivi denuncino vizi di violazione di legge, il loro contenuto espositivo non prospetta un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle richiamate norme di diritto, ma allega un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, soltanto sotto il profilo dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

2.2. Peraltro, quanto al primo, al secondo ed al sesto motivo, opera la previsione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, di cui all’art. 348 ter, comma 5, c.p.c., che esclude che possa essere impugnata ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. la sentenza di appello “che conferma la decisione di primo grado” e che, come nella specie, risulti fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della sentenza di primo grado (cd. doppia conforme).

2.3. Lo stesso art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. concerne, comunque, il vizio specifico relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora i fatti storici, rilevanti in causa (nella specie, lo spoglio del garage, il colloquio con Carlo (OMISSIS), le condotte moleste oggetto dei procedimenti penali), siano stati comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. Un. 07/04/2014, n. 8053).

2.4. La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura unicamente nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando il ricorrente intenda lamentare, come avviene nel terzo motivo del ricorso di Marco (OMISSIS), che, a causa di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, la sentenza impugnata abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere.

2.5. La violazione dell’art. 115 c.p.c. può, invece, essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (come si legge nel quinto motivo di ricorso).

2.6. L’allegazione della violazione delle regole sulle preclusioni assertive, adombrata nel quarto motivo del ricorso di Marco (OMISSIS), attiene a questione non oggetto della sentenza impugnata e della quale non si specifica in ricorso, agli effetti dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., “come” e “quando” fosse stata eccepita in primo grado e poi riproposta nell’ambito del devoluto ai giudici di appello ex art. 342 c.p.c.

2.7. Una ordinanza resa nell’ambito di un procedimento possessorio, con cui sia stata accolta una domanda di reintegrazione, ai sensi dell’art. 703 c.p.c. (come nella specie quella del 6 marzo 2009), pur rivestendo una stabilità puramente endoprocessuale, inidonea al giudicato (ex multis, Cass. Sez. 6 – 2, 22/01/2018, n. 1501), ben può essere utilizzata dal giudice di altro processo civile tra le stesse parti per la formazione del proprio convincimento in ordine ai fatti in essa accertati, ove sia ritualmente acquisita, in modo da garantire il contraddittorio.

2.8. Del pari, il giudice di merito, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, ben può avvalersi delle risultanze derivanti da atti di procedimenti penali ancora pendenti nella fase delle indagini preliminari (nella specie, da ordinanze di applicazione di misure coercitive), al fine di trarne indizi idonei a fornire utili elementi di giudizio, valutati, come avvenuto nel presente giudizio, nella loro convergenza globale, in base ad apprezzamento sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, e perciò non sindacabile in sede di legittimità (arg. da Cass. Sez. 3, 19/07/2019, n. 19521).

2.9. Al fondo, la Corte d’appello di L’Aquila, confermando l’accoglimento della domanda proposta da Wanda (OMISSIS), ha così congruamente argomentato che il Tribunale aveva pronunciato sugli elementi di fatto e le ragioni di diritto posti a fondamento della pretesa, ovvero sulla sussistenza dell’ingiuria grave e del grave pregiudizio al patrimonio della donante, elementi ritenuti decisivi per l’accoglimento della domanda di revocazione della donazione.

La decisione della questione di diritto effettuata dai giudici d’appello è conforme all’interpretazione giurisprudenziale costante di questa Corte, ciò con riguardo alle astratte fattispecie di legge invocate a parametro della correttezza della sentenza impugnata, essendo, come detto, aspetto estraneo al vizio di violazione di norme di diritto quello della ridefinizione dei contorni di fatto della vicenda concreta da giudicare.

Il grave pregiudizio al patrimonio del donante dolosamente arrecato dal donatario, richiesto, ex art. 801 c.c., quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, deve essere causato con il deliberato proposito di danneggiare il donante e tenendo altresì conto della situazione economica di quest’ultimo.

Occorre comunque che si tratti di comportamenti frutto esclusivamente dell’animosità e dell’avversione nutrite dal donatario avverso il donante, sicché può ravvisarsi il deliberato proposito di danneggiare il donante stesso in presenza di condotte consistenti, come nella specie, nel violento o occulto spoglio del possesso dei beni di quest’ultimo.

Quanto all’ingiuria grave, distinto presupposto per la revocazione per ingratitudine ex art. 801 c.c., essa, pur mutuando dal diritto penale il suo significato intrinseco e l’individuazione del bene leso, tuttavia si distacca dalle previsioni degli artt. 594 (previgente; ora art. 4, comma 1, lettera a, d.lgs. n. 7 del 2016) e 595 c.p. e consiste in un comportamento suscettibile di ledere in modo rilevante il patrimonio morale del donante ed espressivo di un reale sentimento di avversione da parte del donatario, tale da ripugnare alla coscienza collettiva, il cui apprezzamento è peraltro riservato alla valutazione del giudice del merito.

Tale presupposto ben può essere desunto da accadimenti che, per il contesto in cui si sono verificati e per una situazione oggettiva di aspri contrasti esistenti tra le parti, possono essere ricondotti, come nella specie, ad atti persecutori espressione di quella profonda e radicata avversione verso il donante che costituisce il fondamento della revocazione della donazione per ingratitudine (Cass. Sez. 2, 13/08/2018, n. 20722; Cass. Sez. 2, 31/10/2016, n. 22013; Cass. Sez. 2, 31/03/2011, n. 7487; Cass. Sez. 2, 24/06/2008, n. 17188; Cass. Sez. 2, 28/05/2008,n. 14093; Cass. Sez. 2, 05/04/2005, n. 7033).

3. Il settimo motivo di ricorso lamenta l’inosservanza delle Tabelle dei Parametri Forensi nella liquidazione delle spese effettuata dalla Corte d’appello.

Le censura critica la liquidazione dell’importo complessivo di € 13.000,00, dovendosi decurtare sia la fase di trattazione “che non vi è stata”, sia congrua parte della fase decisionale, svoltasi con rinuncia al deposito di conclusionali e repliche.

3.1. Il motivo è inammissibile, in quanto il ricorrente non specifica né il valore della causa, necessario ai fini dell’individuazione dello scaglione di tariffa applicabile, né quindi le voci e gli importi tariffari considerati, in ordine ai quali la Corte d’appello sarebbe incorsa in errore, indicazioni necessarie per consentire il controllo in sede di legittimità, senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti, giacché l’eventuale violazione della tariffa integra un’ipotesi di “error in iudicando” e non “in procedendo“.

D’altro canto, ai fini della liquidazione del compenso spettante al difensore per la fase istruttoria e per la fase decisionale, rilevano tutte quella attività difensive che l’art. 4, comma 5, lett. c) e d), del d.m. n. 55 del 2014 include in dette fasi.

4. Il ricorso va perciò rigettato e il ricorrente va condannato a rimborsare ai controricorrenti le spese del giudizio di cassazione.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi € 7.500,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1° marzo 2022.

Depositato in Cancelleria, il 21 marzo 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.