Scatta il metodo mafioso, allorquando il figlio è diventato collaboratore di giustizia, i genitori subiscono aggressioni e ostilità (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 19 novembre 2020, n. 32533).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PALLA Stefano – Presidente

Dott. MAZZITELLI Caterina – Consigliere

Dott. PISTORELLI Luca – Rel. Consigliere

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) Matteo, nato a Bitonto, il xx/xx/19xx;

avverso la sentenza del 27/9/2019 della Corte d’appello di Bari;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Francesca Loy, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Bari ha confermato la condanna di (OMISSIS) Matteo per i reati di tentata violenza privata e lesioni volontarie aggravati ai sensi dell’art. 416-bis. 1 c.p. dal ricorso del metodo mafioso, commessi ai danni di (OMISSIS) Rocco e (OMISSIS) Carmela, genitori di (OMISSIS) Vito Antonio collaboratore di giustizia.

2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato deducendo erronea applicazione della legge penale in merito alla configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 c.p.

In proposito osserva come i fatti contestati sarebbero stati commessi nel contesto dei deteriorati rapporti di vicinato tra l’imputato e le vittime, ma non costituirebbero una ritorsione di stampo mafioso per la collaborazione intrapresa dal figlio della coppia.

Ed infatti, secondo il ricorrente, alcun elemento è stato individuato dalla Corte a sostegno di quella che risulterebbe essere una mera ipotesi suggestiva, ispirata esclusivamente dalle dichiarazioni rese a posteriori dal (OMISSIS) Vito Antonio e rimaste prive di riscontri.

In realtà alcuna evidenza dimostra che l’imputato abbia agito per conto o nell’interesse di una organizzazione mafiosa, condizione invece necessaria per la configurabilità dell’aggravante di cui si tratta, o anche solo la sua vicinanza ad ambienti mafiosi, avendo egli al contrario operato costantemente nell’ambito della microcriminalità, come del resto testimoniato dalla bassa caratura dei precedenti penali da cui risulta gravato.

Peraltro lo stesso “clan Di Cataldo” per conto del quale la sentenza ipotizza abbia agito nemmeno può ritenersi sodalizio effettivamente caratterizzato dalla necessaria connotazione mafiosa assurgendo al più ad una mera associazione a delinquere ordinaria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e deve pertanto essere rigettato.

2. Va anzitutto ricordato come, secondo l’orientamento decisamente maggioritario nella giurisprudenza di questa Corte, l’aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione riconducibile all’art. 416-bis c.p., essendo sufficiente, ai fini della sua configurabilità, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso.

La stessa è pertanto configurabile con riferimento tanto ai reati-fine commessi nell’ambito di un’associazione criminale ,comune, quanto nel caso di reati posti in essere anche da soggetti estranei al contesto associativo (ex multis Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, P.M. in proc. Vicidomini, Rv. 271103; Sez. 2, n. 36431 del 02/07/2019, Bruzzese, Rv. 277033).

In altri termini per la sussistenza dell’aggravante nella forma evocata è sufficiente che la condotta assuma veste tipicamente mafiosa e cioè che l’agente ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere anzidetto (Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013, P.M. in proc. De Paola, Rv. 257065).

3. Conseguentemente infondate sono le censure in diritto svolte dal ricorrente in merito alla mancata dimostrazione di eventuali legami tra l’imputato ed organizzazioni dal comprovato carattere mafioso.

La Corte territoriale ha invece evidenziato i caratteri della condotta attribuita all’imputato – ricostruzione che nella sua oggettività non è stata contestata dal ricorso, nel quale anzi si ammette che il (OMISSIS) si sia reso autore dei fatti addebitatigli – ritenuti idonei e di per sé sufficienti ad integrare l’indicata aggravante, illustrazione con la quale sostanzialmente il ricorso non si è confrontato.

4. La sentenza ha poi valorizzato le dichiarazioni del (OMISSIS) e la vicenda relativa alla sua scelta collaborativa, precisando come tali elementi forniscano una valida spiegazione del contesto in cui è stata realizzata l’azione criminosa, senza però affermare che l’imputato abbia per forza agito per conto del sodalizio dal quale il citato (OMISSIS) si è dissociato, piuttosto che limitarsi a sfruttare tale contesto per propri fini personali, eventualità che di per sé non pregiudica la connotazione oggettiva del metodo utilizzato per minacciare ed aggredire le vittime dei reati contestati.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 27/10/2020.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.