Riflettori della Cassazione puntati sulla legittimità costituzionale del 41-bis (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 7 febbraio 2023, n. 5363).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TARDIO Angela – Presidente

Dott. FIORDALISI Domenico – Consigliere

Dott. CENTOFANTI Francesco – Consigliere

Dott. CAIRO Antonio – Rel. Consigliere

Dott. TOSCANI Eva –  Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MESSINA DARIO nato a MAZARA DEL VALLO il 07/11/19xx;

avverso l’ordinanza del 16/09/2021 del TRIB. SORVEGLIANZA di ROMA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ANTONIO CAIRO;

lette le conclusioni del PG, Dott.ssa Mariaemanuela Guerra, dichiararsi inammissibile il ricorso;

RITENUTO IN FATTO

Il Tribunale di sorveglianza di Roma è stato investito del reclamo avverso il decreto ministeriale del 4 febbraio 2019 con cui è stata applicata a Messina Dario la misura del regime di cui all’art. 41-bis ord. pen.

Messina è detenuto in regime di custodia cautelare in carcere emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo in data 10/05/2018 per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, con ruolo apicale.

La difesa ha proposto reclamo evidenziando l’infondatezza del provvedimento ministeriale e assumendo la mancanza di elementi certi a documentare il ruolo di referente locale della cosca insediata a Mazara del Vallo.

Del resto, ha osservato il reclamante che la condanna per il delitto di omicidio era oggetto del giudizio di revisione.

Il Tribunale di sorveglianza di Roma ha respinto il reclamo con ordinanza del 4 giugno 2020 e la Corte di cassazione con sentenza del 2/12/2020 rilevando una violazione del principio del contraddittorio ha annullato con rinvio la decisione restituendo gli atti al Tribunale di sorveglianza di Roma per un nuovo esame.

L’anzidetto Tribunale ha ritenuto legittimo il decreto ministeriale impugnato confermandone la validità.

La ratio della misura di specie si concretizza nella sospensione delle regole del trattamento penitenziario, assicurando essa misura un intervento di prevenzione; ciò al fine di evitare che il detenuto possa veicolare all’esterno notizie o informazioni di valenza associativa ovvero mantenere collegamenti con il gruppo criminale di provenienza, contattando gli appartenenti in condizione di libertà.

L’adito Tribunale ha ritenuto che il provvedimento ministeriale fosse immune da ogni eccezione.

Esso ha dato conto delle ragioni per le quali Messina Dario si dovesse ritenere esponente di cosa nostra e in particolare vertice del nucleo mafioso operante a Mazara del Vallo, avendo egli preso il ruolo di Gondola Vito.

Nè era mutato il ruolo di appartenenza al clan da parte di Messina, neppure alla luce della detenzione subita.

D’altro canto, l’intraneità associativa era valorizzata dall’essere Messina Dario nipote di Consiglio Giovan Battista, coinvolto nell’attentato a Maurizio Costanzo, avendo egli trasportato a Roma le armi e gli esplosivi necessari per l’azione.

Non vale l’argomentare a discarico di Messina sulla incesuratezza dei membri della famiglia essendo stato provato il contrario anche con sentenze di condanna in cosa giudicata.

La designazione, poi, di Messina quale capo mandamento era stata effettuata da Gondola Vito a sua volta erede di Mariano Agate, soggetto molto vicino a Totò Riina che aveva trascorso, proprio a Mazara del Vallo, una parte considerevole della sua latitanza.

2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso l’interessato a mezzo del difensore, avvocato Luca (OMISSIS), chiedendone l’annullamento.

2.1. Ha formulato, innanzitutto, questione di legittimità costituzionale dell’art. 41 bis L. 26 luglio 1975, n. 354, per violazione delle norme di cui agli artt. 2, 3, 13, 24, 111 e 117 Cost., nella parte in cui assegna all’autorità ministeriale, e non a quella giudiziaria, la competenza ad emettere una misura che, per natura giuridica e finalità, oltre che per l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità e dottrinale, rientra nel novero delle misure di prevenzione personali.

L’applicazione della misura di prevenzione spetta all’Autorità giudiziaria e non al Ministro espressione del potere politico.

Nella specie, dunque, la questione risulta rilevante.

Quanto alla non manifesta infondatezza il corpus delle misure di prevenzione, frutto di una stratificazione più che cinquantennale, ha indotto la giurisprudenza ad affermare la regola di giurisdizionalizzazione dell’applicazione di esse.

Né risulta chiara, a fronte di una evoluzione come quella indicata, la ragione per la quale non si debba ritenere applicabile essa regola anche al detenuto cui sia stata imposta la misura di cui all’art,41-bis L. 26 luglio 1975, n. 354.

Lo stesso provvedimento impugnato segnala che il regime differenziato costituisce “misura di prevenzione”, e la non manifesta infondatezza va delibata dal giudice a quo, senza operare uno scrutinio approfondito sulla consistenza della questione, scrutinio che, ovviamente spetta alla Corte costituzionale.

Priva della funzione di aggravamento della pena la disciplina positiva conferma che il regime ex art. 41-bis ord. pen. presenta le caratteristiche ontologicamente proprie della misura di prevenzione personale.

Quanto ai presupposti, richiede una forma di pericolosità sociale in soggetti che non devono necessariamente essere stati già definitivamente condannati, potendo essere sottoposti anche a sola misura cautelare custodiale, e negli effetti l’applicazione del regime detentivo differenziato limita i diritti di libertà personale del soggetto.

Occorre richiamare al riguardo quanto già affermato dalla Corte costituzionale (ord. n. 2/56, n. 23/64, n. 68/64; ord. 12 novembre 1987 n. 384, ord. n. 499/1987) sulla necessità che le misure di prevenzione, in quanto incidenti sulla libertà personale, siano assistite dalla garanzia dell’intervento dell’autorità giudiziaria.

Pertanto, per rispettare i dettami costituzionali, anche tale misura dovrebbe essere applicata all’esito di procedura giurisdizionalizzata, contraddistinta dal contraddittorio reale e non apparente, soprattutto in tema di formazione della prova sui presupposti applicativi per garantire effettività al diritto di difesa.

La questione è dunque certamente rilevante e non manifestamente infondata.

2.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione della legge penale e di quella processuale e in particolare la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen. e 14 ter ord. pen..

Il ricorrente non può essere accostato alla figura di Matteo Messina Denaro.

Anche i contatti con il capo-mandamento, Vito Gondola, non risultano indicativi essendo un soggetto deceduto da almeno quattro anni. Da ciò la conseguenza che l’impianto motivazionale dell’ordinanza impugnata risulta vago e a-specifico.

2.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione del diritto a difendersi provando.

Il Tribunale avrebbe escluso la possibilità di articolazione delle prove, pur non essendo il reclamo un mezzo di impugnazione a devoluzione vincolata.

I mezzi di prova avevano carattere di potenziale decisività per escludere la condizione di pericolosità attuale del ricorrente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e non merita accoglimento.

1.1. Il primo motivo, con cui si critica la motivazione, erronea e superficiale, del provvedimento avversato, che ha escluso le censure di incostituzionalità, qui riproposte, dell’art. 41-bis ord. pen., con riferimento alla riserva di giurisdizione in materia di libertà personale, è destituito di fondamento.

Va, tuttavia, rettificata la motivazione dell’ordinanza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che non fosse prospettabile l’anzidetta questione di legittimità costituzionale, in sede di giudizio di rinvio.

La questione può essere, contrariamente, proposta anche in quella sede e va, dunque, qui esaminata.

Nella specie la Corte di cassazione aveva disposto l’annullamento senza rinvio per ragioni processuali ed in particolare per violazione della regola del contraddittorio di cui all’art. 666, comma 4, cod. proc. pen., essendo stata operata la decisione in assenza del difensore non ritualmente citato per l’udienza in camera di consiglio.

La pregiudiziale costituzionale si sarebbe, pertanto, potuta proporre e il Tribunale di sorveglianza avrebbe avuto obbligo di esaminarla nei termini prospettati.

Da ciò discende che., trattandosi di un tema che la Corte di cassazione può rilevare anche d’ufficio, è suscettibile d’esame in questa sede. Essa non è limitata né dal motivo nuovo prospettato dalla parte, né dall’annullamento a cui si è fatto cenno.

Non è, invero, necessario che si provveda alla restituzione degli atti al giudice di merito in funzione della valutazione sul portato della eccezione di costituzionalità.

La medesima questione di legittimità costituzionale è già stata ripetutamente affrontata e decisa da questa Corte (Sez. 1, n. 18791 del 06/02/2015, Caporrimo, Rv. 263508, in motivazione; sez. 1, n. 50723 del 2014, n.m.); da ultimo, con sentenza n. 3447 del 27 novembre 2017, Tagliavia, n.m., con argomentazioni dal Collegio interamente condivise; ancora, si è ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. pen., in relazione agli artt.2, 3, 13, 24, 111 e 117 Cost., nella parte in cui assegna al Ministro della giustizia, e non all’autorità giudiziaria, la competenza a disporre l’applicazione o la proroga del regime detentivo speciale, trattandosi di misura non assimilabile alle misure di prevenzione personali, adottata, o prorogata, con provvedimento autonomamente e congruamente motivato, reclamabile davanti all’autorità giudiziaria, all’esito di un procedimento camerale partecipato (Sez. 1, Sentenza nr. 29143, del 22/06/2020 Libri, Rv. 279792).

Deve ribadirsi la differenza strutturale tra l’istituto di cui all’art. 41-bis e la misura di prevenzione in senso stretto.

Sono individuabili plurimi profili di differenza tra gli istituti a raffronto quanto a presupposti giustificativi e funzioni; sotto il primo profilo, l’art. 41-bis ord. pen. postula la ricorrenza di condizioni oggettive di emergenza e sicurezza pubbliche ed altre soggettive riguardanti il detenuto, derivanti dalla condanna o dalla sottoposizione a misura coercitiva custodiale per reati di particolare gravità e motivo di allarme sociale, oltre che la perdurante esistenza ed operatività dell’organizzazione cui egli appartiene.

Le misure di prevenzione vengono imposte per fronteggiare il rischio della commissione di reati nei confronti di chi sia ritenuto pericoloso in dipendenza, non necessariamente di condanne o di misure cautelari, ma dello stile di vita.

Anche negli effetti va osservato che la sospensione delle regole detentive ordinarie riguarda l’esecuzione della pena nei confronti di quei detenuti che manifestino capacità di mantenere collegamenti con le associazioni di appartenenza e dì trasmettere ordini e direttive all’esterno del carcere. Ciò comporta una limitazione dei diritti soggettivi, non già la loro radicale privazione.

Sulla scorta di tali presupposti e del rilievo secondo il quale il regime detentivo differenziato non viene imposto in via automatica a tutti i detenuti che abbiano riportato condanna per determinati titoli di reato, ma selettivamente a coloro di essi che presentino caratteristiche personali e specifiche di pericolosità, legate alla loro appartenenza ad organizzazioni criminali strutturate, distinguendoli dai comuni soggetti sottoposti a pena detentiva.

Va escluso che la norma di cui all’art. 41-bis si ponga in contrasto con i principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost. e che sussista una riconoscibile e censurabile disparità di trattamento, rispetto al sistema delle misure di prevenzione, sotto il profilo dell’adozione del provvedimento impositivo di tale regime o della sua proroga da parte dell’autorità amministrativa, anziché per decisione giudiziale come, invece, previsto per le misure di prevenzione.

Non sussiste nemmeno il denunciato contrasto tra la disposizione dell’art. 41 bis ord. pen. ed i parametri costituzionali, rappresentati dagli artt. 111 e 117 Cost., poiché, sebbene il regime detentivo differenziato sia imposto con provvedimento amministrativo, lo stesso, anche se sia autorizzata la proroga, deve essere supportato da autonoma e congrua motivazione in ordine alla permanenza dei pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica e la possibilità del suo riesame in funzione della tutela del sottoposto, ammesso ad esercitare il diritto di difesa senza limitazioni.

Tale tutela è assicurata in sede giurisdizionale mediante la previsione dell’istituto del reclamo innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria, che provvede all’esito della procedura camerale partecipata.

1.2. La Corte costituzionale (sentenza n. 349 del 1993) ha specificamente esaminato la disposizione di cui all’art. 41-bis ord. pen., e ha escluso che vi fosse frizione di costituzionalità per lesione della riserva di giurisdizione sancita dall’art. 13, secondo comma, Cost., nella parte in cui attribuisce al Ministro della giustizia di incidere in peius sulla pena e sul grado di libertà del detenuto, osservando che la corretta lettura della norma non può che limitare il potere attribuito al Ministro alla sola sospensione di quelle medesime regole ed istituti che già nell’Ordinamento penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime di detenzione in senso stretto.

Eventuali variazioni di tale regime possono comportare evidentemente un maggiore o minore contenuto afflittivo per chi ad esse è assoggettato, proprio perché un certo grado dì flessibilità può rivelarsi necessario sia ai fini di rieducazione del detenuto che per l’ordine e la sicurezza interni, ma nel novero delle misure attualmente previste dall’Ordinamento penitenziario esse non esulano dall’ambito delle modalità di esecuzione di un titolo di detenzione già adottato con le previste garanzie costituzionali.

La Corte cost. (n. 410 del 1993) ha evidenziato come nell’ambito dell’ordinamento penitenziario sia già espressamente previsto un tipo di regime detentivo -il regime di sorveglianza particolare- disciplinato dagli artt. 14-bis e seguenti, che nella sua concreta applicazione assume un contenuto largamente coincidente con il regime differenziato introdotto con il provvedimento ex art. 41-bis, secondo comma, di sospensione del trattamento penitenziario.

Pertanto “è di intuitiva evidenza che il potere esercitato serve, in entrambi i casi, a consentire all’Amministrazione penitenziaria di predisporre uno strumento di particolare rigore mediante il quale fronteggiare la pericolosità di ben determinate categorie di detenuti”.

Né può discutersi (Corte cost. n. 351 del 1996) del fatto che l’applicazione della norma, nei confronti dei singoli detenuti, è rimessa all’autorità amministrativa, salvo il sindacato giurisdizionale che l’ordinamento penitenziario prevede in via generale sull’operato dell’amministrazione penitenziaria.

La legge consente all’amministrazione di disporre un regime derogatorio rispetto a quello ordinario così instaurando un trattamento rientrante nell’ambito di competenza dell’amministrazione penitenziaria stessa, nella logica della differenziazione del trattamento detentivo.

Avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 41-bis, pur in assenza di espressa previsione normativa, la tutela dei diritti soggettivi costituzionalmente garantiti del detenuto deve ritenersi assicurata mediante lo strumento del reclamo, proponibile all’autorità giudiziaria ordinaria.

Tali indicazioni consentono di ritenere la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 41-bis ord. pen. prospettata dal ricorrente, che ripropone tematiche già risolte dal giudice delle leggi e già affrontate e respinte da questo giudice di legittimità.

2. Le censure residue sono inammissibili perché generiche e manifestamente infondate.

2.1. La giustificazione della decisione impugnata non è affatto mancante e neppure carente o apparente, ma risulta anzi esaustiva e conforme ai principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza.

Il Tribunale ha motivatamente affermato che doveva ritenersi persistente la pericolosità qualificata e la capacità del condannato di mantenere collegamenti con l’associazione criminale d’appartenenza sulla scorta degli specifici elementi indicati nel decreto ministeriale, costituiti: dal ruolo di vertice ricoperto dal ricorrente nell’omonima cosca mafiosa operante nel territorio di Mazara del Vallo e zone limitrofe, della quale aveva assunto la reggenza per investitura fattane dal suo predecessore; dalla serie di rapporti con Vito Gondola, erede di Agate Mariano che, a sua volta era un soggetto vicino a Salvatore Riina.

Il decreto ministeriale, dunque, valorizza una rete locale di affiliati che ha, altresì, favorito la latitanza di Matteo Messina Denaro con cui Gondola aveva, da sempre, operato.

Da ciò discende l’esistenza del clan mafioso e una rapidissima ascesa di Messina Dario che giungeva a un ruolo di vertice con capacità d’impartire direttive ed ordini anche dall’interno dell’ambiente carcerario.

Sul punto il ricorso è manifestamente infondato, laddove afferma la violazione dell’art. 41-bis ord. pen, e l’insussistenza di motivazione sugli elementi capaci di giustificare il regime differenziato.

D’altro canto, la critica elaborata in ricorso risulta generica ed aspecifica non coordinandosi con la motivazione del provvedimento impugnato e non sviluppando un’effettiva elaborazione dei dati valorizzati per inferire la capacità di trattenere collegamenti con il contesto criminale di riferimento.

3. Egualmente generico è il terzo motivo di ricorso, caratterizzato, tra l’altro, da un dato di marcata a-specificità.

Il ricorrente lamenta, invero, la violazione del diritto a difendersi “provando”, in ragione della esclusione della possibilità di articolazione di prove.

Tuttavia si omette di evidenziare il requisito di decisività di esse e l’indicazione specifica, spiegando quale ruolo ciascuna avrebbe avuto nell’iter logico-giuridico della motivazione.

4. Per le considerazioni svolte il ricorso va respinto con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso nella camera di consiglio del 20/04/2022.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.

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Stante l’interesse pubblico della sentenza, ut supra, relativa a fatti di cronaca che hanno interessato l’opinione pubblica nazionale e non, si omette l’oscuramento dei dati relative alle persone coinvolte in citata sentenza.