Sacra Corona Unita (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 21 settembre 2020, n. 26375).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SABEONE Gerardo – Presidente –

Dott. MAZZITELLI Caterina – Consigliere –

Dott. MORELLI Francesca – Consigliere –

Dott. SCARLINI Enrico Vittorio Stanislao – Rel. Consigliere –

Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ROMANO ANDREA nato a BRINDISI il 11/06/1986;

avverso l’ordinanza del 10/03/2020 del TRIB. LIBERTÀ di LECCE;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Enrico Vittorio Stanislao SCARLINI;

sentite le conclusioni del PG, nella persona del Pubblico Ministero Dott. FERDINANDO LIGNOLA che conclude per l’inammissibilità;

udito il difensore l’avv. Cinzia Cavallo si riporta ai motivi e alla memoria già trasmessa e insiste per l’accoglimento.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 10 marzo 2020, il Tribunale di Lecce, sezione per il riesame, confermava il provvedimento con il quale il Gip del medesimo Tribunale aveva applicato ad Andrea Romano la misura cautelare della custodia in carcere per i delitti associativi contestatigli ai sensi degli artt. 416 bis cod. pen. e 74 d.P.R. n. 309/1990 (capi 1 e 15), ritenendo concretato il quadro indiziario anche per un delitto fine, di tentata estorsione aggravata (capo 5).

1.1. In risposta ai motivi di riesame, il Tribunale osservava quanto segue.

Dalle attività di intercettazione era emersa l’esistenza di un’associazione a delinquere, operante nella città di Brindisi, capeggiata dal ricorrente e dal coindagato Alessandro Coffa, con le caratteristiche proprie di un sodalizio mafioso, quali, fra le altre, la gerarchia interna, il gergo con cui se ne designavano gli appartenenti, il controllo del territorio, l’appoggio reciproco dei compartecipi, l’assistenza ai partecipi carcerati e l’assunzione delle spese di difesa, la punizione degli sgarri, le intimidazioni consumate e la conseguente omertà, la disponibilità di armi.

Dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (citati da pagina 7 dell’ordinanza), intranei alla consorteria mafiosa della Sacra Corona Unita, si era dedotta l’appartenenza a tale sodalizio storico dei capi del clan, lo stesso Romano ed Alessandro Coffa, e la struttura del nuovo clan.

A ciò si aggiungevano i pizzini sequestrati a Prete e Carparelli il 13 novembre 2014 contenenti le istruzioni impartite dal prevenuto ai propri sodali.

Le conversazioni citate da pagina 14 attestavano come il clan fosse stabile ed ordinato gerarchicamente e come operasse sul territorio con metodo mafioso, come dimostravano anche le numerose estorsioni consumate. Come vi fosse una cassa comune (pag. 22) e come il gruppo disponesse di armi (pag. 24).

Nel contempo, il sodalizio aveva costituito anche una associazione volta al traffico di stupefacenti (pag. 26), come era confermato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dalle conversazioni intercettate.

Le sostanze erano gestite da Alessandro Coffa che, nella sua abitazione, presiedeva alle riunioni, impartiva le direttive, sovraintendeva al taglio ed al confezionamento delle dosi. Dosi che venivano poi affidate ai partecipi che le consegnavano agli spacciatori al dettaglio. Un’associazione che faceva capo e rispondeva, comunque, oltre al Coffa, al Romano stesso.

1.2. Quanto agli elementi a carico dell’indagato (pag. 28) si citavano le conversazioni che ne dimostravano il ruolo di vertice dell’associazione da lui stesso costituita, con Alessandro Coffa (fino a pagina 38 dell’ordinanza impugnata e poi ancora fino a pagina 44).

Ruolo che era stato mantenuto anche durante la latitanza grazie al continuo contatto con quei partecipi che ne trasmettevano le direttive, avvalendosi anche della complicità della moglie, Angela Coffa, sorella di Alessandro Coffa.

1.3. Le conversazioni intercettate (da pag. 45) costituivano il fondamento indiziario anche del delitto contestato al capo 5, la tentata estorsione aggravata.

1.4. Le esigenze di cautela venivano individuate (da pag. 49) nel pericolo di recidiva che muoveva sia dalle presunzioni dettate dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. sia dal ruolo di vertice rivestito nel gruppo dall’indagato, sia considerando le gravi accuse mosse al Romano in altri procedimenti ancora in corso di celebrazione.

2. Propone ricorso l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando le proprie censure in tre motivi.

2.1. Con il primo deduce la violazione di legge ed il difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in riferimento al capo 1 della rubrica, il delitto punito dall’art. 416 bis cod. pen..

Le conversazioni intercettate deponevano solo per l’esistenza di un gruppo familiare i cui componenti erano dediti alla consumazione di delitti di piccola criminalità.

Erano del tutto assenti gli elementi di fatto che avrebbero consentito di ritenere la mafiosità di tale sodalizio.

Non si era, infatti, dimostrata la reale capacità di intimidazione a danno del contesto sociale in cui aveva operato.

Né si era provato che esistesse una stabile organizzazione di persone, come si è detto altrimenti legate da vincoli familiari, allo scopo di consumare gli ipotizzati delitti fine.

La presunta affiliazione alla Sacra Corona Unita dell’indagato e di Alessandro Coffa risaliva, al più, a dieci anni prima dei fatti.

I pizzini contenevano solo l’invito ai destinatari a recuperare le somme di denaro derivanti dal traffico di stupefacenti, al solo scopo di destinarle al sostentamento di un detenuto, del Romano stesso, latitante, e di un altro latitante. Il gruppo poi non disponeva di armi. Nell’omicidio Tedesco, infatti, era solo una l’arma che era stata utilizzata.

2.2. Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione al quadro indiziario raccolto in riferimento al capo 15, il delitto associativo riguardante il traffico di stupefacenti.

Non si era formato alcun concreto quadro probatorio in ordine all’esistenza dell’ipotizzata associazione, dovendosi ritenere che i singoli delitti di traffico di stupefacenti non fossero stati realizzati in esecuzione di un preordinato programma criminale ma solo in virtù di singolo accordo inerente a quella specifica quantità di stupefacente.

Né si erano individuati elementi che consentissero di affermare che Romano ne fosse stato uno dei partecipi.

2.3. Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge ed il difetto di motivazione in tema di valutazione delle esigenze di cautela, non considerando adeguatamente il decorso del lungo lasso di tempo dalla consumazione di fatti ascritti, da considerarsi anche in presenza delle presunzioni di legge.

3. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria con la quale insiste sui motivi di ricorso, assumendo, inoltre, che:

– l’attività investigativa aveva consentito solo di disvelare singoli fatti di traffico di stupefacente non evidenziando alcun elemento da cui potesse trarsi la prova della configurabilità dell’ipotesi associativa punita dall’art. 416 bis cod. pen., dovendosi anche considerare il rapporto parentale che legava la gran parte degli ipotizzati partecipi, l’assoluta assenza di assoggettamento nei confronti dei debitori, il mancato utilizzo della supposta forza intimidatrice del gruppo, la mancata contestazione, o l’esclusione, dell’aggravante specifica sia nel procedimento conseguente all’omicidio Tedesco (fatto per il quale Romano era latitante), sia in quello relativo al favoreggiamento della latitanza del Romano;

– la dedotta appartenenza del Romano alla Sacra Corona Unita risaliva a oltre dieci anni prima dei fatti;

– le esigenze di cautela erano motivate in modo del tutto apodittico facendo riferimento a fatti precedenti all’informativa di polizia giudiziaria del 22 marzo 2016.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso promosso nell’interesse del Romano è inammissibile.

1. Si deve, innanzitutto, ricordare che questa Corte ha, costantemente, avuto modo di affermare che, in tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione per vizio di motivazione del provvedimento del tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza consente al giudice di legittimità, in relazione alla peculiare natura del giudizio ed ai limiti che ad esso ineriscono, la sola verifica delle censure inerenti la adeguatezza delle ragioni addotte dal giudice di merito ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie e non il controllo di quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito (da ultimo: Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, Mazzelli, Rv. 276976).

2. Dall’applicazione di tale ineludibile principio di diritto, ne deriva la manifesta infondatezza dei primi due motivi di ricorso considerando, appunto, che con gli stessi la difesa si limita a proporre una diversa lettura del compendio indiziario già, invece, adeguatamente valutato dal Tribunale.

2.1. Quanto ai primi due motivi, spesi sulla ritenuta appartenenza del Ruggiero alle due associazioni a delinquere, il Tribunale aveva osservato, con motivazione rispondente ai canoni normativi di valutazione delle prove, che:

– il contributo dichiarativo offerto dai collaboratori di giustizia consentiva di concludere per l’esistenza di una associazione di carattere mafioso, capeggiata da Romano e Coffa, sia considerando i loro legami con lo storico sodalizio della Sacra Corona Unita, sia deducendone il carattere dall’assoggettamento omertoso rivelato dalle estorsioni consumate ai danni di numerosi operatori economici e dal traffico di stupefacenti gestito in piazze dal medesimo controllate;

– i medesimi contributi dichiarativi e le ulteriori attività di indagine avevano consentito inoltre di individuare un traffico di stupefacenti gestito da alcuni degli esponenti del sodalizio mafioso, con a capo Alessandro Coffa ed il Romano stesso, anch’esso caratterizzato da una rigida divisione dei compiti e da una stabilità del vincolo (non certo inficiata dal peraltro non brevissimo periodo di tempo in cui le indagini si erano sviluppate).

Così che del tutto prive di fondamento risultano le argomentazioni difensive (spese sia nel ricorso sia nella memoria) che pretendono di parcellizzare il compendio probatorio, sostenendo, per un verso, la mancata prova dell’esistenza della associazione mafiosa per l’assenza del necessario controllo del territorio e del conseguente assoggettamento omertoso e, per l’altro, la riconducibilità dell’imponente traffico di stupefacenti all’occasione concorso dei singoli piuttosto che alla costituita organizzazione criminale.

Né risultano rilevanti ai fini del decidere sull’odierna misura di cautela gli esiti dei diversi procedimenti citati nella memoria, avendo questi avuto per oggetto singoli fatti di reato e non essendovi pertanto evidenza alcuna che, anche in tali processi, siano stati valutati tutti gli elementi indiziari che il Gip prima ed il Tribunale del riesame poi hanno preso in esame, nell’odierno procedimento, al fine proprio di verificare la configurabilità, seppur solo in sede cautelare, dei contestati delitti associativi.

3. Il terzo motivo di ricorso (e l’ulteriore argomentazione spesa in memoria), sulla ritenuta sussistenza delle esigenze di cautela special preventive, è anch’esso manifestamente infondato perché non affronta adeguatamente la motivazione offerta sul punto dal Tribunale, che, muovendo dalle presunzioni di legge dettate dall’art. 275, comma 3 bis, cod, proc. pen., di adeguatezza della misura, considera poi la gravità e la pluralità degli addebiti, il ruolo di vertice rivestito dal prevenuto in entrambi i contesti associativi, l’assoluta assenza di elementi concreti da cui dedurne l’intervenuta rescissione, le ulteriori denunce per fatti illeciti più recenti che contribuiscono a rendere ancor più attuale l’altrimenti comunque fondato giudizio di pericolosità.

4. All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, versando il medesimo in colpa, della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1 ter, disp. att. cod. proc. .

Così deciso in Roma, il 24 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.